I Perdenti 7. San Tommaso Moro
Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) a Londra da una famiglia benestante, il padre era giudice. In gioventù si dedicò agli studi giuridici, diventando avvocato. Sposatosi nel 1505, ebbe quattro figli. Pur avendo un ruolo istituzionale di rilievo, condusse una vita ascetica in stile francescano. Rimasto vedovo nel 1511, si risposò quasi subito, accogliendo in casa la figlia della nuova sposa e, cosa nuova per quei tempi, volle che le figlie ricevessero la stessa alta educazione dei figli, dando un esempio alle famiglie nobili del tempo.
Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni, ricoprendo incarichi sempre più importanti e diventando sempre più conosciuto per le sue capacità e la sua integrità. Segretario personale e consigliere del re Enrico VIII, seguì il cardinale Thomas Wolsey (1471-1530), dal 1515 Cancelliere del Regno, in diverse missioni diplomatiche in Europa per favorire la pace tra i vicini litigiosi come il re di Francia e l’imperatore di Spagna e Germania e per sostenere il papa alle prese con la nascita e lo sviluppo del protestantesimo luterano. Fu eletto Speaker nel 4° parlamento convocato da Enrico VIII nel 1523. Nel 1529, caduto in disgrazia Wosley, Moro venne nominato Lord Cancelliere del Regno d’Inghilterra. Durante questo periodo usò tutta la sua autorità per fermare la diffusione del protestantesimo luterano. Ma dopo solo tre anni, nel 1532, restituì al re l’incarico e il sigillo di Cancelliere adducendo motivi di salute.
In realtà aveva maturato un insanabile disaccordo con Enrico VIII circa la gestione dell’annullamento del matrimonio con la regina Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Fedele e devoto cattolico, non concordava con le misure che il re andava prendendo per escludere ogni influenza del papa nella vita e organizzazione della Chiesa inglese. Nel 1533 si rifiutò di partecipare all’incoronazione di Anna Bolena come regina d’Inghilterra, facendo aumentare l’ostilità nei suoi confronti. Difesosi con successo da diverse accuse di tradimento e corruzione, il 13 aprile 1535 gli fu richiesto di giurare fedeltà all’Atto di Successione (che riconosceva Anna come legittima regina d’Inghilterra). Si rifiutò però di accettare un secondo documento a esso connesso: l’Atto di Supremazia che nominava il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra disconoscendo il primato del papa su tutta la Chiesa. Quattro giorni dopo fu incarcerato nella Torre di Londra con l’accusa di tradimento. Durante la sua detenzione fu interrogato più volte ma non cedette né alle lusinghe né alle minacce. Il primo giorno di luglio venne condannato a morte per «avere parlato del re in modo malizioso… e diabolico» e il 6 luglio dello stesso anno fu decapitato.
Tommaso, tu sei stato una delle persone più in vista del tuo tempo, noto in tutta Europa sia come statista che come uomo di cultura, polemista e strenuo sostenitore della Chiesa e del Papato. Dal tuo ritratto più famoso sembri anche un tipo arcigno. è proprio così?
Macché. La mia fede mi dava una grande pace e serenità interiore. Ero un uomo dallo spiccato senso dell’humor e non lo perdevo neanche nelle situazioni più scabrose.
Ma l’humor non è una caratteristica di tutti i sudditi di sua maestà?
Magari fosse così! Purtroppo, anche ai miei tempi c’era gente dal brutto carattere, arcigna e irascibile che non sorrideva mai e spesso e volentieri perdeva le staffe.
Ti riferisci forse a Enrico VIII, che quando veniva contraddetto, andava subito in “ebollizione”?
Enrico era un uomo intelligente, ma passionale, impetuoso e impaziente. A lui ho dedicato molto del mio impegno politico, prima come membro del Parlamento inglese, poi come segretario personale del re, vicesceriffo della città di Londra, cancelliere del ducato di Lancaster, Speaker del Parlamento e infine come Gran Cancelliere del Regno, cercando di moderare le sue intemperanze e di aiutarlo a prendere decisioni che fossero per il vero bene del paese.
Prima di addentrarci in quella che è stata la causa della tua condanna, parlarci un po’ di te…
Venni al mondo il 7 febbraio 1477 da una famiglia non nobile della piccola borghesia londinese. A tredici anni fui mandato a fare il paggio di John Morton, cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Quindi proseguii i miei studi in campo giuridico, diventando un avvocato. Frequentando l’ambiente universitario ebbi modo di conoscere una delle personalità più in vista dell’Europa del mio tempo: Erasmo da Rotterdam (1466-1536, teologo, umanista e filosofo olandese, ndr).
Fu in quel periodo, in cui eri ritenuto unanimemente una delle menti più brillanti del mondo accademico inglese, che scrivesti L’Utopia, l’opera per la quale ancora oggi sei conosciuto e considerato con rispetto in campo filosofico, oltre politico?
Attraverso il mio romanzo «Utopia» volevo esprimere ciò che era il sogno di tutti gli intellettuali del Rinascimento europeo, descrivendo una società segnata dalla correttezza di relazioni fra le persone che vi abitano, in cui è la cultura a dominare e regolare la vita degli uomini. In un certo qual modo volevo ri-esprimere con un linguaggio adatto ai miei tempi quello che Platone aveva scritto nella sua opera «La Repubblica» in cui parlava esplicitamente di una città ideale. L’ispirazione di quest’opera, molto apprezzata nelle varie università, mi venne lavorando con Erasmo da Rotterdam alla traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano di Samosata (120-190 ca.).
Tra te ed Erasmo nacque anche un rapporto di stima e di affetto reciproco.
Con Erasmo rimasi sempre legato da una profonda amicizia, tant’è vero che in una lettera mi descrisse come un «credente ardentemente ansioso di verace religiosità, agli antipodi di ogni forma di superstizione», e anche quando fui imprigionato le sue lettere furono un fermo incoraggiamento e una profonda consolazione.
Ma oltre a Erasmo anche i tuoi familiari ti furono sempre accanto…
La mia prima moglie Jean Colt mi diede quattro figli: Margaret, Elisabeth, Cecily e John. Purtroppo la mia cara Jean morì a soli 23 anni, io rimasi con quattro bambini da accudire, per questo mi risposai dopo pochi mesi con Alice Middleton, anch’essa vedova che portava con se una figlia grandicella. Le mie spose e i miei figli furono sempre un rifugio caldo e accogliente in ogni stagione della mia vita, in modo particolare quando mi trovai imprigionato nella Torre di Londra.
Nonostante i tuoi molti meriti nell’amministrazione dello stato e nella gestione dei rapporti interazionali del tuo paese, il re entrò in contrasto con te sulla questione dell’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.
Il fatto che Caterina d’Aragona fosse la zia di Carlo V, re e imperatore di Spagna (sul cui impero «non tramontava mai il sole»), creava già per sé complicazioni interazionali. Però quel matrimonio era stato celebrato rispettando tutte le leggi della Chiesa, con documenti stilati con cura dai più competenti giuristi del tempo. Era quindi valido a tutti gli effetti e pressoché impossibile da sciogliere.
Ma la passione acceca l’animo degli uomini e in questo i re non sono da meno dei comuni mortali…
Vero. Però se la passione aveva la sua parte, la ragione principale era un’altra: il re voleva a tutti i costi un erede maschio, mentre tutti i figli di Caterina erano morti appena dopo il parto e solo Maria (che sarebbe diventata poi regina) era sopravvissuta. Per questo Enrico VIII volle l’annullamento del matrimonio con Caterina per sposare Anna Bolena. Dopo di lei ebbe altre quattro mogli. Delle sei, da due divorziò, una morì nel 1537 dopo il parto dell’unico figlio maschio del re (il futuro Edoardo VI), una gli sopravvisse e due furono decapitate per ordine suo. Una di queste fu proprio Anna Bolena, che pur avendogli dato una figlia – la futura Elisabetta I -, fu accusata di adulterio, incesto e stregoneria, e decapitata il 19 maggio 1536.
Il papa fu irremovibile nel rifiuto dell’annullamento del primo matrimonio e la conseguenza fu che il Regno d’Inghilterra si staccò completamente dalla Chiesa Cattolica.
E pensare che papa Leone X l’11 ottobre 1521 aveva conferito a Enrico VIII, primo monarca europeo a riceverlo, il titolo di Defensor fidei (difensore della fede) come riconoscimento al libro che il re aveva scritto: «Difesa dei sette sacramenti», un’opera a sostegno soprattutto del sacramento del matrimonio e della supremazia del papa. Quell’opera fu vista come un importante attacco contro la nascente Riforma protestante, e specialmente contro le idee di Martin Lutero. A seguito della decisione di Enrico VIII di rompere i rapporti con la Chiesa cattolica e di fondare la Chiesa d’Inghilterra, papa Paolo III revocò il titolo e scomunicò il re.
Come reagisti quando nel 1532, ricattando il clero inglese, Enrico VIII si fece proclamare «unico protettore e capo supremo della Chiesa Anglicana»?
Come laico non ero tenuto a giurare su quel documento, ma, non condividendolo, il giorno dopo restituii al sovrano il sigillo – segno della mia carica di Cancelliere – e mi ritirai a vita privata, preparandomi ad affrontare una dura povertà in quanto perdevo ogni stipendio dalla Corte e ogni altro introito professionale, e non avevo risparmi, avendo dato tutto ai poveri e badato al sostentamento della mia numerosa famiglia.
Con che animo, quando Anna Bolena il 1° giugno del 1533 venne incoronata regina a Westminster, partecipasti alla celebrazione?
Io quel giorno mi astenni dal partecipare alla cerimonia, rimasi a casa con la mia famiglia adducendo motivi di salute. Così facendo mi attirai le ire della nuova regina, la quale, neanche troppo velatamente tramò perché io fossi sempre più emarginato.
Il re non ti diede scampo e ti invitò a prendere una posizione netta e ufficiale sulla questione.
C’erano tre punti che avrei dovuto accettare con un giuramento: che il matrimonio tra Caterina e il re Enrico VIII era nullo e quindi mai esistito; che Anna Bolena era la legittima regina di Inghilterra; e che il re aveva la supremazia sulla Chiesa d’Inghilterra non solo per le materie temporali ma anche quelle spirituali. Riconobbi che il Parlamento aveva il diritto di dichiarare Anna regina di Inghilterra, ma rifiutai categoricamente di accettare come valido l’annullamento del matrimonio con Caterina e soprattutto non feci il giuramento con il quale avrei dovuto riconoscere l’Atto di supremazia del re sul papa anche in materia di religione. Fui l’unico laico in tutta l’Inghilterra a rifiutare tale giuramento. Del clero rifiutarono soltanto il vescovo John Fischer e alcuni monaci certosini, che vennero anch’essi giustiziati.
Possiamo dire che i contrasti che hai avuto con il Re erano dei problemi di coscienza?
Mano a mano che procedeva il dialogo a distanza con il Re e con i suoi funzionari incaricati di convincermi a firmare, mi rendevo sempre più conto che era mio preciso dovere, come credente, rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.
Quando fosti interrogato nella Torre di Londra, ti torturarono?
Torture fisiche no, ma ero sempre alla presenza di diverse persone, giudici agguerriti che cercavano in ogni modo di cogliermi in fallo. Nel corso di quattro drammatici interrogatori, tenni testa con pacata fermezza alle minacce e blandizie dei giuristi asserviti al monarca. Ma alla fine fui condannato a morte: «per avere parlato del Re in modo malizioso… e diabolico».
È vero che non perdesti il tuo senso dell’umorismo neanche negli ultimi istanti della tua vita?
Mentre salivo gli scalini che mi portavano al patibolo inciampai e caddi, dissi al boia: «Per favore mi aiuti a salire, a scendere non ce ne sarà più bisogno».
La condanna a morte e l’esecuzione di Tommaso Moro fu recepita come un fatto clamoroso da tutte le Corti europee. La notizia attraversò come un lampo tutto il vecchio Continente e la devozione verso questo integerrimo servitore dello stato e della Chiesa ebbe subito inizio.
Leone XIII lo proclamò Beato nel 1886 e Pio XI lo fece Santo il 19 maggio 1935. Nel 1980 la Chiesa Anglicana d’Inghilterra ha aggiunto Tommaso Moro e l’arcivescovo John Fisher alla lista dei «Martiri ed eroi della Riforma» e ne celebra la festa il 6 luglio. Il 31 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II lo ha nominato protettore di tutti i politici e amministratori pubblici. Con la sua vita, e con la sua morte, Tommaso Moro ci ricorda che c’è ancora qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di accettare il martirio. Aveva tratto dalla sua fede e dall’entusiasmo umanistico del suo tempo, il desiderio di essere un vero uomo, totalmente uomo. Ma un giorno comprese che ci sono situazioni in cui un cristiano, proprio per essere pienamente «uomo», deve consegnare a Cristo tutta la sua umanità; situazioni in cui c’è posto solo per questa alternativa: o la disumanità, o l’Umanità del Risorto. O osservare le leggi dello stato o seguire la propria coscienza. La sua scelta è un esempio ancora oggi per tutti coloro che vogliono vivere con coerenza la propria fede.
Don Mario Bandera, Missio Novara
Preghiera del buonumore
Dammi o Signore, una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo,
col buonumore necessario per mantenerla.
Dammi o Signore, un’anima santa,
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi del peccato,
ma trovi alla Tua presenza
la via per rimettere di nuovo
le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri e i lamenti,
e non permettere
che io mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama «io».
Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo,
concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia
e possa farne parte anche ad altri.
San Tommaso Moro
Mario Bandera