Il ritorno dell’impero?

Gli interessi di Istambul
in Africa e Medio Oriente

La Turchia ha
intrapreso un allargamento  dei propri
orizzonti. In particolare ha espanso la sua influenza in Medio Oriente e
Africa. Non senza intrecci con le primavere arabe. Per interessi economici,
religiosi o puramente geopolitici?

«Neottomanesimo», così è definito il
recente fenomeno dell’inedito protagonismo della Turchia in politica estera. A
partire dagli inizi degli anni Duemila, infatti, Ankara ha iniziato a tessere
intensi rapporti politici, economici e culturali in aree in cui non era
presente (a volte neanche con propri diplomatici). Questa espansione ha
ricordato a molti la vasta influenza che l’impero ottomano esercitò nei secoli
passati nei suoi domini non solo in Asia centrale e in Medio Oriente, ma anche
in Africa. Alcuni analisti vi hanno scorto una volontà di dominio regionale,
altri l’hanno letta come una necessità economica, altri ancora come un modo per
esportare l’islam. Ma di che cosa si tratta realmente? E quali effetti ha
avuto?

 

Origini e fondamenti

La nuova politica economica
turca nasce nel 2002 quando Ahmet Davuto?lu, fino ad allora, un anonimo
professore dell’Università di Beykent a Istanbul, dà alle stampe un corposo
volume dal titolo «Profondità strategica». Il volume teorizza un allargamento
degli orizzonti della politica estera turca verso altre regioni sulla base
degli interessi economici e strategici di Ankara. È una nuova visione del ruolo
della Turchia nel mondo che stravolge gli schemi adottati fino ad allora dai
politici della penisola anatolica. «A partire da Mustafa Kemal Atatürk – spiega
Eugenio Dacrema, esperto di politica mediorientale, ricercatore presso
l’Università di Trento -, la classe politica turca ha sempre guardato Stati
Uniti, Europa e Nato come uniche sponde di interesse. I rapporti con i vicini
sono stati per molto tempo conflittuali, quando non erano un ignorarsi a
vicenda. Con il nuovo trend dettato dall’opera di Davuto?lu, la visione si
amplia. La Turchia dovrebbe diventare un nuovo attore egemonico in una regione
più vasta e, pur non tagliando i rapporti con Europa e Usa, le relazioni con
l’Occidente dovrebbero passare in secondo piano.

Le direttrici dell’espansione della Turchia quindi si
indirizzano verso l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa (soprattutto il
Nord Africa). Davuto?lu viene progressivamente coinvolto in questa politica. Da
semplice teorizzatore, ne diventa protagonista, prima come ministro degli
Esteri e poi come premier (carica che ricopre attualmente). Così, le sue tesi
diventano la dottrina ufficiale dell’Akp, il partito al governo, e del suo
leader Recep Tayyip Erdo?an».

Quello
della Turchia è un espansionismo prevalentemente economico e politico. I politici
di Ankara non hanno mai accennato a un ruolo delle forze armate in questa
strategia. Ma ciò è comprensibile, se si considerano le cattive relazioni tra
l’Akp e le forze armate turche, depositarie dell’eredità laica di Atatürk.
Molto di questo entusiasmo deriva dal successo economico degli anni Duemila
quando la Turchia sembrava essere in grado di attrarre nella sua sfera i paesi
del Medio Oriente e di trasformarli in mercati per i propri prodotti. «In realtà
– aggiunge Dacrema -, l’economia turca si è rivelata molto fragile. Il sistema
si è basato sul credito facile volto al consumo e su un’industria nascente, ma
che produce beni di basso valore aggiunto, che fanno fatica a competere sui
medio-alti livelli tecnologici. Ciò ha aumentato la ricchezza, ma si è trattato
di una bolla. La Turchia ha vissuto la stessa crisi della Grecia ed è rimasta a
galla solo perché ha potuto svalutare la moneta (-40% nell’ultimo anno)». Ma
per tutti gli anni Duemila, è l’economia a far da traino alla politica estera
turca. In questo senso va letta la creazione di accordi di libero scambio con i
paesi limitrofi (Libano, Siria e Giordania) accompagnati dalla liberalizzazione
dei visti. Così come l’intesa con l’Iran che, per anni, diventa un partner
strategico per Ankara.

 

 

Le Primavere arabe

Sarebbe limitante, però,
vedere il «Neottomanesimo» solo in chiave economica. La nuova politica turca si
è nutrita anche di una visione politica che si è rivelata «attraente» per molti
paesi arabi.

Da anni, la Turchia si
presenta come un paese musulmano nel quale un partito islamico governa secondo
i principi della democrazia. Questa impostazione è diventata un modello di
riferimento per quelle nazioni che, uscite dalle rivolte arabe, stavano
cercando nuovi assetti politico costituzionali. «Va detto – osserva Valeria
Talbot, ricercatrice dell’Ispi, esperta in Medio Oriente e Nord Africa – che i
rapporti politici con i paesi del Medio Oriente e il Nord Africa hanno subìto
diverse fasi. Dopo la Primavera araba, la Turchia era certamente un modello
politico da imitare. Il successo delle visite di Erdo?an in Egitto e di Davuto?lu
in Tunisia ne sono la dimostrazione più lampante. La successiva apertura alla
Fratellanza musulmana ha però creato tensioni con i paesi del Golfo e con lo
stesso Egitto. Solo da qualche mese i rapporti con Riad sono nuovamente
migliorati e si sono registrate convergenze sul dossier siriano».

È proprio in questo legame
con la Fratellanza che molti hanno visto il limite della politica del
presidente turco. «Erdo?an cercava di prendere sotto la propria protezione la
Fratellanza musulmana internazionale – osserva Dacrema -. Voleva diventare cioè
un modello per gli altri paesi. Un progetto ostacolato tanto dalla Fratellanza
egiziana, che da sempre ha un ruolo di guida dell’organizzazione, sia dalla
tunisina Ennahda che, nonostante la buona accoglienza dei politici turchi, si è
sempre dimostrata piuttosto fredda rispetto all’idea di una guida turca della
Fratellanza. Qui giocano anche un po’ i rapporti non sempre facili tra il mondo
turco e quello arabo.

È un po’ come se la Cdu/Csu
tedesca in passato avesse voluto imporre un suo ruolo guida ai partiti
democristiani europei: i valori in comune c’erano, ma poi ogni Dc ha sempre
lavorato in modo autonomo nel suo paese».

A ciò si è aggiunto un
sostanziale fallimento della penetrazione economica nel Nord Africa e in Medio
Oriente. Inizialmente pareva che la Turchia potesse rubare il mercato agli
imprenditori occidentali. In realtà, non è avvenuto. Le imprese turche sono di
piccole dimensioni e realizzano beni con basso valore aggiunto. Questo, insieme
alla scarsa conoscenza delle dinamiche economiche dei paesi arabi, ha fatto sì
che la Turchia non sia riuscita a scardinare i decennali rapporti che le
aziende europee intrattenevano con i sistemi locali. E, complice la crisi
globale che ha interessato anche il sistema economico turco, la penetrazione
sui mercati arabi è sostanzialmente fallita.

 

 

L’Africa a portata di mano

La Turchia però è andata al
di là del Medio Oriente e del Nord Africa, spingendosi anche nell’Africa
subsahariana. «Il dinamismo turco nell’Africa subsahariana – osservano Marco
Cardoni e Andrea Marino, due funzionari diplomatici del ministero degli Affari
esteri e della Cooperazione internazionale, in una recente analisi pubblicata
per l’Ispi – si caratterizza per un approccio multidimensionale che si
concretizza in un intenso sforzo diplomatico senza precedenti. Ankara ha
proceduto ad ampliare la rete diplomatica, aprendo 19 ambasciate in Africa dal
maggio 2009 al 2014. Oggi in tutto il continente ne possiede 35, di cui 30
nella regione subsahariana». La rete diplomatica ha supportato anche un impegno
crescente negli investimenti diretti e, in particolar modo, nel campo della
cooperazione allo sviluppo. «I numeri parlano chiaro – sostengono Cardoni e
Marino -: il totale degli aiuti nella regione, sommando quelli governativi a
quelli delle Ong, è passato dai 28 milioni di dollari nel 2006 ai 425 nel 2011».
In questo settore il punto di riferimento è l’Agenzia ministeriale per la
cooperazione e lo sviluppo che opera in 37 paesi africani e ha tre sedi: Addis
Abeba, Dakar e

Khartoum. Ciò ha comportato
un impegno nella costruzione o ricostruzione di infrastrutture (porti,
aeroporti, strade, scuole, ospedali), ma anche un’assistenza capillare
attraverso la cooperazione e il volontariato.

L’impegno turco però non si è
realizzato solo attraverso il rafforzamento dei rapporti bilaterali, ma anche
mediante una sempre più ampia partecipazione a missioni inteazionali.
Attualmente, Ankara partecipa a cinque missioni di pace nel Continente: Monusco
nella Repubblica Democratica del Congo, Unamid in Darfur (Sudan), Unmiss nel
Sud Sudan, Unoci in Costa d’Avorio e Unmil in Liberia.

Due simboli della
penetrazione turca sono le Turkish Airlines e Hizmet, il movimento fondato dal
predicatore musulmano Fethullah Gülen. Le linee aeree hanno aperto numerose
rotte verso l’Africa. Oggi la Turkish ha 39 destinazioni in 26 paesi tra i
quali quelli più importanti politicamente e interessanti sotto il profilo
economico: Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Ruanda, Nigeria.
Ma anche destinazioni non coperte da nessun vettore non africano come la
Somalia e l’Eritrea.

L’organizzazione di Gülen,
che vanta più di 10 milioni di seguaci e ha creato un impero mediatico e
culturale, pur non essendo sempre in sintonia con l’Akp ha aperto una rete di
scuole in Africa che hanno contribuito ad avvicinare la società africana a
quella turca. Non solo ma ha favorito l’incontro tra imprenditori africani e
turchi.

Tutti
questi fattori hanno portato a un forte incremento dell’interscambio
commerciale (dai 742 milioni di dollari del 2000 ai 7 miliardi nel 2013) e a un
aumento dell’influenza politica (libera da fardelli coloniali che
appesantiscono i concorrenti). Ma questa influenza è destinata a durare? «Oggi
l’Africa concede molti spazi alla Turchia – concludono Cardoni e Marino -, ma
Pechino, Washington e Bruxelles hanno dalla loro la possibilità di far valere
sul medio-lungo periodo una dimensione economica complessiva maggiore».

 

Enrico Casale

Enrico Casale

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