Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 22
Anche nella corsa elettorale
per le presidenziali (di luglio 2014) il peso delle istanze islamiste si è
fatto sentire. Se da un lato lo stato cerca di contrastare le derive estremiste
più pericolose, dall’altro sembra lasciare un po’ troppo margine a situazioni discriminatorie.
Le minoranze religiose, tra cui il 10% di popolazione indonesiana di fede cristiana,
sono oggetto di campagne diffamatorie e violazioni di diritti.
In piena campagna elettorale per le
presidenziali del 9 luglio (in corso nel momento in cui scriviamo), la politica
di ispirazione confessionale si è posta di traverso lungo la strada di Joko
Widodo (Jokowi), il candidato favorito, popolare governatore di Jakarta, in
lizza contro Prabowo Subianto, ex comandante delle forze speciali
dell’esercito. La minaccia degli islamisti di togliere il sostegno al suo
partito, il Partito democratico indonesiano per la lotta (Pdi-P), ha inserito
un elemento di incertezza nella corsa elettorale che prima era sembrata priva
di ostacoli.
A minacciare il boicottaggio è stato soprattutto l’alleato
Pkb (Partito per il risveglio nazionale), braccio politico della maggiore
organizzazione di massa indonesiana, il Nahdlatul Ulama (Nu), sottoposto
all’influsso dei leader religiosi, scettici sull’agenda sociale del candidato
del Pdi-P, e sul suo programma in generale, in cui poco spazio trovavano le
istanze religiose.
Al programma laicista del Pdi-P, infatti, il Partito per
il risveglio nazionale contrappone un’agenda fortemente ispirata all’islamismo
sociale che sempre più ricopre un ruolo di peso nelle dinamiche politiche
nazionali. Le istanze del Nahdlatul Ulama, infatti, e quelle dell’altro
grande movimento sociale islamista, la Muhammadiya, entrambi con decine
di milioni di membri, sono difficilmente ignorabili da chi detiene il potere a
Jakarta, e ancor più da chi intenda mantenerlo.
L’Indonesia è il più popoloso paese islamico al mondo, con
250 milioni di abitanti, di cui l’88% musulmani. Arrivato all’inizio del XIV
secolo e abitualmente pacifico e dialogico, l’Islam indonesiano è fortemente
influenzato dall’esperienza della mistica islamica (sufismo) che ha trovato
varie modalità di accordo con la preesistente mistica animista o di ispirazione
induista.
L’arcipelago indonesiano, esteso su quasi due milioni di
chilometri quadrati e frammentato in 17mila isole, decine di etnie e centinaia
di lingue e dialetti, ha fatto in tempi recenti della «grande rete» di Inteet
uno strumento importante di comunicazione e di integrazione nazionale. Anche
per il cristianesimo locale, che raccoglie circa il 10 per cento della
popolazione, Inteet rappresenta uno strumento d’informazione e di educazione
fondamentale. Esso si affianca alla presenza cristiana nei mass media stampati,
televisivi e radiofonici, e alla partecipazione attiva al dibattito politico,
sociale e culturale.
Su Inteet si muove però anche l’islamismo radicale
duramente represso dalle autorità nelle sue espressioni estremiste e
terroriste, indebolito da centinaia di arresti, condanne al carcere e alla pena
capitale dopo i tragici attentati di Bali del 12 ottobre 2002. L’azione di
contrasto del radicalismo islamico cerca insieme di disinnescare il rischio di
conflitto interreligioso, di sovvertimento del potere civile e di fuga dei
cooperanti e investitori stranieri di cui il paese ha bisogno. Essa però fatica
a evitare la pressione crescente che opprime le minoranze religiose.
Gli islamisti paventano una «cristianizzazione»
dell’arcipelago. Essa è lo spauracchio che giustifica le mobilitazioni di massa
e gli attacchi da parte di facinorosi.
Il sobborgo di Bekasi, presso la capitale Jakarta, è
diventato dal 2008 il centro di una contesa tra Chiese cristiane e gruppi
radicali islamici che riguarda edifici religiosi per i quali vengono concessi
permessi di costruzione ma non di apertura al culto. I luoghi di culto di altre
fedi rappresentano una minaccia per chi vede nell’Islam la sola fede possibile
nell’arcipelago.
Dalle strade di Bekasi, lo scontro si è portato da tempo
anche sulle strade «virtuali» di Inteet, sempre aspro e pretestuoso, e con
gli stessi «protagonisti». Alcuni, come il Consiglio indonesiano per la
diffusione dell’Islam e il Movimento degli studenti islamici, con un forte
accento anticristiano. Altri, come il Fronte dei difensori dell’Islam,
particolarmente impegnati contro l’apostasia. Infine, hanno un ruolo di
supporto organizzazioni semilegali o del tutto illegali di derivazione salafita
e jihadista, come pure la Jemaah Ansharut Tauhid, l’organizzazione
fondata nel 2008 da Abu Bakar Ba’asyir, ora in carcere per aver ispirato i
fatti di Bali, ma ancora principale punto di riferimento della Jamaah
Islamiah, movimento emulo di Al Qaeda.
La propaganda islamista definisce «allarmanti» le
conversioni al cristianesimo, e insinua che l’accesso a religioni diverse da
quella musulmana sia frutto di manipolazione e non di adesione spontanea.
Secondo questa campagna denigratoria, l’Islam dovrebbe affrontare i «concorrenti»
ad armi pari, con propri strumenti televisivi e informatici.
A confutare queste insinuazioni e pretese sono in molti, e
tra essi l’Inteational Crisis Group, che ha denunciato il tentativo di
creare tensioni e scontri tra le comunità, utilizzando a pretesto i dati
relativi ad aree del paese che hanno visto una certa immigrazione cristiana per
ragioni professionali o per fuga da calamità naturali (come nella provincia di
Aceh, sull’isola di Sumatra).
Al momento il grande paese asiatico, impegnato a gestire
l’uscita dal sottosviluppo e a mantenersi ancorato a un Islam tradizionalmente
dialogico e tollerante, è al 47° posto nella classifica della persecuzione
anticristiana nel mondo stilata da Open Doors (e reperibile su www.worldwatchlist.us).
Non ha tuttavia tagliato le radici dell’odio. Forze di sicurezza e magistratura
hanno colpito duramente l’islamismo radicale per quanto riguarda la minaccia
alla stabilità nazionale, ma il governo ha mancato di prevenire e combattere le
intimidazioni contro le minoranze religiose. Movimenti di attivisti islamici,
che attuano iniziative da veri e propri vigilantes, sono diventati una minaccia
all’ordine pubblico. In più il fallimento di una vera decentralizzazione
amministrativa, anche delle autorità preposte alle attività religiose, ha
impedito lo sviluppo di iniziative efficaci di dialogo e confronto. Infine, gli
interessi politici e personali che inquinano il dibattito sui limiti della
libertà d’espressione, hanno permesso iniziative propagandistiche e
persecutorie. La carta della paura della «cristianizzazione», di una presunta
minaccia al predominio islamico nell’arcipelago, giocata dai movimenti
islamisti, rischia di portare non soltanto nuovi aderenti al network estremista
e alle sue affiliazioni jihadiste, ma anche visibilità e giustificazione,
finora negate, alle loro azioni.
Leggi per l’unità, destinate
a dividere
A Sumatra, nella provincia di Aceh, dove l’autonomia
garantita dagli accordi di pace firmati tra guerriglieri islamisti e governo
indonesiano ha portato tra l’altro anche all’affermazione – unica provincia
indonesiana – della Sharia, la legge coranica, diverse fonti denunciano
crescenti difficoltà per la cristianità locale che conta 12-13mila individui.
Oggetto del contendere non è soltanto il lungo e tortuoso
iter necessario per aprire un luogo di culto non islamico, ma anche un
documento firmato dai cristiani nella provincia nel 2001 in cui si accetta che
ad Aceh possano esservi una sola chiesa e quattro cappelle. Una situazione
superata negli anni per arrivare a 22 luoghi di culto, formalmente provvisori e
costruiti con l’approvazione – secondo Fides – di un forum
interreligioso locale che include esponenti musulmani. Una necessità per i
cristiani di Aceh, contro cui hanno preso posizione i militanti islamici.
Come sottolineato a agenzia Fides da padre
Romanus Harjito, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie, «tali
episodi sono tollerati dal governo centrale, che ha concesso la Sharia. In
questi casi, per noi cattolici, c’è il mancato rispetto della Pancasila, la
legge fondamentale dello stato indonesiano alla base della convivenza fra
comunità religiose, i cui cinque principi sono: fede in un solo Dio, diritti
umani, unità nazionale, democrazia, giustizia sociale».
Proprio nel tentativo di tradurre i cinque principi in
norme che, nella visione dei padri fondatori dello stato nel 1945, dovevano
essere fonte di unità, nazionalismo e identità, starebbero però le radici di
buona parte dei problemi delle minoranze religiose. Sia perché esse hanno
riconosciuto come religioni ufficiali i soli islamismo (nella versione
sunnita), protestantesimo, cattolicesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo,
a scapito di altre fedi come il giudaismo, l’islamismo shiita, l’islamismo
Ahmadiya (che sostiene il principio di una profezia non completata con
Maometto), le fedi tradizionali autoctone; sia perché hanno indotto una parte
consistente delle strutture di governo e amministrazione a organizzarsi proprio
sulla base di tali presupposti.
Ad esempio, il ministero per gli Affari religiosi ha
dipartimenti che rispettano le fedi approvate, negando a chi non ne fa parte il
riconoscimento ufficiale e eventuali benefici. I curricula scolastici
rispecchiano la discriminazione, e gli educatori sono scelti in base alla loro
fede per operare con studenti della stessa fede, ovviamente mainstream,
negando così possibilità anche professionali a comunità di fedi non
riconosciute.
Di converso, l’Organismo di cornordinamento per il controllo
delle credenze mistiche (ovvero le fedi ancestrali), attivo dagli anni
Cinquanta, ha, in tempi recenti, esteso le proprie attività fino a includere il
controllo di denominazioni accusate di provocare disordine sociale, tra cui i
circa 400mila Ahmadiya, che da minoranza discriminata si trovano anche a essere
sottoposti a politiche coercitive.
Nahdlatul Ulama e
Muhammadiya
Nata nel 1926, la Nahdlatul Ulama (Nu,
Risveglio dei leader religiosi) è la maggiore organizzazione di ispirazione
islamica (sunnita) dell’Indonesia. Forte oggi di almeno 30 milioni di membri,
con una decisa impronta sociale, ha il suo nucleo operativo nelle quasi 8.000
scuole coraniche (pesantren) che costituiscono un sistema educativo
parallelo a quello pubblico soprattutto tra i gruppi meno favoriti o isolati di
popolazione. Nonostante il suo ruolo determinante nella lotta contro il
colonialismo e l’occupazione giapponese, dopo l’indipendenza il suo impegno
politico è stato solo occasionale. Raramente è scesa a compromessi con la sua
essenza di movimento religioso e sociale con l’obiettivo di far nascere uno
stato islamico in Indonesia, paese musulmano ma dai forti tratti laicisti.
Ufficialmente non ha svolto attività politica nell’ultimo quarto di secolo. La
parentesi della presidenza di Abdurrahman Wahid «Gus Dur», suo leader, tra
l’ottobre 1999 e il luglio 2001, si è conclusa prematuramente, nonostante il
prestigio personale. Essa però è servita a unificare il paese dopo la fine del
regime di Suharto, che aveva usato la carta islamista per rafforzare il suo
potere fino alle massicce proteste che lo hanno indotto alle dimissioni nel
1998.
La Muhammadiya
(Frateità di Maometto), gruppo nato all’inizio del XX secolo e visto con
sospetto dagli islamisti tradizionalisti (Nahdlatul Ulama è nata proprio
in reazione alla Muhammadiya), è nei numeri di poco inferiore alla Nu,
ma ha un impatto maggiore sulla vita pubblica. Si ispira a una diversa visione
dell’Islam (incentiva l’interpretazione individuale del dettato coranico
piuttosto che quella della giurisprudenza islamica), e ha un maggiore slancio
sociale e politico. Anch’essa si avvale di numerose scuole di ispirazione
islamica (6.000). Esse però sono più aperte nei curricula, e in molti casi
accettano studenti non musulmani. Alla Muhammadiya fanno riferimento
anche centinaia di ospedali e cliniche diffusi nel paese, centri culturali e di
studi sociali. Politicamente attiva, l’organizzazione – che ha finora resistito
alle spinte per dare vita a un proprio partito – lascia sostanzialmente liberi
i suoi membri di aderire a movimenti che non contrastino con le sue idee di
base. Suoi limiti, secondo i detrattori, sarebbero l’apertura a istanze
religiose locali precedenti l’arrivo della fede di Maometto nell’arcipelago,
l’apertura dialogica nei confronti di altre fedi immigrate, come quella
cristiana, e infine la mediazione tra Islam e modeità che è al centro delle
sue origini e del suo sviluppo.
Risultati delle elezioni 2014:
Canditato |
Vice |
Partito |
voti |
% |
|
Prabowo Subianto |
Hatta Rajasa |
Great Indonesia Movement Party (Partai Gerakan Indonesia Raya) |
62,248,936 |
46.83% | |
Joko Widodo |
Jusuf Kalla |
Indonesian Democratic Party – Struggle (Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan) |
70,666,298 |
53.17% |
Total 132,915,234 votanti
Dati ufficiali dalla Commissione elettorale Indonesiana (http://www.kpu.go.id)
Il Jakarta Globe parla di vittoria incontestabile di Joko Widodo.
Vatican Insider commenta: «La sconfitta del presidente in carica e la vittoria dei moderati alimentano la fiducia tra le minoranze cristiane».
Dati completi delle elezioni su Wikipedia.Indonesian presidential elections, 2014.
Nella foto qui sotto il nuovo presidente dell’Indonesia Joko Widodo (da Wikipedia)
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Stefano Vecchia