Viaggio dove convergono le periferie del mondo: periferie
urbane, baraccopoli, marginalizzazione, migrazione, seconde generazioni, nuove
povertà. Ormai da anni è in corso un processo nel quale le nostre città e la
nostra società stanno cambiando volto.Con la tragedia di Lampedusa ancora negli occhi, mentre
molti media si concentrano sulle offese al ministro Kyenge e sulla polemica
intorno al reality «Mission», che cosa sta succedendo nelle nostre città? Che
cosa funziona, che cosa non funziona e perché nella trasformazione di quella
italiana in una società multietnica? Quanto contano i fattori culturale,
urbanistico, economico? MC propone una panoramica sul tema delle periferie e
sulla situazione europea e italiana che introduce un ciclo di reportage dalle
zone marginali italiane.
La lama
di un coltello posato su un piccolo tagliere di legno riflette l’azzurro del
cielo fra pezzetti di peperoni gialli e rossi tagliati in quadratini così
precisi da sembrare tessere di un mosaico; accanto, vicino a un canovaccio
candido ripiegato per fare da presina, l’acqua bolle dentro un pentolino di
metallo scaldato dalla fiamma blu di un fornello e un sacchetto di riso aperto
aspetta che una mano prelevi una manciata di chicchi e la getti nell’acqua
bollente. Il piano di lavoro di questa cucina è fatto di rocce scure e lucide
che digradano fino a tuffarsi nell’acqua; il soffitto è l’impalcato di un ponte
e i muri sono l’aria calda e asciutta dell’estate e le sponde erbose del
Tevere. Un uomo a torso nudo si muove in questa insolita cucina con movimenti
lenti e uniformi, i movimenti di qualcuno che ha imparato da tempo a fare i
conti con le irregolarità dei sassi e a mantenere l’equilibrio. La sua faccia è
rilassata, alza appena la testa ogni volta che una nuova coppia di piedi passa
all’altezza del suo naso un paio di metri più in là, sulla pista ciclabile che
costeggia il fiume.
«Ieri camminando in questa zona ho perso un ciondolo»,
gli domanda una passante, «lei per caso lo ha trovato?». «Io non so», risponde
l’uomo in un italiano stentato, «devi chiedere alla signora che sta là» e
indica un punto sul muro che riveste la scarpata, quasi all’altezza della
strada. Da qualche parte vicino al quel punto nel cemento deve esserci una
signora, probabilmente dentro a un alloggio di fortuna che un muretto nasconde
alla vista di chi passa sul lungotevere, costruito con i cartoni e le lamiere
recuperati da qualche discarica, o da un cantiere, o da un cassonetto
dell’immondizia. Quella signora forse sa che fine ha fatto il ciondolo perché
anche lei, come l’uomo che cucina i peperoni, abita lì e vede tutto quello che
nel corso di una giornata scorre, ritorna, si perde e si ritrova in quei venti metri
in riva al fiume.
La prima «rivelazione» che colpisce un osservatore delle
molteplici forme dei cosiddetti insediamenti urbani informali è che la
sensazione di disordine e di mancanza di logica che si può avere all’inizio è
in larga parte sbagliata: così come uno slum (baraccopoli) di una grande
metropoli del sud del mondo, apparentemente un agglomerato di puro caos,
polvere e sporcizia, è in realtà un micro-mondo altamente organizzato, allo
stesso modo nel nord del mondo, nelle periferie urbane e anche negli anfratti e
recessi del centro delle città, le persone si aggregano e si organizzano anche
se in condizioni abitative – ed è questo che genera la sensazione di disordine
– che risulterebbero inaccettabili per la maggior parte della popolazione urbana.
Come si legge nel dossier di Nigrizia sulle baraccopoli
d’Italia curato da Fabrizio Floris nel 2010, il cuore del problema sta in ciò
che si vede, o si crede di vedere, quando si passa accanto a questi
insediamenti: «Vedi ladri, approfittatori, gente a cui piace vivere così perché
è la loro cultura. Oppure vedi poveri da aiutare o l’effetto delle politiche
pubbliche mancate, sbagliate…». Si vede, o si pensa di vedere tutto questo,
cioè categorie, immagini, concetti: molto più raramente si vedono persone e si
percepiscono quegli spazi non come errore del sistema o bruttura da nascondere
ma come luogo che si è sviluppato all’interno di un processo storico nel corso
del quale sono cambiate le condizioni economiche, la società e, di conseguenza,
la città e i suoi spazi. Per farsi un’idea di questi meccanismi e processi
storici è utile partire dal luogo che per definizione si trova al margine: la
periferia.
In uno studio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani del 2008 si tenta un’analisi dell’origine e della
natura delle periferie: le periferie, si legge, sono una «invenzione» della
città modea, che segue l’abbattimento – non necessariamente fisico – delle
cinte murarie di difesa che le nuove tecniche di guerra (ad esempio l’uso del
bombardamento aereo) hanno reso irrilevanti ai fini della protezione delle città.
Il vocabolario indica la periferia come «la parte estrema e più marginale,
contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio»
e la locuzione «di periferia» nell’uso comune indica non solo la collocazione
di un’area nel tessuto urbano, ma «aggiunge spesso una connotazione riduttiva,
di squallore e desolazione».
Non si tratta di un fenomeno nuovo: nasce infatti in
Europa in concomitanza con una fase avanzata del processo di
industrializzazione. In Italia, il fenomeno appare più in ritardo rispetto agli
altri Paesi europei e nelle grandi città conosce un boom negli anni della
ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Numerose testimonianze
di quell’epoca raccontano delle condizioni di disagio e della mancanza di
servizi e infrastrutture patite dagli abitanti di queste aree periferiche. La
periferia come era intesa negli anni Cinquanta e Sessanta
era spesso una terra di nessuno ai margini delle grandi città dove gli
immigrati interni, che lasciavano le aree rurali italiane per le grandi città
dove sorgevano le industrie, potevano insediarsi, comprare un piccolo pezzo di
terra e cominciare a costruire piano piano una casa; oppure erano una sorta di
anticamera, un posto nel quale appoggiarsi fino a quando i risparmi fossero
stati sufficienti per potersi permettere una casa in quartieri più centrali
oppure, nei decenni successivi agli anni Settanta, in zone sempre estee ma
residenziali, a volte anche di lusso.
Oggi la situazione è in parte cambiata: la marginalità
sociale ed economica non corrisponde più così nettamente alla distanza dal
centro e le sacche di marginalizzazione sono distribuite sia verso l’esterno
della città sia negli spazi cittadini più centrali, se è vero che a Milano una
baraccopoli era sorta nella zona di Porta Romana (a un paio di chilometri dal
Duomo), mentre a Roma nel 2012 è stata smantellata una bidonville lungo
i binari della ferrovia nei pressi della stazione Ostiense, a meno di tre
chilometri dal Colosseo.
Gli insediamenti informali sono uno degli aspetti – forse
il più estremo – che accompagnano il disagio sociale, la povertà e la
marginalizzazione, non l’unico. Bidonville e periferia non sono
necessariamente sovrapponibili, né c’è una corrispondenza totale fra marginalità
socio-economica e nazionalità straniera.
Quando si pensa agli aspetti problematici legati alle
periferie urbane ritorna in mente l’episodio clamoroso degli émeutes (sommosse) nella banlieue di Parigi. Il 27
ottobre del 2005 a Clichy-sous-Bois, un comune pochi chilometri a est di Parigi
due adolescenti muoiono fulminati mentre si nascondono nella cabina del
trasformatore della Edf, la società francese dell’energia, tentando di sfuggire
alla polizia. In seguito alla diffusione della notizia scoppia una serie di
disordini che durerà tre settimane, allargandosi anche ad altre periferie del
Paese. Il bilancio finale sarà di quasi tremila arresti, oltre cinquanta
poliziotti feriti e circa novemila automobili date alle fiamme, numeri che
fanno della rivolta la più grande che si sia verificata nelle città francesi
dal maggio del 1968. Gli insorti sono quasi tutti di origine africana. Le
notizie degli scontri francesi hanno una grande risonanza mediatica
internazionale e portano alla ribalta della cronaca i temi del disagio e
dell’emarginazione nella banlieue francese raccontati in film come La haine (L’odio) di Mathieu
Kassowitz (1995).
Le altre capitali europee non sono estranee a questo
genere di tensioni. Nel 2011, dopo l’uccisione a Londra di un ventinovenne da
parte della polizia nell’ambito di un’indagine sui crimini da arma da fuoco
all’interno della comunità nera, un’ondata di violenza e saccheggi scuote la
Gran Bretagna partendo dai quartieri londinesi di Tottenham e Brixton e
estendendosi poi ad altre aree della città e del Paese. Mentre il governo e le
forze dell’ordine attribuiscono i disordini a criminali e teppisti, diversi
osservatori indicano fra le cause anche il disagio sociale, la disoccupazione e
la povertà che si stanno diffondendo a seguito della crisi finanziaria e delle
politiche economiche del governo britannico.
Un servizio della Bbc del febbraio 2012 illustra poi la
realtà degli slums ai margini di Londra, mostrando una delle zone a ovest
di Londra dove immigrati illegali provenienti prevalentemente dallo stato
indiano del Punjab vivono in circa 2.500 casette per la maggior parte abusive,
a volte prive di acqua ed elettricità, in cambio delle quali pagano affitti che
arrivano anche a ottocento sterline al mese. Attualmente, gli insediamenti
illegali a Londra sono, secondo le stime, circa diecimila.
Nemmeno la Svezia, spesso citata come modello di welfare
state e capace, fino ad oggi, di limitare il disagio sociale, è immune dai
disordini. Nel maggio dello scorso anno, a Stoccolma la polizia uccide, nel
tentativo di disarmarlo, un immigrato di origine portoghese armato di coltello.
L’evento suscita una serie di rivolte che partono da Husby, quartiere
multietnico della capitale svedese, e si estendono nel corso di cinque giorni
ad altri quartieri ed altre città. Sebbene i disordini a Stoccolma abbiano
proporzioni differenti rispetto a quelle di Parigi e Londra, il fatto che la
pacifica e socialmente inclusiva Svezia abbia vissuto giorni di violenza e
scontri spinge molti commentatori a chiedersi: se l’instabilità può travolgere
perfino la Svezia, che cosa può succedere altrove, dove le condizioni sono già
più critiche e il disagio tangibile?
In un articolo del 2005 il Sir (Servizio di informazione
religiosa) chiedeva a diversi esperti se i fatti di Parigi possono ripetersi
anche da noi. Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università di
Milano-Bicocca, rispondeva che la principale differenza fra il caso francese e
quello italiano risiede nel fatto che oltralpe «la ghettizzazione riguarda
immigrati di seconda generazione, i quali sperimentano la disillusione, la fine
del sogno di integrazione e di benessere» mentre a Milano «sono immigrati di
prima generazione, spesso giunti da poco nel nostro paese. Per loro il sogno
italiano resiste ancora». Inoltre, aggiungeva la sociologa, in Italia «la
presenza straniera è più distribuita sul territorio. Questo mix sociale tende
dunque a ridurre o a stemperare la marginalità e svolge un ruolo di
ammortizzatore del disagio». Ciò premesso, concludeva Zajczyk, non si può del
tutto escludere l’ipotesi che la situazione che in Francia ha dato origine alle
rivolte interessi progressivamente pure altri paesi e, per effetto emulativo,
tocchi anche l’Italia.
Quanto al tema specifico degli insediamenti informali,
non ci sono dati certi e univoci circa il loro numero sul territorio italiano,
né è chiaro quante persone vivano in queste condizioni; le stime parlano di
circa seimila baraccopoli in tutta la penisola e di circa due milioni di
persone (non solo stranieri) interessate dal fenomeno degli alloggi informali.
Il censimento Istat del 2011 ha rivelato che in dieci anni le famiglie che
dichiaravano di vivere in baracche, tende o simili era più che triplicato:
oltre settantunomila contro le circa ventitremila del 2001.
Nel corso del 2014 Cooperando cercherà
di affrontare il tema delle periferie urbane, degli insediamenti informali e
del disagio con una serie di reportage sulle realtà e sulle esperienze in corso
in alcune città italiane. Particolare attenzione verrà data alla condizione dei
migranti, ma si cercherà di estendere il più possibile lo sguardo in modo da
far emergere un quadro il più verosimile possibile delle persone e delle storie
che abitano il margine e la periferia, ovunque questo si collochino nella città.
Chiara Giovetti