I diritti umani appaiono sempre più come delle mere costruzioni
teoriche, lontane dalla realtà.Nel mondo odierno, a Nord come a Sud, si assiste a un
dominio delle libertà economiche che finiscono per prevalere su tutto e tutti.
Le conseguenze si vedono e si toccano con mano: un aumento progressivo delle diseguaglianze.
Non è un’affermazione politica o ideologica. È una constatazione di fatto.
Certificata da dati ufficiali (statistiche e indici), ma soprattutto dall’evidenza
quotidiana.
La prossima volta che – in un
ipermercato o in una boutique – staremo per acquistare un capo d’abbigliamento,
sarebbe importante ricordare questo numero: 1.1331.
Il 24
aprile 2013, a Savar, periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, si è
sgretolato un palazzo di 8 piani conosciuto con il nome di Rana Plaza. Sono
morte (almeno) 1.133 persone e altre 2.515 sono rimaste ferite. L’80 per cento
erano donne2.
Nella costruzione venivano ospitate varie fabbriche d’abbigliamento, tutte
foitrici – in appalto o subappalto – di grandi marchi occidentali, compresa
l’italiana Benetton e la spagnola Zara (Inditex). In pochi anni il Bangladesh è
divenuto il secondo esportatore di capi d’abbigliamento al mondo dopo la Cina.
La tragedia del Rana Plaza non è un’eccezione. Al contrario: è la
normalità (come del resto in altri paesi, dal Pakistan alla Cambogia). Pochi
mesi prima, il 24 novembre 2012, ad Ashulia, altro sobborgo della capitale
bengalese, era bruciato l’edificio della Tazreen Fashions, altra fabbrica
d’abbigliamento che lavorava per marchi occidentali. Alla Tazreen erano morte,
asfissiate o bruciate, 112 persone (quasi tutte donne). Lì si confezionavano,
tra gli altri, capi d’abbigliamento della Faded
Glory, un marchio della Wal-Mart, la multinazionale
statunitense della famiglia Walton, seconda al mondo per grandezza, sempre al
vertice nella classifica delle multinazionali con la peggiore reputazione. Il
suo motto è «Save Money. Live better», «Risparmiare denaro. Vivere meglio»3: un risparmio e una vita migliore
ottenuti a scapito o sulla pelle di altre persone.
L’incendio alla Tazreen ne ricorda da vicino un altro, avvenuto
oltre 100 anni prima a New York, sempre in una fabbrica tessile e sempre avendo
come vittime giovani donne sottopagate. Quel giorno – era il 25 marzo 1911 – a New York morirono in 146. Le porte della Tringle Shirtwaist Company erano state
chiuse a chiave, ma i proprietari furono assolti da ogni responsabilità4. Come oggi lo sono o lo saranno
quelli delle fabbriche bengalesi5.
Una nota sull’etica (lo diciamo con amara ironia) delle
multinazionali dell’abbigliamento. L’11 e 12 settembre 2013, a Ginevra, in un
incontro organizzato per creare un fondo di risarcimento per le vittime degli
incidenti si sono presentati soltanto 9 marchi inteazionali su 286. Al 24 ottobre 2013 soltanto la
Primark (gruppo angloirlandese) aveva pagato qualcosa alle vittime del Rana
Plaza7. Intanto, a 10 mesi dalla tragedia, i 1.137 sopravvissuti della
Tazreen ancora attendono una compensazione per la sofferenza, le spese mediche,
la perdita del lavoro.
In Bangladesh su 5 milioni di lavoratori del tessile l’80% è
costituito da donne. Stando alla legge, l’orario di lavoro dovrebbe essere al
massimo di 10 ore giornaliere, ma il più delle volte si arriva a 14-16 ore, 7
giorni su 7. Le donne non potrebbero lavorare dopo le ore 20.00, ma arrivano in
realtà fino alle 22.00 o alle 23.00. Non hanno scelta: o accettano quelle
condizioni o perdono il lavoro. Nelle fabbriche del Bangladesh si riproduce la
struttura patriarcale che è diffusa a ogni livello della società bengalese8. E questo avviene nonostante il
primo ministro del paese asiatico sia una donna, Sheikh Hasina, in carica dal
2009 (ma che già goveò tra il 1996 e il 2001).
Fino al 1 dicembre 2013 il salario minimo (vigente dal novembre
2010) era di 3.000 taka ovvero 38 dollari al mese, uno dei più bassi del mondo9. Si consideri che in Cina esso è di
138, in Cambogia di 75, in Indonesia di 71, in Vietnam di 67, in India di 65. I
dati sono del Wall Street Joual, una delle bibbie del capitalismo mondiale10.
Per avere un termine di raffronto, abbiamo
fatto un piccolo esperimento (senza pretese di scientificità, ma abbastanza
indicativo). In un ipermercato di Torino abbiamo comprato una felpa made in
Bangladesh. Il capo d’abbigliamento era in offerta a 14,90 euro ovvero la metà
del salario mensile di un’operaia tessile di quel paese. Identicamente dai
francesi di Carrefour i vestiti marca Tex – maglie e tute made in Bangladesh –
erano in vendita tra i 10 e i 16 euro. Di solito, davanti a dati di questo
tipo, il commento più comune è: «Ma lì la vita costa meno». È stato però
calcolato che soltanto per coprire il suo fabbisogno alimentare un’operaia
tessile avrebbe bisogno di 2.350 taka al
mese, che salgono a 11.000 se la donna ha una famiglia11.
Questo è lavoro? La domanda è retorica, perché questo – certamente
– non è lavoro. È schiavismo legalizzato, che sarebbe rimasto nascosto ai più
se non ci fossero state le tragedie.
Dal Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo12, passiamo agli Stati Uniti, uno dei più ricchi, certamente il più potente.
A New York, lo scorso 5 novembre, si è chiusa l’esperienza
del sindaco Michael Bloomberg, il miliardario eletto nelle fila dei
repubblicani. È stato sostituito da Bill De Blasio, democratico di origini
italiane, che ha stravinto le elezioni forte dello slogan «Nessuno deve essere
lasciato indietro». Un’affermazione impegnativa. I 12 anni di Bloomberg (3
mandati, iniziati nel gennaio 2002) – descritti come esaltanti e ricchi di
successi – hanno lasciato un’eredità mai adeguatamente evidenziata: quella dei
senzacasa (homeless). A giugno 2013 è stato toccato il record di sempre con
50.900 persone – includendo 12.100 famiglie con 21.300 bambini -, che hanno
trascorso le notti nei dormitori pubblici della metropoli nordamericana13.
Peraltro, il numero, già altissimo, non include le migliaia di persone che non si
sono rivolte ai ricoveri cittadini (unsheltered homeless people),
scegliendo di dormire nella metropolitana o in altri spazi pubblici (giardini,
androni di palazzi, eccetera), soprattutto nel distretto finanziario di
Manhattan.
Negli
Stati Uniti il fenomeno dei senzacasa è l’aspetto più immediatamente visibile
della povertà, che evidenzia dati impressionanti, soprattutto per la prima
potenza mondiale. Nel 2012 il tasso ufficiale di povertà è stato del 15,0 per
cento, pari a 46,5 milioni di persone14. Molto
significativa è la composizione etnica dei poveri: i neri costituiscono il 27,2
per cento, gli ispanici il 25,6, gli asiatici l’11,7 e i bianchi non ispanici
il 9,7 per cento. E quella per età: con il 21,8 per cento di bambini (sotto i
18 anni) e il 9,1 per cento di persone con più di 65 anni. Le donne in povertà
sono almeno 25 milioni, pari al 55% del totale della popolazione povera.
Gli Stati Uniti, a torto o a ragione considerati
la «patria della libertà», non hanno mai codificato un diritto a un’abitazione,
alla salute o all’educazione. Però, hanno solennemente proclamato – Thomas
Jefferson, dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 – il diritto alla «ricerca
della felicità» (the
pursuit of happiness).
Queste
situazioni di mancanza di diritti – siano essi il diritto a un lavoro dignitoso
o il diritto a una casa – sono determinate da responsabilità singole, da colpe
individuali oppure da cause più generali e complesse?
T.
Harv Eker, miliardario canadese divenuto famoso scrivendo saggi su come si
diventa ricchi, ha scritto: «Gli individui poveri spesso guardano al successo
altrui con avversione, gelosia e invidia oppure tagliano corto con un commento secco: “Quegli stupidi coi soldi hanno
molta fortuna”. (…) È impressionante vedere il risentimento e addirittura i
sentimenti di vera e propria rabbia che molti poveri provano per i ricchi, come
se credessero che i ricchi siano la causa della loro povertà»15.
Ivan Boesky, famoso finanziere (raider) statunitense degli
anni Ottanta, ha invece descritto la filosofia comportamentale dei ricchi. Nel
maggio 1986, in una conferenza presso l’Università della Califoia, a Berkley,
disse: «L’avidità fa bene. Penso che sia salutare»16. Né
l’avidità né – men che meno – l’invidia possono tuttavia spiegare la
situazione.
La causa di questa compressione dei diritti, a Nord come
a Sud del mondo, è da imputare alla globalizzazione neoliberista, che è stata
imposta e che continua a essere imposta come l’unica strada percorribile per le
«magnifiche sorti e progressive» del mondo. La globalizzazione – definibile
come un’integrazione sempre più stretta tra le economie del pianeta – si fonda
su alcuni pilastri: la libera circolazione dei capitali (produttivi, ma
soprattutto speculativi), il commercio libero (da regole, limiti, controlli,
protezioni e garanzie sociali) e la riduzione del ruolo dello Stato.
Questa impostazione ha prodotto un allontanamento degli
estremi: una ristrettissima classe ricca sempre più ricca e una affollatissima
classe povera sempre più povera.
Negli ultimi 25 anni, dominati dal pensiero unico della
globalizzazione neoliberista, la piramide della stratificazione sociale (che è
sempre esistita) si è trasformata nella piramide delle disuguaglianze. O dell’ingiustizia,
se si vuole attribuirle un significato più politico.
Questo è avvenuto e sta avvenendo al Sud (che già partiva
da condizioni di svantaggio) come al Nord.
«La globalizzazione sta contribuendo in misura
significativa a far crescere la disuguaglianza» ha scritto Joseph Stiglitz17, premio
Nobel per l’economia 2001.
Ricchi (alla faccia della crisi)
Se non si vede o non si vuole vedere la realtà,
allora si può fare riferimento a statistiche ufficiali. Ebbene, tutti i dati –
indipendentemente dalla fonte di provenienza (come vedremo) – mostrano con
evidenza quanto affermato: il modello neoliberista ha portato alla
globalizzazione dei profitti ma certamente non dei diritti.
La crisi, iniziata (ufficialmente)
nell’agosto del 2007, ci scorre quotidianamente davanti agli occhi con i numeri
dei disoccupati e storie di ordinaria disperazione. Tuttavia, il mondo
dell’economia neoliberista è pieno di sorprese. Come dimostra il 2013 Credit
Suisse Global Wealth Report.
L’annuale rapporto della banca svizzera racconta – con dovizia di dati e
grafici – che la ricchezza globale ha raggiunto i 241 trilioni18 di dollari, record di ogni tempo. Rispetto all’ultimo anno c’è stato un
aumento del 4,9% (e del 68% rispetto al 2003). Gli analisti ci dicono che il 9%
della popolazione mondiale possiede l’83% della ricchezza globale. O ancora che
32 milioni di persone – pari allo 0,7% della popolazione adulta del pianeta –
possiede il 41% della ricchezza totale. La situazione è ben riassunta nella global wealth pyramid, la piramide della ricchezza globale.
Il rapporto di Credit Suisse dà i numeri e
spiega alcune dinamiche. Non si sbilancia in giudizi etico-morali e men che
meno contesta il sistema. Diversamente da quanto fa Zygmunt Bauman: la
ricchezza di pochi – dice il famoso sociologo – non avvantaggia tutti, come
leggenda vorrebbe. «In quasi tutto il mondo la disuguaglianza sta aumentando
rapidamente, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi,
diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano
più poveri»19.
Abbiamo visto la ricchezza globale e la sua
crescita a dispetto della crisi. Ora è interessante capire in che mani essa sia
concentrata.
Esistono molte indagini statistiche al
riguardo. La più famosa è senz’altro quella stilata annualmente dalla rivista Forbes. A marzo 2013 è uscita la sua annuale lista dei miliardari, con questo
sobrio sommario: «I nomi, i numeri e le storie dietro le 1.426 persone che
controllano l’economia del mondo»20. Anche
la periodica ricerca Capgemini/ banca Rbc conferma la crescita degli individui
ad alto patrimonio (Hnwi, in sigla inglese), sia in numero (12 milioni di
individui, +9,2% rispetto al 2011) che in ricchezza posseduta21.
Tuttavia, può essere molto più interessante
osservare quella stilata – si chiama Hurun Report – dalla Cina, paese comunista e seconda potenza economica mondiale.
Va ricordato che il 14 marzo 2004 Pechino ha
introdotto nella propria Costituzione del 1982 un emendamento (il IV) che – nel
suo articolo 6 (sono 13 in totale) – afferma: «La proprietà privata è
inviolabile. Lo Stato, secondo quanto stabilito dalla legge, protegge il
diritto dei cittadini alla proprietà privata e all’eredità sulla stessa».
Secondo l’Hurun Report, nella Cina del 2013 il numero dei milionari – dove per milionario si
intende una persona con minimo 10 milioni di yuan (pari a circa 1,2 milioni di
euro)22 – ha raggiunto la cifra di 1,05 milioni, con
un incremento del 3% rispetto all’anno precedente. Il numero dei miliardari
cinesi – intesi come persone con almeno un miliardo di yuan (121,6 milioni di
euro) – è invece passato a 11.380, con un incremento di 1.120 rispetto all’anno
precedente. Il rapporto disegna un profilo di
questa popolazione di supericchi: chi sono (gli uomini sono il 70% del totale),
cosa fanno, cosa comprano (dalle automobili agli orologi, dalle collezioni
artistiche alle proprietà immobiliari), che sport praticano (nuoto e golf sopra
ogni altro).
Insomma, una lettura interessante, perché
inaspettata. Anche se non per tutti. Scrive ad esempio don Vinicio Albanesi,
presidente della Comunità di Capodarco e fondatore dell’agenzia giornalistica
Redattore sociale: «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno
ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno
livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a
cui appartengono».
Note
1 – «Allora non bisogna
acquistare?». La risposta nella seconda puntata. Intanto anticipiamo il
riferimento principale, quello della «Campagna abiti puliti»:
www.abitipuliti.org. Il corrispondente sito internazionale è:
www.cleanclothes.org.
2 – Le cifre dei morti e dei
feriti variano leggermente a seconda della fonte. Queste sono tratte da alcuni
quotidiani britannici e dal «The Daily Star», quotidiano del Bangladesh.
3 – Sito: www.walmart.com.
4 – Olivier Cyran, In Bangladesh, gli assassini del prêt-à-porter, «Le Monde Diplomatique», giugno 2013, pag. 9. Sulla vicenda
dell’incendio della fabbrica di New York le informazioni più complete sono sul
sito della Coell University: www.ilr.coell.edu.
5 – L’ultimo incidente
risale all’8 ottobre 2013: a Gazipur, appena fuori Dacca, sono morti 7 operai
di una fabbrica tessile che lavorava per H&M (Svezia), Next (Gran
Bretagna), Carrefour (Francia) e gli inglesi di Asda (del gruppo Wal-Mart).
6 – Fonte: www.asianews.it.
7 – Fonte:
www.industriall-union.org.
8 – Alcuni dati per capire:
il 74% delle donne si sposa prima dei 18 anni, il 33% addirittura prima dei 15,
una donna su 3 rimane incinta prima dei 20 anni. Fonte: Women and girls in Bangladesh, Unicef 2010.
9 – A novembre 2013
lavoratori e sindacati hanno ottenuto un aumento a 5.300 taka al mese, circa 68
dollari, a partire dal 1 dicembre 2013. Fonte: «The Daily Star», Dacca.
10 – Fonte: «The Wall Street
Joual», 12 maggio 2013.
11 – Raccontato da Francesco
Pistocchini, in Compresi nel prezzo, rivista «Popoli», giugno-luglio 2013.
12 – E uno dei più densamente
popolati del mondo: 155 milioni di abitanti, 1.120 persone per chilometro
quadrato.
13 – Dati di «Coalition for
the homeless», rapporto del giugno 2013, reperibile sul sito.
14 – U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United
States: 2012, Washington, settembre
2013, pag. 13.
15 – T. Harv Eker, I segreti
della mente milionaria,
Gribaudi Editore, Milano 2008.
16 – Testuale: «I think greed
is healthy. You can be greedy and still feel good about yourself» ovvero «Penso
che l’avidità sia sana. Si può essere avidi e stare bene con se stessi».
17 – Joseph E. Stiglitz,
Il prezzo della disuguglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il
nostro futuro, Einaudi 2013, pag. 106.
18 – È opportuno precisare: 1
trilione = 1.000 miliardi, mentre 1 bilione = 1.000 milioni = 1 miliardo.
19 – Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso, Laterza, Bari 2013, pag.
13.
20 – Rivista «Forbes», 25
marzo 2013: «The World’s Billionaires. The names, numbers and stories behind
the 1.426 people who control the world economy».
21 – Hnwi = High Net Worth Individual, individui ad alto
patrimonio netto, che significa almeno 1 milione di dollari investibili,
escludendo l’abitazione principale, i beni di consumo e gli oggetti da
collezione (Capgemini / Rbc, World
Wealth Report 2013).
22 – Il cambio valutario: 1
rmb (ren min be) = 1 yuan = 0,12 euro.
la concentrazione della ricchezza e la sua mancata
distribuzione; le sorprese dell’Indice di Gini; si può fare qualcosa per
ridurre le disparità create dalla globalizzazione neoliberista?; povertà e
ricchezza in Italia; i dati della Caritas e sue iniziative; la bibliografia e
molto altro ancora.
Paolo Moiola