Kanchin: Fango, mine ed eroina
fronteggiano gli indipendentisti kachin e l’esercito birmano. Una sporca guerra
di logoramento che produce morti e profughi. Oltre a corpi mutilati dalle mine
o distrutti dall’eroina. Quello tra Kachin e governo birmano è uno dei tanti
conflitti dimenticati che si combattono nelle retrovie del mondo.
Tutte le foto di questo reportage sono di Nicola Longobardi
Maijayang. La globalizzazione è
un ripetitore di China Mobile appena oltre il fiume, a poche decine di
metri di distanza. Di là strade asfaltate e dighe, una macchina che sfila
tranquillamente lungo le rive del Ta Paing; di qua la pista irregolare e fangosa
attraverso le montagne, avamposti del Kachin Independent Army (Kia) e
campi profughi che appaiono in successione tra Maijayang (Mai Ja Yang) e Laiza,
le due città di frontiera ancora nelle mani dei Kachin (Jinghpo, Singpho),
gruppo etnico a maggioranza cristiana. La prima linea sta circa dieci
chilometri a Ovest.
Questa
guerra dimenticata tra ribelli kachin ed esercito birmano entra nel suo terzo
anno. Da inizio 2014 ha avuto una recrudescenza, con un susseguirsi di attacchi
alle postazioni del Kia, che risponde con tecniche di guerriglia. Intanto
proseguono a fatica i colloqui di pace che, nelle intenzioni di Naypydaw (nome
della nuova capitale birmana), dovrebbero portare a un cessate il fuoco
generalizzato ma che tutti i gruppi indipendentisti, anche quelli che hanno già
deposto le armi, guardano con sospetto. Ad aprile, il censimento nazionale è
stato attivamente boicottato dalla Kachin Independence Organization
(Kio) e intanto la guerra prosegue.
Iniziato
nel 1961, terminato nel 1994, il conflitto è ricominciato il 9 giugno 2011,
dopo 17 anni di pace. Si è detto che la molla scatenante sia stato il rifiuto
dei Kachin di trasformare l’esercito indipendentista in un corpo di guardie di
frontiera sotto il controllo centralizzato del Tatmadaw, l’esercito birmano. Ma
il primo attacco dei militari a una diga controllata dai Kachin, ha rivelato
che la posta in gioco è anche il controllo delle fonti energetiche e delle
materie prime. Non a caso, gli avamposti kachin sono spesso attaccati con la
scusa che essi coprano i contrabbandieri di legname che prendono la via della
Cina.
Il
che è pure vero. Carichi di tronchi d’albero, camion con targhe dello Yunnan –
la provincia cinese che confina a est con lo Stato Kachin – vanno su e giù per
le colline boscose a soli quindici chilometri da Maijayang. Qui, siamo in prima
linea.
Il
tenente Hpau Jung Bawk Naw, 42 anni, è il comandante dell’avamposto kachin più
vicino alle linee birmane che si stagliano a soli settanta metri di distanza.
Il fronte ricorda le immagini della nostra Prima guerra mondiale, con trincee
che si fronteggiano anche per anni. Una mitragliatrice M18 è puntata verso il
nemico, mentre quindici soldati si aggirano stancamente tra le buche. In attesa
di qualcosa.
«Noi
teniamo la posizione, attendiamo ordini e buttiamo un occhio ai birmani. A
volte ci parliamo pure, con loro che stanno dall’altra parte, ma questo non si
può dire», racconta il tenente.
«Quando
sostituiscono tutti gli effettivi in prima linea, sappiamo che sta per
succedere qualcosa di grosso. Negli ultimi giorni, se ne vanno in giro
disarmati per l’accampamento, lasciano i fucili d’assalto a metri di distanza.
Vogliono farci credere che tutto è calmo, ma altrove hanno fatto lo stesso e
poi hanno attaccato improvvisamente. Nel gennaio 2013 hanno cercato di
conquistare il nostro avamposto, ma sono finiti sul campo minato. Noi piazziamo
mine in quantità industriale, così abbiamo avuto solo un ferito mentre loro
hanno contato centinaia di perdite. Non ci prepariamo in qualche modo speciale
perché molto semplicemente non abbiamo abbastanza armi. Ora stanno ammassando
truppe, lo si può capire dai bagliori metallici che si vedono su quel sentirnero
laggiù. Se attaccheranno, noi aspetteremo gli ordini e poi, in base a quelli,
ci ritireremo, ci difenderemo o ce ne staremo al riparo in trincea».
A
dispetto di quanto raccontato dal tenente Hpau, sugli ordigni sepolti ci
finiscono anche gli stessi soldati Kachin. «Ho 27 anni, sono un capo
guastatore, insegno ai ragazzi come mettere le mine. Il 20 giugno 2012, mentre
ne interravo una lungo la linea del fronte, ha cominciato a piovere. L’acqua ha
fatto qualche contatto e la mina è esplosa. Io mi sono ridotto così».
Il
soldato, attualmente in convalescenza presso l’ospedale militare di Maijayang, è
cieco, sordo da un orecchio, e ha perso alcune dita di entrambe le mani. «Sono
sposato e ho una figlia», dice. «Prima di arruolarmi nel Kia avevo una
fattoria. La vita all’ospedale militare è molto semplice: non faccio nulla, né
ho grandi speranze per il futuro. Passeggio qui in giro e aspetto».
È una
strana guerra: un mix di trincea e di guerriglia, in cui i soldati si feriscono
da soli mentre stanno semplicemente in attesa. Intanto, a poche decine di metri
dalla trincea, camion cinesi carichi di legno pregiato caracollano verso il
confine a Est.
La
sensazione di essere in una decadente «Apocalypse Now» dei nostri giorni si
accentua incontrando il capitano Maran Htorni Wa, 51 anni, stratega della prima
linea. Nel Kia è entrato nel 1979, 35 anni di vita militare e non se ne vede la
fine. Il suo compito è quello di mantenere il contatto con il comando e di dare
ordini in caso di attacco birmano. Lo troviamo in un avamposto appena dietro la
prima linea, mentre esce dalla sua capanna con gli occhi gonfi e visibilmente
ubriaco. Ha sei figli. In tempo di pace, con la moglie, disegna le uniformi del
Kia. Tutto il suo mondo ruota attorno all’esercito.
Le
forze Kachin appaiono inferiori alle truppe birmane. Eppure, secondo un recente
articolo del settimanale Jane’s Defense, «Hostage to History», il
Tatmadaw non ha la forza per vincere la guerra. Si legge: «Tra giugno 2011 e
l’inizio della campagna di Laiza, a metà dicembre 2012, almeno 5mila soldati
birmani sono morti nello Stato Kachin», nel tentativo di circondare il quartier
generale del Kia. Durante l’offensiva via terra e aria, sono stati anche messi
fuori combattimento «almeno due elicotteri e forse un velivolo ad ala fissa».
«E
per cosa?», chiede retoricamente il noto osservatore di cose birmane Bertil
Lintner: «La conquista di un paio di colline». Nel frattempo i ribelli del Kia
si ritirano velocemente, scompaiono nella foresta, e poi sono in grado di
riconquistare gli avamposti poco protetti attraverso tattiche di guerriglia
molto ben pianificata.
Per
le truppe birmane, diventa quindi più efficace una sorta di pulizia etnica che
consiste nell’aggressione di villaggi indifesi: uccidono, stuprano, torturano.
L’organizzazione
statunitense Inteational Human Rights Commission (Ihrc) ha appena
pubblicato un memorandum, nel quale si legge che «l’esercito birmano continua a
privilegiare i propri obiettivi militari rispetto alla protezione dei civili, e
lo fa anche attraverso politiche che implicano
attacchi diretti ai civili stessi». Secondo il documento, gli abusi
contro la popolazione sono parte di una strategia di «contro-insurrezione
centralmente pianificata», e allo stesso tempo esito apparentemente indesiderato
delle tecniche di guerriglia dei ribelli, che tendono «a confondere la linea di
demarcazione tra il civile e il combattente» (settimanale The Irrawaddy).
Questa
analisi sembra calzare a pennello per il Kia, un vero e proprio esercito
popolare in cui fin dall’adolescenza ogni uomo (e spesso anche donna) indossa
la mimetica e porta con sé un’arma, come il cosiddetto Ka-Ro-La, o «Kachin
Rocket Launcher», la modifica locale del fucile d’assalto M81 cinese, in grado
anche di lanciare granate.
Nkhum
Ja San, una giovane di 20 anni, proviene dal villaggio di Pa Namlim. «Il 16
novembre – racconta – l’allarme è suonato, l’esercito birmano stava arrivando.
Allora tutta la famiglia è andata a nascondersi, ma mio fratello 32enne ha
deciso di rimanere a casa perché sosteneva di non avere violato alcuna legge.
Nonostante mia madre gli dicesse di scappare. Quando siamo tornati al villaggio
un paio di giorni dopo, ho incontrato alcuni soldati del Kia che mi hanno detto
di avere trovato il corpo di un uomo con la gamba sinistra molto sottile. Ho
subito pensato che potesse essere lui, dato che aveva quell’handicap
[probabilmente poliomelite, ndr]. Avevo ragione. Indossava un’uniforme
del Kia e non aveva più il braccio sinistro e l’avambraccio destro».
La
soluzione politica non sembra all’orizzonte, anche se i colloqui di pace vanno
avanti. La proposta di un cessate il fuoco nazionale «è un diversivo», sostiene
Lintner. La questione principale è decidere se la Birmania debba trasformarsi
in uno stato unitario o in un’unione federale. «Di solito, prima si discute –
dice – e quando si trova un consenso è possibile sancire la tregua. Ma la
proposta del governo di “firmare ora e poi si vedrà” è una trappola. La
questione etnica birmana non può essere risolta in questo modo».
Così
100mila sfollati si accalcano in una sorta di semisconosciuta «Striscia di Gaza»
che si estende lungo la frontiera cinese. Afflitti da una psicosi
dell’assediato, da un’esistenza quotidiana vissuta tra guerriglia e trincea e
da circostanze economiche gravemente destabilizzanti, mentre aspettano qualcosa
in un contesto di logoramento progressivo, i Kachin sono spinti talvolta
all’autodistruzione.
Se da
un lato si aggrappano alla loro fede cristiana, soprattutto battista ma anche
cattolica, dall’altro si abbandonano a false soluzioni che non fanno che
peggiorare le loro condizioni: ed ecco il diffuso consumo di eroina, che va di
pari passo con lo spaccio.
Secondo
padre Joseph Nbwi Naw, il prete cattolico di Laiza, la metà dei giovani kachin è
eroinomane. Non c’è modo di verificare questo dato, ma secondo l’ultimo
rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc),
in Birmania la coltivazione del papavero da oppio è in costante aumento dal
2006, in particolare nella tradizionale area di produzione dello Stato Shan –
quello a sud del territorio controllato dal Kio – ma anche in quello Kachin.
Almeno 300mila famiglie birmane vivono di questo business. La droga accede al
mercato mondiale dopo aver attraversato il Triangolo d’Oro (la zona di
produzione tra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) ed essere poi passata in
Thailandia e negli altri paesi del Sudest asiatico. Una parte dell’export va
invece in Cina e poi rimbalza in Birmania per l’uso locale, così il consumatore
deve solo attraversare un torrente o alcuni campi di canna da zucchero per
raggiungere il lato cinese e acquistare una dose da cinque yuan (meno di
un euro).
Secondo
il rapporto dell’Unodc, il conflitto favorisce la produzione di droga per tre
motivi. Primo: le difficili condizioni dell’economia di guerra costringono i
contadini a perseguire un reddito veloce e sicuro, cioè la coltivazione
dell’oppio. Secondo: i gruppi armati ribelli necessitano di fondi
immediatamente disponibili per l’acquisto di armi. Terzo: lo stesso governo
birmano incoraggia i gruppi paramilitari suoi alleati ad autofinanziarsi
attraverso il narcotraffico. È così che la droga va di pari passo con la
guerra.
«Sono
entrato nell’esercito nel 1989. Nel 1998 ho disertato, poi ho fatto il
contadino. Ma quando la guerra è ricominciata, nel 2011, sono tornato
nell’esercito». A parlare è Lazing Htorni Shang, 43 anni, tossicomane,
spacciatore ed ex disertore dell’esercito kachin, attualmente detenuto nel
centro di riabilitazione di Maijayang. Qui, 53 persone tra drogati e pusher
stanno incollate una all’altra in celle di 16 metri quadrati: sono 12 o 13 per
ciascuna. «All’inizio bevevo solo alcolici – dice – poi ho cominciato a farmi
per via delle cattive compagnie. Compravo l’eroina a Loi Je, nel territorio
kachin occupato dai birmani. Quando uscirò di qui, toerò nel Kia. È un mio
dovere».
L’analogo
campo di riabilitazione di Laiza è gestito dal maggiore Hpandan Gam Ba, 47
anni, che
spiega
come funziona la politica di recupero/proibizione, comprensiva della promessa
salvifica della religione: «Diamo a tutti una Bibbia e, dopo cinque giorni di
trattamento con compresse di difenossilato [un oppiaceo sintetico, ndr]
che compriamo in Cina, li introduciamo alle attività di gruppo. Insegniamo loro
come coltivare le piante, allevare polli e fare giardinaggio, in modo che
abbiano qualche conoscenza utile per quando escono. Dal 2010, quando abbiamo
aperto il centro, più di mille persone sono passate di qui. Non solo Kachin. Ci
sono birmani di Yangon e cinesi. In definitiva, tutti quelli che acchiappiamo
nel nostro territorio. Siccome la nostra riabilitazione dura solo sei mesi,
alcuni cinesi vengono a farsi da questa parte del confine: se li prendono a
casa loro, si fanno almeno due anni. I nostri ospiti comprano droga soprattutto
in Cina, a volte li spiamo perfino con il binocolo. Ma la collaborazione con le
autorità cinesi è solo sulla carta. Capita che diamo loro tutte le prove per
arrestare qualche spacciatore che traffica sul loro lato, ma raramente fanno
qualcosa. La droga arriva soprattutto dallo Stato Shan e dal territorio Kachin»,
conferma.
Il
gigante affamato al di là del fiume può apparire a volte il problema e a volte
la soluzione. Paga i Kachin per il legname e al tempo stesso dà il pretesto al
Tatmadaw per attaccare. Produce sia gli spacciatori sia le pillole per la
riabilitazione dei tossicomani. E molto di più.
Laiza,
la capitale della Kio, è una piccola città dove alla televisione si guardano i
programmi della Cctv, la televisione di stato cinese; si comunica con le reti
mobili di Pechino; si comprano sigarette Zhongnanhai, cioccolata, giocattoli
per bambini, e perfino riso e frutta made in China. Nel frattempo, quei
camion di legname continuano a fare rotta verso Est, placando la fame del
Drago, in un’osmosi inevitabile.
Ecco
cosa ne pensa Sumlut Gam, capo della delegazione del Kio ai colloqui di pace
con il governo birmano nonché ministro dell’Istruzione nel microstato kachin: «Siamo
in un tempo di guerra e la situazione economica è molto difficile. Avevamo una
centrale elettrica che rifoiva di energia perfino Mytkyna [l’ex capitale
Kachin ora controllata dai birmani, ndr] e in teoria potremmo ottenere
un profitto da questa attività e dalle tasse che raccogliamo per le miniere di
giada. Ma ora il governo prende di mira proprio queste fonti di reddito, quindi
tutto è bloccato. Ci resta solo l’agricoltura, che però non è sufficiente. Ed
ecco la Cina, questo vicino così importante. Loro non vogliono una guerra sul
confine, quindi è di vitale importanza non combattere qui e anche i birmani lo
sanno, astenendosi dall’attaccarci in questa striscia di terra. Grazie alla
Cina, il confine è sicuro».
Tradotto:
il Dragone ci tiene d’occhio e si aspetta di non sentire cadere uno spillo («Nessun
problema sui miei confini, signori»).
«Se
non procuriamo fastidi – continua Sumlut Gam – i cinesi rappresentano un
contributo di vitale importanza: acquistano le nostre materie prime e, non più
tardi di un mese fa, la loro Croce Rossa ci ha spedito il primo carico di aiuti
umanitari per i rifugiati».
In
passato, guardando in particolare all’Africa, molti osservatori hanno descritto
la sedicente strategia «win-win» cinese – cioè l’espansione commerciale del
Dragone che farebbe vincere (win) tutti – come una forma di imperialismo
economico in cui il vincitore finale è sempre Pechino, che arraffa diritti di
sfruttamento delle materie prime mentre si assicura uno sbocco di mercato per i
suoi prodotti di fascia bassa. L’altro vincitore sarebbero le élite locali, che
si riempiono le tasche di soldi cinesi debitamente stornati da investimenti
produttivi o dalla redistribuzione sociale.
Da
queste parti, oltre al legname, ci sono anche banane – la principale
piantagione di Laiza è di proprietà cinese e dà lavoro ad alcuni profughi del
campo – energia e un ridotto ma del tutto aperto mercato per i piccoli
rivenditori cinesi lungo il confine. E non vanno dimenticati i due grandi tubi
(gasdotto e oleodotto) che arrivano dal Golfo del Bengala, attraversano
l’intera Birmania, costeggiano il territorio kachin e raggiungono la provincia
cinese dello Yunnan.
La
terra dei Kachin è troppo vicina e Pechino deve tenere conto di tutte le parti
in causa, creando così una nuova strategia «win-win» alle porte di casa.
Pechino
sta quindi mettendo in atto un difficile esercizio di equilibrismo per non
scontentare due partner fondamentali: da una parte i Kachin (un milione dei quali
già vive sul lato cinese del confine), dall’altra il governo birmano, che
altrimenti correrebbe il rischio di cedere sempre più al fascino
dell’Occidente. Tuttavia, dato che i due attori sono in guerra tra loro,
trovare un’alchimia adeguata non è affatto facile.
Ospedale
militare di Laiza. Si fa chiamare «Harry», ha 30 anni e tutti i giorni va a
passeggiare con la sua gamba artificiale in montagna. Prima, da civile,
lavorava in una miniera d’oro. È stato ferito da un proiettile di mortaio, ma
tiene duro, lui, vivo e vegeto su per la montagne. La sua protesi è prodotta
dalla Jiazhi, una società sino-tedesca dello Yunnan. L’intero arto costa 10mila
Rmb (circa 1.200 euro), solo la parte sotto il ginocchio, 8.000 (940): tutti
soldi del Kio che prendono la strada della Cina. «John», il medico, ha 25 anni.
Studi a Baoshan, Yunnan occidentale, non molto al di là del confine. Quando fa
le amputazioni, opera da solo, con le infermiere. Per ferite più gravi,
all’addome o agli organi interni, i soldati vengono spediti in Cina grazie a un
accordo tra il Kio e le autorità del Dragone.
Lat
Du Labang Naw Ja, 34 anni, è il responsabile nominato dal Kio del campo
profughi di Je Yang, vicino a Laiza. È il più grande dello Stato Kachin con più
di 8.600 Idp (Inteal Displaced Person).
«I
nostri rifugiati non fanno nulla tutto il giorno – dice – e attendono gli
aiuti. Ma alcuni di loro lavorano nella grande piantagione di banane cinese, il
che è buona cosa. Noi non vogliamo dipendere dai cinesi come schiavi, ma va
riconosciuto che pure loro hanno problemi: devono pagare le tasse al Kio e,
avendo bisogno di forza lavoro, ricorrono comunque ai nostri sfollati».
La
Cina è oggetto di amore e odio in questa terra. Hkun Htorni Layang, segretario
del Kachin National Council, un’organizzazione con sede in Inghilterra,
ha recentemente suggerito una soluzione abbastanza paradossale al problema
kachin: annettersi alla Cina con un referendum «alla crimeana». «Da quando la
Linea McMahon ha segnato il confine tra il territorio cinese e quello indiano –
ha scritto – noi Kachin ci siamo trovati divisi in tre paesi diversi: India,
Birmania e Cina. Il 2 febbraio 1947 abbiamo fatto l’errore di firmare gli
accordi di Panglong e di aderire all’Unione Birmana. Stiamo soffrendo da più di
50 anni, l’esercito birmano ha commesso crimini di guerra, ucciso civili
kachin, stuprato, bruciato i nostri villaggi e discriminato la nostra fede
cristiana. Non abbiamo mai sentito che i nostri fratelli kachin/jinghpo in Cina
soffrissero le stesse pene. I loro problemi non sono neanche paragonabili ai
nostri, qui in Birmania, e nessuno può affermare che l’Esercito Popolare di
Liberazione dia fuoco ai villaggi o uccida i Jinghpo in Cina».
Ma
Hkun Htorni Layang deve anche ammettere: «L’idea di annetterci alla Cina non
avrebbe però il consenso della nostra gente, perché Pechino sostiene il governo
birmano e fa investimenti non etici nello Stato Kachin».
Il
lussuoso campo da golf è stato costruito per i dirigenti e i burocrati del Kio
sulla stessa strada che porta al campo profughi, appena fuori Laiza. Erba
verdissima, tagliata perfettamente, non sfigurerebbe alle Hawaii o nella Scozia
che al golf ha dato i natali. È una presenza aliena che non ha nulla a che fare
con il contesto. Ma i «germogli» di un ceto medio kachin stanno forse
lentamente emergendo dall’economia informale. Saranno loro il futuro di questa
gente, le leve di un diverso sviluppo materiale, senza che si stia ad aspettare
qualcosa che non arriva?
Al
campo profughi di Maijayang, una donna di 28 anni lavora su un telaio nella sua
baracca: fa gonne colorate nel tipico stile kachin. È completamente
autodidatta, dato che non ha soldi per pagare i corsi organizzati dal Kio. Il
suo sogno è quello di aprire un piccolo negozio con il marito vicino
all’ingresso del campo profughi. Forse questi campi diventeranno villaggi e la
gente non aspetterà più il camion degli aiuti.
«Eddy»
è un ventenne Kachin cresciuto a Yangon. Ha fatto il lungo viaggio per arrivare
qui passando attraverso la Cina. Ha scelto di lavorare come volontario nei
campi profughi. Il suo inglese è eccellente. L’ha imparato guardando film
stranieri, dopo avere appreso i primi rudimenti a scuola. Ha un cuore diviso a
metà: restare per dare una mano alla sua gente o cercare fortuna e una vita
migliore all’estero? Forse, un giorno, le due cose non si escluderanno.
Awng
Ban è un ufficiale dell’intelligence Kia di circa 30 anni. Attraverso una rete
di contatti dietro le linee nemiche raccoglie informazioni e poi posiziona le
poche armi pesanti disponibili nel modo più strategico per proteggere la linea
del fronte. Al termine della guerra, vorrebbe aprire un’attività di
compravendita di giada a gestione familiare. Dopo tutto, anche il commercio è
una questione di network.
La
parola kachin per «alcol» è «za». In un avamposto militare Kia sulle colline,
Gan Htorni, autista 30enne, offre un distillato di riso fatto in casa. Supera i
70 gradi. Non c’è il bicchiere, così va bevuto dalla bottiglia di plastica,
mentre si attende la jeep dell’esercito che ci deve portare verso Sud. Sua
moglie vende questa roba alla gente di Laiza; lui no, lui è un autista. Due
fonti di reddito sono meglio di una.
Sono,
questi, alcuni «germogli» nati dal lavoro vivo e dall’intraprendenza. In attesa
che i fiori fioriscano dal suolo fangoso della terra kachin. Per questo, però,
c’è ancora bisogno di tempo. E soprattutto della pace.
Gabriele Battaglia,
giornalista, vive a Pechino. Membro di China
Files, ha già collaborato con MC.
Nicola Longobardi,
fotogiornalista, vive a Pechino coprendo storie in Cina e altri paesi asiatici.
Collabora con China Files. Pubblica su
riviste italiane e inteazionali.
Archivio MC: la
rivista segue da sempre il Myanmar; da ultimo, il dossier di Piergiorgio
Pescali pubblicato ad aprile 2014.
Tags guerre etniche, eserciti di liberazione, Cina, Myanmar, narcotraffico, tossicodipendenti, armi, mine, deforestazione, profughi, Kanchin, guerriglia, profughi
Piergiorgio Pescali