«Siate pastori con l’odore delle pecore»
(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)
Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.
Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:
13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).
Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.
In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.
Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?
Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.
Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.
Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.
Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.
L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.
Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.
Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).
Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.
La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Conclusione
Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.
«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
[8 – fine]
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1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.
2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.
3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.
4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].
5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.
Paolo Farinella