i sogni europei di Chişinău
Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia
Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.
Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.
In fuga da Mosca
La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.
Emigrazione e rimesse
Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.
Ortodossi contro ebrei
Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.
La vita fuori da Chişinău
La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.
Danilo Elia
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