“Hola Guido, mi dispiace disturbarti.
Però, come ti avrà già informato Michel, i miei genitori sono morti di tubercolosi nel
giro di neanche due anni.
Dopo la morte di mio padre, ho chiesto ai miei fratelli di farsi un controllo medico,
affinché fossero sicuri di non essee colpiti. Da quello che so (mi scrivono poco e
quello che mi scrivono mi genera solo dubbi), ora anche Juan si è ammalato di
tubercolosi.
Ho scritto a mia sorella Maria, che vada a casa tua e ti chieda un consiglio medico.
Allo stesso tempo, dovresti dirle quali misure igieniche deve osservare in casa.
Vorrei sapere direttamente da te quello di cui hanno bisogno: controlli medici,
medicine… Se puoi, chiamami dopo la visita a Maria, per dirmi quello che è
necessario”.
Questo è il messaggio inviatomi per posta elettronica da Raul, un ragazzo di Villa El
Salvador (Perú), emigrato in uno dei nostri paesi europei dove si è sposato, lavora, ha
una figlia e una bella casa.
Tempo fa sono stato suo ospite. Ho visto la sua vita normale come quella di ciascuno di
noi, ho sentito i suoi problemi simili a quelli di ciascuno di noi, ma al tempo stesso ho
percepito un fondo di tristezza per la lontananza dal suo paese e per la tragedia che
incombeva sulla sua famiglia e di cui si rendeva conto solo ora che la guardava da
lontano.
Raul era tornato in Perù per il funerale di sua madre e poi non era riuscito a
rientrare per quello di suo padre.
Ricevuto il suo messaggio in Perù, dove mi trovavo per la mia consueta visita, andai
dall’amico Michel Azcueta. Professore di Raul in Villa El Salvador, ex-sindaco della
città, leader politico e grande conoscitore della realtà sociale e politica del Perù,
nonché personaggio di fama internazionale, Michel mi disse che, all’epoca dei
funerali della madre, aveva parlato lungamente con Raul ed era rimasto molto colpito dallo
shock di questi al tornare a Villa dopo anni.
Raul era tornato in Perù dopo 5 anni di Europa e, scontrandosi con la dura realtà
della sua famiglia e della città, ne era rimasto sconvolto. Continuava a ripetere
piangendo che non era possibile vivere e morire così. Raul aveva potuto confrontare i due
mondi e, da ragazzo (ora poco più che trentenne) sensibile e preparato, non aveva retto
il confronto tra le sue due vite.
Con la tubercolosi, malattia infida e legata alla povertà, ho lavorato molto. Dopo il
primo anno e mezzo di lavoro in Perù, tornato a Roma per una vacanza di alcuni giorni
(allora avevo solo 28 anni ed ero un medico alle prime armi), ero andato a trovare, in
cerca di consigli, il medico responsabile del programma di lotta alla tubercolosi
(ex-dispensario) di Roma.
Erano gli anni ’80. Trovai un vecchio medico che mi chiese, colpito dalla mia
visita, del lavoro che facevo, di quanti pazienti vedevo. Finito l’interrogatorio,
disse che non mi poteva dare alcun consiglio perché lui oramai aveva solo uno o due
pazienti tubercolotici al mese, mentre io ero l’esperto visto che ne vedevo uno o due
al giorno.
Il vecchio medico mi disse però un paio di cose importanti: “Guarda collega, la
tubercolosi non è stata sconfitta da noi medici, dalle medicine o dalla vaccinazione. La
tubercolosi in Italia e negli altri paesi europei è stata sconfitta dal miglioramento
dell’alimentazione, dal radicale cambiamento delle case (che ora hanno stanze grandi
con luce e ventilazione), dal maggior livello di educazione delle famiglie, da un ritmo di
lavoro meno stressante e con i giusti riposi. In una parola, è il progresso economico e
sociale, la ricchezza della società che hanno vinto la tubercolosi. Noi abbiamo solo
curato i pazienti”.
José Atencia è un medico che lavora in un Centro di salute (poco più che un
poliambulatorio) di Villa El Salvador. Il Centro appartiene al ministero della Sanità del
Perù e si chiama “Hospital Juan Pablo II”. Opera su un bacino di circa 100 mila
persone. Il dottor José Atencia è l’attuale cornordinatore del programma di lotta
alla tubercolosi.
Dottor Atencia, quanti pazienti sono entrati nel programma nel 2000?
“Circa 180 pazienti provenienti dal territorio di giurisdizione del nostro centro,
che conta 102.966 abitanti. Di questi 180 pazienti un 5/10 per cento è ricaduto”.
Per quali cause tanti pazienti ricadono?
“Fondamentalmente per problemi sociali ed economici. Sono persone che non sono
riuscite a reinserirsi nella società, senza un lavoro stabile e magari con altre persone
da mantenere. Sono persone, il cui apporto nutrizionale non è sufficiente. Ricadono
semplicemente perché continuano a vivere negli stessi luoghi dove endemicamente è
presente la TBC”.
Che caratteristiche hanno questi luoghi endemici?
“Non hanno i servizi di base, non hanno acqua, fognature. Un mese fa ho avuto un
caso tipico, un paziente di 25 anni.
Io gli ho domandato: “Tu stai prendendo regolarmente le medicine. Però il tuo
peso non cresce. Che sta succedendo? Perché non hai più cura di te?”. E lui mi ha
risposto: “Dottore, io prendo le medicine con regolarità. Però devo trovare lavoro
perché ho famiglia. A volte lo trovo per una settimana e la mia famiglia vive tranquilla
per quei giorni. Poi il lavoro finisce e devo cercarne un altro. Dottore, quando cerco
un’occupazione, la cerco dal mattino alla sera. Non me la sento di tornare a casa se
non ho tentato fino alle 10 di notte. Ma ci sono periodi che non trovo nulla. Per una,
due, tre settimane. Quando poi finalmente ci riesco, lavoro magari per un po’ e poi
si ricomincia””.
Come medico non è frustrante lavorare sapendo che, affinché i tuoi pazienti possano
guarire veramente, sarebbe necessario che si alimentassero, che riposassero, che …?
“Sì, è così. È frustrante non dare una soluzione integrale al problema dei
pazienti. La tubercolosi è fondamentalmente un problema dei paesi poveri o impoveriti. Ma
noi possiamo dare soltanto una risposta medica e le medicine. Mensilmente diamo anche un
appoggio nutrizionale con una cesta di viveri. So bene che è un palliativo, però non
possiamo risolvere i problemi economici e sociali dei pazienti. Certo, sapere che
potrebbero ricadere nella tubercolosi perché le condizioni che li hanno portati a questa
malattia permangono, è proprio frustrante”.
Dal punto di vista medico queste ricadute sono potenzialmente pericolose, anche perché
generano resistenza nei batteri. È così?
“Sì, è così. Noi abbiamo tre schemi di trattamento.
Il primo schema, che applichiamo a pazienti con BK positivo nello sputo, generalmente
porta ad una buona percentuale di guarigioni: tra il 90 e il 95%. Quando invece c’è
una ricaduta ed applichiamo il secondo schema di trattamento, le percentuali di guarigione
scendono al 70%. Il restante 30% va verso la cronicizzazione, perché in questi casi il
micobacterium, responsabile della TBC, comincia a sviluppare una certa resistenza agli
antibiotici. Ora, per esempio, abbiamo una decina di pazienti cronici, alcuni giovani,
altri adulti”.
Qual è il livello di mortalità in pazienti con tubercolosi?
“Nel Duemila, nel nostro ospedale, sono morti 4 pazienti. Dei 4 morti, 3
presentavano la TBC associata all’AIDS”.
Quanti pazienti con AIDS ci saranno nella vostra giurisdizione?
“Questo dato non lo conosce nessuno. Fino ad ora mi pare che nessuno si sia messo
a lavorare per conoscere questa realtà. Per quello che so io, qui c’è un’alta
percentuale di pazienti con AIDS. È una zona catalogata a rischio, con una delle più
alte percentuali di Lima e forse del Perù”.
Ci sono farmaci nuovi nella cura della TBC?
“No, non ci sono nuovi farmaci. Personalmente ritengo che la tubercolosi sia ormai
considerata come una malattia non “commerciale” dai laboratori di ricerca delle
multinazionali farmaceutiche. Mi pare che i grandi laboratori non siano interessati alla
sua cura. Essendo una malattia dei paesi poveri, probabilmente non dà guadagni
interessanti. Questa è la mia opinione”.
E la prevenzione? Cosa fate o cosa si dovrebbe fare?
“Sarebbe necessario fare diagnosi precoci e far conoscere a tutti che un paziente,
che tossisce per 15 giorni consecutivi e che sta espettorando, è un paziente che può
essere ammalato di TBC e che deve rapidamente correre ad un Centro di salute.
La prevenzione è più difficile. La tubercolosi è strettamente relazionata con il
livello di nutrizione della popolazione. Avere una popolazione ben nutrita, sarebbe
sufficiente per evitare la “strage” che vediamo attualmente. Bisognerebbe poi
evitare la promiscuità nelle case, che altro non è se non un aspetto della povertà.
Occorrerebbe che le persone avessero la possibilità di accedere ai servizi basici e di
mantenere la propria famiglia. Adesso devono distribuire la propria povertà con i
numerosi figli. Questa sarebbe la vera prevenzione nei confronti della tubercolosi”.
Un medico in prima linea come te, è soddisfatto delle sue condizioni di lavoro?
“Sono un medico contrattato e quindi senza stabilità lavorativa. I medici
dovrebbero essere maggiormente appoggiati, siano essi contrattati o di ruolo.
Noi lavoriamo, come nel mio caso, in condizioni difficili e con la possibilità di
essere contagiati. Non abbiamo le precauzioni minime per evitare il contagio. Come vedi
devo lavorare in questa stanza piccola e poco ventilata. Inoltre, visto che guadagnamo
poco, dobbiamo fare due o tre lavori allo stesso tempo e questo logora”.
Quanto guadagna un medico?
“Io guadagno 1.300 soles al mese (circa 750.000 lire) ed un medico di ruolo 1.800
soles (circa un milione). Lavoro qui 36 ore alla settimana ed altrettanto in un altro
posto”.
Sei assicurato?
“No, non sono assicurato, non siamo assicurati. Posso contagiarmi con la TBC e non
sono assicurato. Posso ammalarmi, come è già successo a due miei colleghi, e non sono
assicurato”.
Michel Azcueta, parlandomi di Raul e della tubercolosi, mi aveva detto: “Cosa vuoi
che faccia? Non sai quante persone bussano alla mia porta. Quello di Raul è solo un caso
come tanti altri. Solo nel mio isolato, non sai quante famiglie hanno smesso di pagare
luce ed acqua. L’energia elettrica la prendono abusivamente dai pali
dell’illuminazione pubblica; il telefono è diventato un soprammobile”.
Ricordo che rimasi perplesso davanti a una risposta così fredda e pessimista. Ma è
così. È la stessa storia che si ripete: io non potevo aiutare Raul e gli ho indicato il
dr. José Atencia che farà quello che potrà fare.
L’unica cosa che potevo fare ancora, era scrivere per parlare ai lettori di questa
malattia e delle condizioni che la favoriscono. Ma servirà? Tutto è tanto conosciuto,
tanto normale, tanto quotidiano (e indifferente ai più) ed ora, dalla mia casa di
Venezia, anche tanto lontano…
Guido Sattin