Il vento cambia a Mogadiscio

La Somalia di oggi tra business, Al Shabaab e tentativi di democrazia.
I somali della diaspora vedono possibilità di ricostruire il paese. E soprattutto «fare business». Ma per questo occorrono tanti soldi. Iniziano a essere profonde le differenze tra chi ha accesso alle risorse e chi no. La ricostruzione si intravede, ma la strada intrapresa non pare la migliore. Ne parliamo anche con mons. Giorgio Bertin, amministratore apostolico della Somalia.

Nairobi. Il vento di cambiamento che
investe la Somalia soffia sulle verande degli hotel che costellano Eastleigh,
la piccola Mogadiscio annidata nel cuore di Nairobi, in Kenya. È qui che la
diaspora ha coltivato per oltre vent’anni un’idea di «somalità» senza confini,
sospesa tra buufis, l’onnipresente anelito d’emigrazione, e fakudire,
la nostalgia per la patria a pezzi. Mai come ora dal crollo del regime di Syiad
Barre, però, questi frammenti hanno la possibilità di ricomporsi. Ma in che
forma? Uno stato centrale o federale? Come garantire la presenza delle
istituzioni su territori governati da miriadi di autorità locali? E che fare
delle centinaia di migliaia di rifugiati nei campi profughi in Somalia e nei
paesi limitrofi?

Missione diaspora

Attoo a un piatto di spaghetti e a un chai con latte di
cammello, queste domande restano sullo sfondo, mentre somali con passaporti
americani, canadesi, britannici, o con la semplice carta d’identità da
rifugiato dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), discutono
nell’unico linguaggio che non conosce differenze di clan: quello degli affari.

Democrazia è il mantra che pizzica le corde dei donatori
inteazionali, la chiave per allentare i cordoni della borsa. La politica
resta un gioco da equilibristi, dove le alleanze sono determinate dagli
interessi in gioco.

«Possibilità d’investimenti» è pertanto la formula che schiude
scenari futuri e che ridisegna la geografia regionale e le rotte della
diaspora, pragmaticamente proiettata sempre più verso l’Africa orientale e
meridionale ricche di opportunità, sempre meno verso l’Occidente della crisi e
dei sospetti.

«In Europa è sempre più difficile fare affari», dice Bashir,
cittadino britannico, imprenditore edile con investimenti nel Golfo Persico. «Possiamo
ricostruire la Somalia da zero. Mogadiscio può diventare la prossima Dubai».
Lui crede nel suo paese: può permetterselo. Può permettersi i 100 dollari a
notte degli alberghi di lusso presidiati come fortezze e i 20 dollari al giorno
per ogni guardia della sua scorta, quando viaggia nella capitale somala, una
volta al mese. Non ha bisogno di pagare quando si reca più a Nord, a Galqayo,
nella regione dove domina il suo clan, Hawyie. Indicativa della nuova
aria che si respira in Somalia è l’affabilità con cui parla con Axmed Dhadin e
Cabdullahi Moxamed. Il primo è un businessman con passaporto del Kenya:
un somalo kenyota, come quegli oltre due milioni che vivono (secondo
statistiche ufficiose) nella provincia Nord orientale. Ma nei fatti il confine
con la Somalia è sempre stato solo sulle mappe. I legami di sangue con il
proprio clan annullano qualunque frontiera. E Axmed è un darod ogaden:
nei vent’anni di anarchia che hanno lacerato la Somalia, lui e Bashir (o,
meglio, i loro clan) si sono spesso trovati su fronti opposti. Anche Cabdullahi
Omar è un darod ogaden, ma con carta d’identità da rifugiato. Vive a
Nairobi da sei anni. Grazie all’aiuto di Axmed, ha evitato il campo profughi di
Dadaab (vedi MC gennaio 2012), al contrario di centinaia di migliaia di somali
con meno appoggi di lui.

Attentati e rappresaglie

Nel dicembre del 2012 l’aria di Eastleigh si
fa pesante: l’intero quartiere è scosso da una raffica di attacchi
terroristici, che la polizia kenyana attribuisce immediatamente alle milizie islamiste
di Al Shabaab, attive soprattutto nel Sud della Somalia e nella zona di
confine con il Kenya. Il governo dell’allora presidente Kibaki annuncia un giro
di vite sulla popolazione di rifugiati, ordinando di sgomberare le aree urbane
per andare nei campi profughi in attesa di rimpatrio. Si moltiplicano gli
episodi di abusi da parte della polizia. Cabdullahi, confortato dalle notizie
in arrivo dalla Somalia, si fa rilasciare un foglio di rimpatrio e torna a
Mogadiscio. Ma si accorge ben presto che nella capitale presidiata da migliaia
di soldati dell’Unione Africana (la missione Amisom) si continua a morire, per
un sospetto di spionaggio, per una rapina, per aver rivendicato una proprietà
di un tempo e oggi occupata da un’altra famiglia.

Così torna in Kenya per la via più sicura,
apertasi negli ultimi anni: quella aerea, per Entebbe, in Uganda, dove il
passaporto somalo non solo è sfogliato senza batter ciglio, ma anche timbrato
con un visto che offre la possibilità di circolare legalmente per l’intera Africa
orientale.

Ora Cabdullahi sa che è possibile tornare in
Somalia, ma solo con risorse: soldi, documenti, protezione. È di questo che
discute con Bashir e Axmed. Nel concreto, dell’acquisto di terre nella regione
di Gedo, al confine con l’Etiopia: un’area fertile lungo il corso del fiume
Juba, ideale per la coltivazione del tabacco. Attoo a questo tavolo nel
ristorante dell’hotel Diamond emerge un quadro della Somalia di oggi: dove le
fratture separano non più (solo) i diversi clan, ma più in generale chi ha
accesso alle risorse chiave e chi ne è escluso.

Ottimismo e rimesse

Dall’elezione del presidente Hassan Sheikh
Mohamud, beniamino dei donatori inteazionali per il suo passato di attivista
della società civile, lo scorso settembre, un crescente ottimismo ha
accompagnato i passi avanti fatti, soprattutto nel campo della sicurezza.
Mentre il contingente di circa 18.000 soldati dell’Ua è riuscito a strappare
Mogadiscio ad Al Shabaab, le truppe kenyane hanno messo alle corde gli
islamisti nel Sud del paese. Inoltre, il prestigio del presidente ha attratto
il sostegno degli emirati del Golfo e ha consolidato quello della Turchia, al
momento uno dei principali (e sicuramente il più popolare) partner della
Somalia.

La maggiore linfa vitale, tuttavia, resta
quella delle rimesse della diaspora. Rimesse che, se prima garantivano la
sopravvivenza di intere famiglie, adesso stanno ricostruendo il paese. Mentre
le istituzioni pubbliche restano un guscio vuoto, buono se mai per attirare
aiuti umanitari, i capitali privati tengono in piedi infrastrutture e servizi,
dalla sanità all’istruzione. Il capitale scorre nei circuiti inteazionali:
quello delle grandi banche che offrono anche linee di finanziamento lariba,
senza interessi, conformi ai precetti islamici. O quello dell’hawala, il
capillare sistema di rimesse, basato sulla fiducia, attraverso il quale la
diaspora muove soldi nel mondo. Un’istituzione finanziaria situata in una zona
grigia tra legalità e illegalità, opaca e guardata con sospetto dalle intelligence
occidentali, che v’intravedono un canale di sostegno per la pirateria o per
militanti islamici.

Eppure l’hawala continua a essere un
canale privilegiato per riversare capitali in Somalia: un fiume di dollari
americani che, negli ultimi anni, ha continuato a crescere, finanziando il
settore edilizio, le telecomunicazioni e il business della sicurezza. Ma
anche facendo schizzare alle stelle il costo della vita e consentendo a ricchi
esponenti della diaspora di acquistare terra, soprattutto nelle zone dei fiumi
Juba e Shabelle, gli unici corsi d’acqua perenni del paese. Là dove si piantano
i semi dei conflitti futuri.

Capelli crespi

Ne è sicuro Omar, insegnante d’inglese a
Eastleigh e attivista per i diritti umani. Per lui e quelli della sua comunità
non c’è posto al tavolo attorno al quale la Somalia viene comprata un pezzo
alla volta. E, pur arrivando da Qoryoley, nel basso Shabelle, non ha risorse
(denaro e protezione armata) né per visitare la madre malata né tantomeno per
comprare terra. È un somalo jareer, termine che indica i capelli crespi
che lui ha in comune con altri africani, ma non con i Somali cushiti,
dai lineamenti e dai capelli lisci. Per loro, lui e quelli come lui sono stati
per secoli adon, schiavi, agricoltori marginalizzati dai pastori, quindi
usati come braccia dagli italiani nelle piantagioni di banane, etichettati come
bantu dalle agenzie umanitarie dopo il collasso dello stato somalo, nei
primi anni ’90.

«Continuiamo a essere discriminati nella
nostra terra, usati da Ong create e gestite da hawyie e darod per
attrarre i finanziamenti inteazionali e reclutati da al Shabaab» dice.

«L’apartheid del Coo d’Africa», come
l’ha definita lo storico Mohamed Eno, è una crepa che incrina il mito della
monolitica identità somala. I jareer, popolazioni indigene secondo una
versione, discendenti degli schiavi rapiti lungo la costa swahili dagli
arabi e rivenduti sui moli di Merca e Brawa, a sud di Mogadiscio, secondo
un’altra, sono le vittime croniche di una storia che si è sviluppata secondo le
dinamiche dei rapporti tra mercanti, nomadi e agricoltori, prima ancora di
quelli tra clan. La guerra ha travolto le loro terre, spingendoli in massa nei
campi profughi. La pace rischia ora di legittimae l’esclusione sociale. Sono
loro a guardare con sospetto la diaspora ingrassata all’estero negli ultimi
vent’anni e ora tornata a Mogadiscio per uno shopping miliardario, tra dollari
e mitra. Sono loro che ingrossano le fila di Al Shabaab, dove una forma radicale
di Islam offre una possibilità di riscatto sociale. Gli entusiasmi
inteazionali per i progressi sul piano della stabilità sono puntualmente
stemperati dagli attacchi che prendono di mira il governo somalo, le agenzie
umanitarie od obbiettivi civili. Simboli della nuova Somalia che sta lentamente
sorgendo dalle macerie, ma non nella forma e nei modi che molti somali
vorrebbero.

Gianluca
Iazzolino

       Il difficile processo di stabilizzazione                                                          


Toare a essere un paese

Dal 2012 la Somalia vive un complicato processo politico.
Con un nuovo presidente e un governo che non controllano il territorio. Mentre
continua la presenza di militari stranieri. E a Londra si celebra la Conferenza
internazionale per la Somalia.

Il 7 maggio scorso a Londra, il premier britannico David
Cameron ha organizzato la seconda Conferenza internazionale sulla Somalia. Vi
hanno partecipato 50 paesi e organismi inteazionali (Italia compresa), allo
scopo di spingere sul processo di pace e la normalizzazione del paese.

È nel febbraio dello scorso anno che i leader somali
(governo federale transitorio, Tfg, e leader regionali) si incontrano per
fissare i prossimi passi. Nel giugno gli stessi leader approvano una bozza
della nuova Costituzione, che viene poi approvata a grande maggioranza dal
parlamento (i cui deputati risiedono a Nairobi). Il parlamento federale somalo
si insedia il 20 agosto 2012 e dà origine al governo federale. È questo
parlamento che elegge l’attuale presidente, Hassan Sheikh Mohamud, il quale
nomina il primo ministro Abdi Farah Shirdon.

È proprio il presidente, ben visto dalla comunità
internazionale, che presiede la conferenza insieme a Cameron.

Il presidente Mohamud vuole raccogliere soldi per
ricostruire la Somalia e creare alleanze. L’Unione europea ha promesso 44
milioni di euro e la Gran Bretagna circa 29 per esercito, polizia e sistema
giudiziario. La questione «sicurezza» rimane infatti centrale per pensare alla
stabilizzazione del paese. L’assetto che si pensa è di tipo federale, tenendo
in conto che due regioni, il Somaliland e il Puntland (non rappresentate alla
conferenza), si sono dichiarate indipendenti rispettivamente nel 1991 e 1998,
senza mai essere riconosciute dalla comunità internazionale.

Il governo che si è insediato nel novembre 2012 è il primo a
essere riconosciuto da Usa e Fondo monetario internazionale dall’inizio della
guerra civile nel 1991. Goveo che, ancora oggi, è appoggiato dai 18.000
militari dell’Amisom (African Union Mission in Somalia) di cui fanno parte
Burundi, Uganda, Kenya (con 5.000 uomini), Gibuti e Sierra Leone. Sono presenti
inoltre truppe etiopi. Ma, garantisce il presidente alla conferenza di Londra,
entro il 2015 il governo sarà in grado di gestire direttamente la sicurezza.

Gli islamisti di Al Shabaab (vedi MC novembre 2012) sono però
sempre attivi, anche se hanno perso forza, e hanno colpito con due attentati a
Mogadiscio il 14 aprile scorso, causando 45 morti. Hanno poi replicato il 5
maggio (11 vittime). Cacciati dalla capitale nell’agosto 2011, gli Al Shabaab
continuano a imperversare con azioni di guerriglia.

Marco Bello

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Gianluca Iazzolino