Etnomedicina oggi
L’importanza delle medicine tradizionali
Sono trascorsi più di trent’anni da quando, nel 1978, ad Alma Ata, oggi capitale della Repubblica del Kazakistan, l’Organizzazione Mondiale della Sanità emanò per la prima volta la raccomandazione ai governi dei paesi in via di sviluppo di riconoscere l’importanza dei sistemi medici indigeni tradizionali. La Conferenza espresse la necessità urgente di azioni da parte di tutti i governi, degli operatori della salute e della comunità internazionale per proteggere e promuovere modelli di cura antichissimi per il bene di tutti. Era un proposito ambizioso che indicava le medicine tradizionali come risorsa terapeutica, accettando al contempo il ruolo rilevante dei terapeuti tradizionali per il soddisfacimento dei bisogni di salute. Aveva così inizio la modea epopea dell’etnomedicina globale.
Cos’è l’etnomedicina?
Le «medicine tradizionali» sono un insieme di pratiche preventive, igieniche e terapeutiche, nonché una serie di teorie sulla salute e sulla malattia, specifiche di determinate culture, nell’ambito delle quali esse si sono sviluppate. Spesso, però, nell’utilizzo corrente, il termine medicina tradizionale è stato sostituito da altre espressioni, quali «medicina indigena», «medicina non ortodossa», «medicina popolare», generando di fatto incomprensione e confusione. Noi useremo il termine etnomedicina per indicare quel complesso di saperi di origine antichissima, preesistenti all’applicazione del metodo scientifico della medicina modea.
Eccetto la medicina cinese e ayurvedica indiana, codificate da un’ampia letteratura millenaria, la quasi totalità degli altri sistemi medici tradizionali (africani, americani e asiatico-pacifici) sono trasmessi direttamente da terapeuta in terapeuta senza una documentazione scritta. L’etnomedicina potrebbe, quindi, sembrare una medicina primitiva, in realtà è una conoscenza primordiale ben inserita nel contesto etnico, culturale, religioso e storico di tutte i popoli, diventando un’autentica visione del mondo che influenza e determina sia nella filosofia che nella prassi quei sistemi sanitari. È implicito allora che esistano tante medicine tradizionali quante culture e popoli sul pianeta.
Oggi l’etnomedicina rappresenta l’unica speranza di cura e di prevenzione per molte società del Sud del mondo. D’altro canto quasi 3,5 miliardi di individui non utilizzano la medicina occidentale, quella sintetica e da laboratorio, quella sperimentale delle ricche multinazionali del farmaco. E mai ne diverranno fruitori, in quanto indigenti.
Grazie anche al loro approccio olistico e allo stile di cura che pone l’uomo, nella sua complessità, al centro di ogni processo di guarigione, le medicine tradizionali stanno largamente prendendo piede nei paesi industrializzati del ricco occidente. Le statistiche foite dall’OMS ci dicono che la percentuale della popolazione che ha utilizzato le medicine tradizionali almeno una volta è pari al 48% in Australia, al 70% in Canada, al 42% negli Stati Uniti e al 75% in Francia. Anche in Italia, secondo una recente indagine ISTAT sulla salute, circa 9 milioni di italiani, il 15.6% della popolazione, avrebbero fatto ricorso almeno una volta a metodi di cura tradizionali nell’ultimo decennio. Un’indicazione importante su cui riflettere.
Etnomedicina,
per la salvaguardia del
patrimonio locale
Da sempre l’uomo per curarsi ha attinto dal suo habitat i rimedi e ha adottato differenti strategie terapeutiche in funzione della propria cultura e delle proprie strutture sociali, oltre che delle caratteristiche climatiche, geologiche, fito-geografiche e faunistiche. Proprio perché legati a credenze e opinioni specifiche delle culture tradizionali, questi sistemi sono più facilmente accettati dalle comunità tradizionali, che invece vedono con sospetto molte delle pratiche terapeutiche collegate al sistema di cura della medicina occidentale.
Tutto l’enorme bagaglio di sapere e conoscenza legato all’etnomedicina può essere trasmesso di generazione in generazione sia dalla tradizione orale che dall’insegnamento strutturato in scuole ed università.
È un sapere smisurato che, un po’ ovunque, continua a tradursi in un immenso ricettario di rimedi naturali e tecniche di cura.
Ricordiamo, per esempio, che le popolazioni del Nord-ovest amazzonico utilizzano oltre 2mila specie vegetali; negli stati eurasiatici dell’ex-Unione Sovietica circa 2.500 piante sono impiegate a scopi medici; in Cina oltre 5.100 specie vegetali e animali sono sfruttate dalla medicina tradizionale, che copre oltre il 40% delle cure sanitarie del paese. Questi dati diventano ancora più marcati in altri contesti più poveri, soprattutto in Africa e nelle aree rurali dell’Asia, dove la medicina occidentale non è molto diffusa e comunque troppo costosa e più dell’80% della popolazione utilizza solo la farmacopea tradizionale come unico mezzo di cura primario. In Laos, Myanmar, gran parte dell’Indonesia, Vietnam e Cambogia si arriva addirittura al 90%! Questi dati rivelano una pratica che sta diventando sempre più globale, dato che nel mondo il bisogno di piante medicinali, comunemente utilizzate dalle medicine tradizionali, è triplicato nel corso dell’ultimo decennio.
Esperti, medici e scienziati sul libro paga delle ricche multinazionali del farmaco trascorrono lunghi periodi tra le culture tradizionali per apprendere pratiche e segreti atavici lavorando al fianco di sciamani, medici delle foglie, stregoni e guaritori locali. L’aspetto negativo di questo fenomeno è che le multinazionali non solo si appropriano di un patrimonio tradizionale,ma lo monopolizzano grazie a brevetti che renderebbero addirittura illegale l’uso di tali risorse naturali alle popolazioni locali.
Anche per questo il Programma di Medicina Tradizionale dell’Oms si propone di disciplinare con maggiore chiarezza questa assurda pratica. Per l’agenzia delle Nazioni Unite si tratta di una decisa risposta ai rischi e abusi del rinnovato interesse verso le risorse naturali tradizionali, attraverso la messa a punto di dettagliati sistemi di classificazione, per lo più database e registri depositati negli archivi legali dei governi, che garantiscano l’identificazione e la classificazione del patrimonio locale. È anche un modo per dire basta a truffe e a nuovi colonialismi in campo sanitario e soprattutto per promuovere un eventuale utilizzo dell’etnomedicina e del patrimonio così codificato all’interno dei servizi sanitari nazionali.
Stile di cura,
salute e malattia
Economicità, efficacia e sicurezza sono sicuramente contributi importanti che l’etnomedicina offre alla promozione della salute a livello globale. Tuttavia vi è un ulteriore fattore che ha determinato la grande diffusione di questo tipo di medicina anche nei paesi industrializzati: lo stile di cura che è caratterizzato da una visione olistica che non perde mai di vista l’uomo nella sua complessità e nella correlazione con l’ambiente naturale e socio-culturale di cui è parte. Ricordiamo che il presupposto comune a tutte le medicine tradizionali è proprio la concezione della vita come una profonda armonia tra materiale e spirituale.
È un approccio – fondato sull’applicazione delle scienze naturali e lo studio dell’influenza dell’ambiente sugli organismi – che si contrappone fortemente a quello della biomedicina occidentale che normalmente lega la malattia a una disfunzione biochimica specifica e tratta separatamente i singoli organi come le sole cause responsabili della patologia dell’individuo. Al contrario, per le medicine tradizionali, l’uomo è la perfetta rappresentazione di un’armonia profonda tra corpo, mente e spirito e la fenomenologia dell’essere sano o malato è sempre vissuta all’insegna dell’esaltazione della vita stessa. In Africa, presso molte etnie, per indicare la salute di un individuo si usano espressioni quali «avere il corpo solido» e «avere tranquillità», o meglio ancora, come indice di un benessere totale, la locuzione «avere forza fisica e spirituale».
Sebbene le etnomedicine ricorrano a un sistema basato sulla causa ed effetto, per identificare l’origine e la ragione dell’evento patologico, l’interpretazione che viene data della malattia fa riferimento spesso alla dimensione spirituale per la quale la malattia è il risultato di una rottura dello stato di equilibrio interno all’individuo o tra esso e l’ambiente in cui vive, e di cui la patologia fisica è l’effetto finale.
Medicine da esportazione
La rinnovata fiducia verso questo tipo di «approccio totale» proposto dall’etnomedicina sta determinando il successo del metodo terapeutico sud-mondista a livello mondiale. Questa fiducia è alimentata dalla convergenza di diversi fattori: nessuna tossicità dei preparati, maggior valorizzazione delle potenzialità d’autoguarigione del singolo paziente, attitudine preventiva nei confronti della salute e costi minori.
I dati recenti foiti dall’Oms nel World Health Report 2010 parlano chiaro. Il 70% degli episodi di malattia che affliggono i cittadini occidentali sono trattati, in prima istanza, all’interno della sfera della medicina popolare. Circa un quarto delle prescrizioni mediche totali, contiene principi attivi estratti dall’etnomedicina dei paesi tropicali. Ma anche: sei farmaci su dieci prodotti nei laboratori occidentali vengono ricavati, direttamente o indirettamente, dai principi naturali dei sistemi di cura del Sud. E tutto si traduce in un indotto da capogiro destinato a crescere in modo esponenziale. Si stima che, ad esempio, la sola spesa statunitense per le medicine alternative sia di circa 2.700milioni di dollari l’anno, mentre in totale il mercato globale per le nuove terapie si aggirerebbe attorno ai 60 miliardi di dollari annui.
Risorsa o business?
Cifre e ricavi miliardari a parte, l’etnofarmacologia dovrebbe essere anche, e soprattutto, una mano tesa verso i paesi del Terzo Mondo, nella speranza di aiutarli a sviluppare le loro ricchezze, non solo una fonte di guadagno facile per i monopolii farmaceutici. Anche per questa ragione numerosi stati, dalla Thailandia all’India, dal Messico al Sudafrica e al Brasile, hanno deciso di adottare le loro semplici ricette e i rimedi tradizionali, invece di ricorrere all’importazione dall’estero di costosi ed elaborati composti chimici, soprattutto fra i farmaci primari. D’altro canto le risorse naturali da cui ricavare farmaci sono distribuite nel mondo in maniera proporzionalmente inversa a quelle finanziarie. Basti pensare, ad esempio, che in Perù si contano oltre 18mila specie di piante – contro le sole 1.800 dell’Inghilterra – ma nessuna industria nazionale farmaceutica degna di questo nome. Nella sola Londra, invece, vi sono almeno due delle più grandi aziende farmaceutiche mondiali in grado di mobilitare enormi investimenti per la ricerca, naturalmente una ricerca finalizzata a produrre nuovi profitti con farmaci dal costo elevato da cui sono esclusi i paesi poveri. Eppure gli ingredienti per confezionare questa ricchezza sono patrimonio e risorsa locale della medicina tradizionale.
E per le popolazioni del Sud la coltura delle piante medicinali può rappresentare un potenziale economico non certo trascurabile, tanto più che l’utilizzo sperimentale delle stesse è ormai illimitato. Ricordiamo che nella composizione dei farmaci, circa un quarto del totale delle prescrizioni commercializzate, contiene principi attivi estratti dalle piante. E in media oltre il 60% dei farmaci globali vengono estratti dalla fitocoltura locale. Ma non solo. Composti vegetali, microrganismi e animali servono ad esempio allo sviluppo attuale dei venti farmaci più venduti negli Stati Uniti.
Recentemente alcuni paesi occidentali hanno promosso programmi sanitari in linea con le proposte dell’Oms. Alla base dei loro interventi c’è anche la consapevolezza di dover sensibilizzare un po’ tutti ad un utilizzo equo e solidale delle risorse naturali per dire no allo sfruttamento dissennato di ogni diversità biologica la quale non può essere solo ricchezza esclusiva del business e dell’industria. Tale sfruttamento ha fatto sì che in molte regioni piante tradizionali da sempre oggetto di interessi economico-sperimentali – come il Ginseng coreano o la Cordyceps sinensis, il fungo della salute e della virilità – siano ormai in via di estinzione.
Per scongiurare questo pericolo di depauperamento – e di esclusione sanitaria -, importanti associazioni inteazionali come la Forest Stewardship Council, il più grande ente mondiale di certificazione di prodotti forestali, ha dato vita ad un complesso sistema di controllo della sostenibilità delle piante medicinali. Recentemente applicato anche nell’Amazzonia brasiliana, questo metodo comincia ad essere applicato anche da alcune aziende farmaceutiche piccole e attive, come la Renaco Perù S.R.L., e grandi, come il colosso britannico Welleda Ltd, che cercano di offrire al consumatore moderno anche la sicurezza che, acquistando i loro prodotti, non solo non si danneggia l’ambiente, ma si contribuisce anche allo sviluppo economico e sostenibile della popolazione locale. Biopirateria permettendo…
Massimo Ruggero