La guerra è finita! O no?

L’isola dell’oceano indiano


Dopo una guerra civile durata 26 anni (1983-2009), lo
Sri Lanka sta ancora cercando la propria strada. La questione dei Tamil – una
minoranza di origini indiane e di fede indù – è lontana dalla soluzione,
soprattutto a causa delle chiusure del governo centrale, arroccato sulle
posizioni della maggioranza singalese-buddhista. Con ciò trascurando anche le
istanze delle altre due minoranze che abitano l’isola, quella
musulmana e quella cristiana.

Quattro anni fa, ufficialmente il 18 maggio 2009, finiva
il quasi trentennale conflitto srilankese. Una guerra civile atroce, in
particolare per il ruolo che la leadership nazionale ha avuto nel
renderla inevitabile e nel precludere ogni possibilità al negoziato utilizzando
in modo massiccio infiltrazioni dei servizi segreti, omicidi extragiudiziari,
tortura e abusi. Un periodo buio in cui la guerriglia tamil ha espropriato
buona parte dei diritti, necessità e aspirazione della più consistente
minoranza isolana, creando un regime di terrore e tenendo i propri connazionali
in ostaggio mentre il conflitto cresceva d’intensità e brutalità. Un tempo di
paura e silenzio che ha segnato la vita del paese, portando alle estreme
conseguenze tendenze che venivano da lontano, durante e prima della
colonizzazione britannica, e proiettandolo verso un sistema di potere semi-dittatoriale
controllato dal presidente. Portando a una situazione tanto fortemente
discriminatoria sul piano interno quanto arrogante e nazionalista su quello
internazionale.

Gli accordi di pace e la provincia tamil

«Quattro anni dopo la fine del conflitto,
deve ancora concretizzarsi la soluzione politica promessa dal governo durante
il conflitto – sostiene Jehan Perera, attivista sociale -. La provincia
settentrionale (a maggioranza tamil), dove fu sparato il primo proiettile del
conflitto e dove è caduto l’ultimo dei combattenti ribelli deve ancora godere
del diritto a dotarsi di un governo provinciale, seppure limitato, come le
altre otto provincie. Un politico pro-governativo ha addirittura avanzato
richiesta alla Corte suprema per chiedere che sia abolito il sistema di
decentralizzazione del potere».

«Questo non è il modo migliore per
perseguire la riconciliazione e per guadagnare il consenso delle minoranze
senza concessioni al nazionalismo srilankese. Mostra invece una miopia che
sfida la gestione corretta del paese. In questo contesto – conclude Perera –
chiamiamo il governo ad assicurare che si tengano le elezioni per il Consiglio
provinciale settentrionale previste a settembre».

Sinhala, Tamil, Mori:  mosaico di etnie e religioni

Considerato fino agli anni Settanta un
esempio di convivenza di etnie e fedi diverse, paese con il più alto reddito
pro-capite in Asia meridionale, lo Sri Lanka è una nazione isolana di 65.610
chilometri quadrati, con 20,3 milioni di abitanti. I Singalesi (Sinhala)
rappresentano il principale gruppo etnico (74 per cento della popolazione) e
sono buddhisti al 90 per cento. Il buddhismo, riconosciuto ufficialmente
religione di stato nel 1972, è strumento identitario ma allo stesso tempo elemento
discriminatorio. In particolare così viene individuato dalle minoranze
religiose, a partire dai Tamil di fede indù, il 17 per cento della popolazione.
I musulmani costituiscono il terzo grande gruppo religioso (9,2 per cento) e
sono anch’essi considerati una etnia a sé (Mori), contrariamente ai cristiani
(7,5 per cento) che, presenti sia tra i Tamil, sia tra i Singalesi, vengono
assimilati etnicamente a questi gruppi. L’origine della violenza che per oltre
un quarto di secolo ha devastato lo Sri Lanka risale alla fine del potere
britannico, nel 1948. La politica del divide et impera e la fine di
antichi equilibri per favorire l’economia coloniale (ad esempio l’immigrazione
di molti Tamil dall’India per lavorare nelle piantagioni di caffè e di tè), non
potevano non avere ripercussioni sull’isola. Gli anni immediatamente successivi
all’indipendenza furono sostanzialmente pacifici, ma questo non impedì
l’emergere di tensioni fra la maggioranza singhalese e la minoranza tamil.
Differenza ma non incompatibilità riconosciuta da un sistema di quote nel
pubblico impiego e nelle università che, eredità coloniale, è stato da sempre
additato dai Tamil come prova del loro essere discriminati.

Le tigri tamil  e la guerra civile

Il 23 luglio 1983, con l’uccisione di 13
soldati singalesi (cui seguì un pogrom anti-tamil che costò la vita a
600 persone e una prima ondata di sfollati), segna la data d’inizio del
conflitto srilakese. Da allora, per 26 anni, il paese ha conosciuto battaglie
campali, guerriglia senza quartiere, gravi abusi dei diritti umani e
distruzione delle infrastrutture economiche, provocando 80-100mila morti e
enormi danni alle proprietà pubbliche e private. Oltre un milione di persone
hanno abbandonato le loro case negli anni del conflitto e in parte non sono mai
rientrati; mezzo milione ha dato origine a folte comunità di profughi
all’estero. La discriminazione è la ragione per cui Vellupillai Prabhakaran,
fondatore nel 1972 delle Nuove Tigri Tamil, milizia che nel 1976 avrebbe preso
il nome di Tigri per la liberazione della patria tamil (Liberation Tigers of
Tamil Eelam
, Ltte) decise di portare all’estremo limite le velleità di
indipendenza della sua gente. Il mito dell’Eelam – una patria tamil nel
Nord e nell’Est dell’isola – diventa negli anni Ottanta l’obiettivo dichiarato
delle Tigri, che utilizzano metodi di guerriglia raffinati e devastanti, come
gli attacchi suicidi su obiettivi militari e civili, e portano a termine azioni
di ampio risalto internazionale, come l’attentato che nel 1991 costò la vita al
primo ministro indiano Rajiv Gandhi (responsabile dell’invio di un corpo si
spedizione militare con intenti pacificatori tra il 1987 e il 1990) e quello
che nel 1993 uccise il presidente srilankese Premadasa.

La «sporca guerra», successiva al 1983,
racconta una storia di interessi in conflitto che hanno alimentato odio e
sospetto tra le comunità. Racconta anche il sostanziale fallimento della
mediazione internazionale per lungo tempo affidata – con altee fortune – a
negoziatori scandinavi. Con una società civile a sua volta vittima del
conflitto (repressa duramente da parte governativa, di fatto cancellata nelle
regioni tamil, se si esclude la presenza della Chiesa), ci sarebbero voluti
anni prima che in settori sempre più ampi della popolazione si affermasse una
nuova volontà di dialogo. Tuttavia… «La fine della guerra ha indubbiamente
migliorato la vita delle persone, che non devono più temere attentati o per la
loro vita come in passato. Ma il paese deve ancora fare i conti con il dolore
collettivo che accompagna ogni conflitto civile», dicono alla «Commissione per
la riconciliazione e le lezioni apprese» (Lessons Leat and Reconciliation
Commission
, Llrc), di iniziativa presidenziale, in un documento che lo
scorso 19 maggio chiedeva che non vi fosse solo una giornata dedicato alla
vittoria sui Tamil, ma anche una ricorrenza in cui ricordare tutte e vittime
del conflitto.

Anche il «Consiglio nazionale per la pace»,
che cornordina diversi gruppi dedicati al dialogo e alla riconciliazione, segnala
come le celebrazioni della vittoria siano state boicottate fino dall’inizio
dalla leadership politica tamil e viste come un ulteriore segnale di
insensibilità del governo verso la sua popolazione multietnica. «La nazione
intera – sostiene il Consiglio – deve comprendere meglio la prospettiva tamil,
le loro perdite materiali e i loro lutti. Capire che non hanno avuto alcun
beneficio dalla vittoria militare». Alla classe politica srilankese
l’organizzazione chiede che, a 4 anni dalla fine del conflitto, il paese trovi
finalmente una propria via alla riconciliazione attraverso un percorso di
negoziato politico e di impegno sincero per guarire le ferite del
conflitto.  «Crediamo – afferma Jehan
Perera, tra i responsabili del gruppo – che, se le raccomandazioni del Llrc
fossero state ascoltate, il governo avrebbe già dovuto cambiare posizione. I
suoi leader avrebbero dovuto smetterla di impegnarsi ancor più nel
trionfalismo etnico e invece concentrarsi sulla commemorazione delle vittime di
un conflitto insensato».

Rajapaksa, un presidente  poco dialogante

Il governo di Colombo finora ha sempre negato
la possibilità di svolgere un’inchiesta internazionale. «Il mondo non saprà mai
con esattezza il numero dei civili innocenti deceduti nell’ultima, sanguinosa
fase del conflitto», ammetteva nel primo anniversario della fine del conflitto
John Holmes, vicesegretario Onu responsabile per gli Affari umanitari. Il mondo
tuttavia si sta muovendo e chiede con insistenza al presidente Mahinda Rajapaksa
e ai suoi ministri di accertare le responsabilità delle violenze, degli abusi,
del soffocamento di diritti e democrazia che hanno accompagnato il conflitto
srilankese. Ad essi sono associate le Tigri che, sul lato opposto, prendendo di
fatto in ostaggio la popolazione tamil, ne hanno usato e abusato senza scrupoli
per perseguire un sogno d’indipendenza prima e di potere esclusivo dei suoi
leader poi. Mentre si manifesta in prospettiva la vera dimensione della
tragedia srilankese, i contrasti tra comunità internazionale e regime di
Colombo sono andati accentuandosi, con toni di insolita durezza. Esiste
certamente un problema di gestione politica. Il presidente Mahinda Rajapaksa
(che è capo dello stato e capo del governo) detiene un potere pressoché assoluto
e continua a negare ogni necessità di indagine internazionale sui crimini
commessi durante il conflitto, accusando invece potenze estee – a partire
dall’India – di non volere riconoscere il loro ruolo nella crescita del
movimento tamil e nel fallimento di ogni negoziato.

A questo, si aggiunge il bavaglio
sull’informazione, accusata di fomentare l’ostilità del mondo verso il paese.
Decine di mass-media sono stati sospesi, chiusi o commissariati, decine di
giornalisti hanno pagato – con la vita (scomparendo senza lasciare traccia) o
con l’esilio – l’impegno a cercare di far prevalere verità e giustizia. Pure
questo è parte di un costante un conflitto tra l’establishment e la
società civile, di cui anche le minoranze religiose, a partire dalla Chiesa
cattolica, hanno spesso denunciato i pericoli per il paese, attirandosi
sospetto e persecuzione. In mancanza di azioni concrete per chiarire tanti
degli aspetti oscuri del conflitto e in particolare riguardo gli abusi sulla
popolazione civile, per il presidente Rajapaksa come per i suoi gregari, civili
e militari, membri del parlamento e ministri parte della sua famiglia o sovente
ad essa connessi, rischia di concretizzarsi un’indagine internazionale e
un’incriminazione per i crimini di guerra e genocidio.

 
Un’economia di speranze deluse

Oggi il regime incentiva il paese a dimenticare passato e
contraddizioni puntando molto sullo sviluppo economico e sulla diffusione del
benessere.

Immediatamente dopo la fine del conflitto, sembrava che il paese
fosse avviato a diventare la prima «tigre economica» in Asia meridionale. Sulla
distanza, la crescita appare moderata e i benefici diseguali e discontinui.
Come conferma il parlamentare dell’opposizione Harsha de Silva, «il paese ha
avuto una possibilità concreta alla fine della guerra, ma non siamo riusciti ad
approfittae. Le nostre politiche non hanno convinto gli investitori stranieri».
Esaurita anche «l’onda lunga» della ricostruzione post-tsunami del 2004 e quasi
prosciugatosi – anche per gli ostacoli al lavoro delle Ong (vedi box) –
l’interesse per la ricostruzione post-bellica delle aree tamil, il paese
arranca sugli obiettivi ufficiali.

Oggi, anche per la situazione internazionale, il governo fatica a
mantenere sotto controllo il suo deficit di bilancio, vicino al 7% del Prodotto
interno lordo, mentre anche il previsto aumento delle entrate fiscali e la
riduzione delle spese correnti segnano il passo. Gli investimenti pubblici,
attorno a 6,6 per cento del Pil sono al momento lo strumento principale per
rilanciare l’economia sotto pressione. «Durante l’anno (2012) è risultato
difficile raggiungere gli obiettivi fiscali a causa della riduzione netta degli
introiti governativi», ha ammesso il governatore della Banca centrale, Nivard
Cabraal, pur insistendo sul fatto che «tutto è pronto per un recupero di quota
nei prossimi anni, a partire da una crescita economica prevista in via
tendenziale al 7,5 per cento contro il 6,4 dello scorso anno». Crisi globale a
parte, lo Sri Lanka può contare su vecchi e nuovi amici interessati a fare
dell’«Isola di Smeraldo» un ponte tra Estremo Oriente e Subcontinente indiano,
ma anche tra Asia Meridionale e Medio Oriente. Puntando magari anche sulla
ripresa del turismo, ancora incerta, che come altri settori economici ha le
potenzialità per riannodare le fila con i successi degli anni Ottanta.

Meno India, più Cina 

Se i rapporti con la vicina India sono andati
raffreddandosi anche per l’atteggiamento critico di Nuova Delhi verso il non
immacolato record di democrazia e diritti umani dell’amministrazione Rajapake,
la presenza di Pechino è invece sempre più imponente, e non solo con un export
massiccio e invadente di prodotti cinesi verso il mercato srilankese.

Pechino, che negli ultimi tempi del conflitto
e fino ad oggi ha sostenuto le ragioni del presidente davanti alle critiche
inteazionali e rafforzato le sue forze armate con un concreto supporto di
materiale bellico, è oggi insieme protettore e partner più qualificato –
in numerosi settori economici, soprattutto nello sviluppo delle infrastrutture
– dell’«Isola di smeraldo».

A questo proposito è significativa la più
recente concessione (a fine maggio) da parte della Banca cinese per lo sviluppo
di una linea di credito di 580 milioni di dollari. 300 milioni da utilizzare
per lo sviluppo della rete stradale, 200 milioni per progetti di
approvvigionamento idrico e il resto per la Scuola economica nazionale. Una
concessione che ha portato il totale dei prestiti della Banca a 1,4 miliardi di
dollari.

Stefano
Vecchia

       La Chiesa cattolica                                   
Una presenza trasversale 
 

La cattolicità srilankese conta 1,2 milioni di fedeli ed è
organizzata in 11 diocesi, inclusa l’arcidiocesi di Colombo, 391 parrocchie
affidate a 955 sacerdoti coadiuvati da 626 religiosi e 2.300 religiose. La
Chiesa cattolica è da sempre attiva sui «fronti» del dialogo interreligioso,
dello sviluppo socio-culturale e della difesa dei diritti umani e delle libertà
civili. Vivendo però anche al suo interno tensioni e contraddizioni parallele a
quelle della società. La tensione tra l’anima «sociale» e quella più «istituzionale»,
infatti si è affiancata alla varia appartenenza etnica del clero e della
diversa attenzione verso le richieste, e sovente le imposizioni, del regime
negli anni del conflitto. Presenza di fede trasversale alle varie etnie del
paese (con l’esclusione dei Mori islamizzati), ma concentrata sulle coste
occidentale e nord-occidentale dell’isola, la cattolicità srilankese ha anche
un ruolo importante nel processo di pacificazione, come pure nella
ricostruzione post-tsunami e post-bellica, veicolando soccorsi e iniziative
dall’estero, ad esempio dalla rete Caritas.

Numerose e apprezzate le sue iniziative educative, sanitarie
e socio-culturali che ne fanno un elemento attivo della società e promotrice di
integrazione. Erede di una tradizione religiosa che risale al XVI secolo, la
comunità cattolica si è trovata sovente in contrasto con il cristianesimo
calvinista e anglicano arrivati sull’isola con le dominazioni olandese e
inglese, come testimonia la vicenda di Joseph Vaz, beatificato nel febbraio
1995 da papa Giovanni Paolo II a Colombo. (Ste.Ve.)

      Le (discutibili) iniziative del governo                                     


«Guerra» alle Ong

A metà giugno 2013, il governo ha deciso una revisione delle
Organizzazioni non governative straniere presenti nel paese e maggiori
controlli sulle loro attività. A questo proposito è stato creato un comitato
speciale con il compito di indagare su eventuali accuse e denunce avanzate nei
loro confronti. Contemporaneamente, scatta l’obbligo di registrazione presso un
apposito ufficio governativo.

Le nuove iniziative sono state giustificate dal dipartimento
dell’Informazione con la necessità di «impedire a certe Ong di avviare attività
sediziose che portino a un cambiamento del regime, partecipando ad attività
politiche mentre fingono di impegnarsi in attività sociali». Verso le
organizzazioni che non rispetteranno le nuove direttive, saranno prese misure
legali e, in alcuni casi, è prevista anche l’espulsione dal paese.

Secondo il «Centro d’informazione sulla sicurezza nazionale»,
le Ong impegnate nello Sri Lanka sono un centinaio, ma un buon numero di esse
sarebbero impegnate «in attività contrarie allo stato in collaborazione con
politici dell’opposizione». Sempre secondo il Centro, in diversi casi avrebbero
ottenuto in modo illegale, con la corruzione, la registrazione come
organizzazione non-profit da parte del dipartimento per il Registro delle
aziende.

In vista della revisione, alle Ong è stato chiesto di
preparare un rapporto che spieghi le ragioni della presenza sull’isola,
descriva il loro personale e spieghi entità dei fondi e donazioni ricevute
dall’estero; chiarisca, infine, i loro metodi di lavoro e i piani futuri.

Il sospetto verso le Ong è in parte risultato della più
ampia insofferenza verso le pressioni su presidente e governo affinché
accettino un’indagine internazionale sulle responsabilità, in particolare, per
i massacri di civili e per le esecuzioni extragiudiziarie di militanti tamil
nella fase finale del conflitto. Risente anche dell’impegno delle organizzazioni
umanitarie verso i «perdenti» del conflitto e i rapporti che per questo possono
avere con gruppi e individui che il regime considera ostili, a partire da
leader sociali, religiosi e mass media. Da qui le difficoltà poste anche al
lavoro delle Ong accreditate, incluse quelle d’ispirazione cristiana. (Ste.Ve.)

 

Stefano Vecchia

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