Cure, dignità e rispetto
Albert Schweitzer: 50
anni dalla morte.
Geniale organista e
teologo, fin da bambino vorrebbe alleviare le sofferenze altrui. A 30 anni
decide di diventare medico per i più poveri. Nel 1913 fonda l’ospedale-villaggio
di Lambaréné, in Gabon. L’obiettivo è portare cure mediche modee, ma nel
rispetto totale delle culture locali.
È pioniere nell’uso di alcuni farmaci a
quelle latitudini. Fermo nel principio del «rispetto per la vita», come
riflesso dello spirito del cristianesimo.
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«Poiché ritengo che il
compito della mia vita sia quello di lottare sotto cieli lontani a favore degli
ammalati, ritengo che dovremmo considerare il lavoro che occorre compiere per
le misere genti di colore non semplicemente come un buon lavoro ma come un
dovere che non deve essere evitato». È questa una delle più celebri e profonde
affermazioni di Albert Schweitzer, organista geniale, teologo protestante,
filosofo e medico filantropo (di cui quest’anno ricorre il 50° della morte,
avvenuta il 4 settembre 1965), ancora oggi considerato una delle figure etiche
e spirituali più significative del nostro tempo. Nato il 14 gennaio 1875 a
Kaysersberg, nell’Alta Alsazia (Francia), quest’uomo, interiormente tormentato
(ancora giovane era già famoso in tutta Europa per le sue straordinarie
interpretazioni di Bach), sentiva di non condividere totalmente la vita di quel
Cristo che venerava profondamente, e avvertiva insistentemente l’esigenza di
rispondere ai bisogni dell’umanità. Si chiedeva sovente, arrivato al suo
trentesimo anno di vita, quale fosse il vero significato delle parole di Gesù: «Colui
che intende salvare la sua vita la perderà, ma colui che vuole perdere la sua
vita per me e per il Vangelo, la salverà». Significativa è la sua opera,
pubblicata nel 1906, dal titolo «Storia della ricerca sulla vita di Gesù»,
nella quale si proponeva di fare il punto su tutta la letteratura scientifica
riguardante la figura di Cristo. Uno studio profondo, mirante a concludere: «Ciò
che è permanente ed eterno in Gesù è del tutto indipendente dalla conoscenza
storica e può essere compreso solo in forza del suo spirito tuttora operante
nel mondo».
«Anche da bambino – ricorda Luigi Grisoni (Como 1937 –
Roma 2001), scrittore e biografo schweitzeriano, in un passo della sua ricca
biografia dedicata al medico – a scuola mi era chiaro che nessuna spiegazione
del male nel mondo mi avrebbe mai soddisfatto. Sentivo che tutte le spiegazioni
finivano con stupide scuse alla base delle quali non c’era altra motivazione
che quella di rendere possibile alla gente di rendersi conto della infelicità
circostante senza avvertirla realmente».
Schweitzer intendeva, in ogni caso, impegnarsi in un
servizio direttamente umanitario: raccogliere i bambini abbandonati o
maltrattati e occuparsi di loro. Ma le regole di assistenza ai bambini
abbandonati non consentivano di occuparsene in maniera non ufficiale; e il
richiamo di coloro che soffrivano in paesi bisognosi di ogni intervento aveva
su di lui il sopravvento.
Per le sue profonde convinzioni, e di fronte a queste
realtà, decise di diventare medico per l’Africa, di sperimentare in prima
persona i dolori del mondo e tentare di alleviae le sofferenze. Fu così che
il 13 ottobre 1905 abbandonò i suoi impegni di direttore del Seminario di St.
Thomas di Strasburgo, di docente, di predicatore alla Chiesa di St. Nicolas di
Strasburgo per iscriversi alla facoltà di medicina.
In questo periodo trovò anche il tempo per occuparsi del
pensiero dell’apostolo Paolo. Si trattava di un bisogno interiore di Albert che
gli richiese di occuparsi del pensiero paolino nella ricerca e di dae una
spiegazione storica. «Se la dottrina mistica della Redenzione e le idee paoline
non possono trovare una spiegazione piena nell’influenza ellenica, allora –
approfondiva Schweitzer – occorrerà comprenderla nel quadro del giudaismo
dell’ultima epoca».
È trascorso oltre un secolo dalla fondazione del suo
primo ospedale di Lambaréné, uno sperduto villaggio sulle rive dell’Ogooué nel
Gabon, allora la più povera delle colonie della ricca Francia. Albert
Schweitzer vi giunse il 15 aprile 1913, con la moglie Hélène Bresslau che gli
fu sempre vicina in quella straordinaria avventura. Iniziò ad assistere e curare
persone affette da lebbra, malaria, tumori, eie, elefantiasi, malattie
mentali, e a combattere superstizione e fame nel clima equatoriale pesante per
l’umidità.
Sin dalle prime settimane il dottor Schweitzer ebbe
l’occasione di constatare che la miseria corporale della popolazione locale era
ancora più grave di quanto non avesse immaginato. «Ai malati indigeni –
scriveva – occorre dire tutta la verità. Essi vogliono saperla per meglio
sopportarla. La morte per loro è una cosa naturale, non la temono e la guardano
tranquillamente in faccia. Domandavo ai miei malati di manifestare, nel limite
del possibile, con degli atti di riconoscenza i loro sentimenti per le cure
avute… Al momento di lasciare l’ospedale, guariti, mi chiedevano il permesso di
diventare loro amico». «Le grand docteur», come veniva chiamato, sosteneva inoltre che tre
questioni sono importanti: il progresso nel sapere e nella tecnica; il
progresso nella socializzazione dell’uomo; il progresso nella spiritualità.
Quest’ultimo è il più importante. Profonde convinzioni dettate dalla sua
saggezza. Schweitzer sostiene il principio «l’uomo appartiene all’uomo», ovvero
l’essere umano è tenuto a rispettare in ogni senso la vita e la dignità dei
suoi simili. Egli riassume il suo concetto morale nella formula «Rispetto per
la vita».
Grandezza di azioni umane che, come scrisse Pasteur: «Si
misura dall’ispirazione che le ha fatte nascere. Felice colui che porta in sé
un Dio, un ideale di bellezza e gli obbedisce: ideale dell’arte, ideale della
scienza, ideale della patria, ideale della virtù del Vangelo! Sono queste le
vere fonti vive delle grandi idee e delle grandi azioni…».
Un villaggio – ospedale a
dimensione umana
L’ospedale «Albert Schweitzer» di Lambaréné sorge sulla
riva sinistra del fiume Ogooué, a circa 200 chilometri dall’Oceano Atlantico.
La regione è coperta da una foresta equatoriale quasi
impenetrabile, il clima è dei peggiori a causa dell’elevato tasso di umidità.
Il villaggio-ospedale all’inizio aveva grandi baracche di legno, col tetto in
lamiera per reggere alle continue piogge equatoriali.
Le famiglie prendevano alloggio gratuito e vivevano
secondo le proprie usanze, in attesa che il parente infermo guarisse.
Innumerevoli i tabù, i riti, le abitudini degli abitanti che non vivevano, e
non vivono, in grandi comunità come le nostre, nelle quali i costumi si sono
uniformati, bensì in piccoli gruppi tribali, ognuno dei quali strettamente
vincolato a particolari consuetudini e usi.
Sarebbe stato impensabile pretendere di cambiare mentalità
e atteggiamenti primordiali: per il «locale» è più importante rispettare il
proprio tabù che cercare una guarigione corporale, in quanto ha più valore il
legame con il suo ambiente spirituale che la speranza o la fiducia di scampare
alla morte. E Schweitzer lo aveva ben capito, come si evince soprattutto nel
suo libro «Histornires de la
forêt vierge» dalla profonda analisi
psicologica delle popolazioni africane.
Schweitzer pensava di poter rendere il suo ospedale più
moderno solamente procedendo per gradi. «Noi – spiegava ai suoi interlocutori
che gli facevano visita – non siamo qui soltanto per curare eie o filariosi:
abbiamo anche il dovere di aiutare questa gente a imparare a camminare da sola.
Ed è insensato pretendere che l’uomo della foresta apprenda ciò che della
nostra civiltà tecnologica e spirituale possa essergli utile tutto d’un colpo,
partendo da zero. Bisogna condurlo per gradi.
Il mio ospedale per lui vuole essere, non soltanto il
surrogato più efficiente dello stregone, ma una scuola di vita. Così io gli
insegno di amare il prossimo anche se è di una etnia diversa. Gli insegno a
lavorare, gli faccio vedere che quando il fiume si abbassa nella stagione secca
si può disboscare la riva e piantare qualcosa di diverso dalla manioca. Gli
dimostro che unendo le forze si ottiene un risultato più rapido e più utile per
tutti: deve sentire che le risorse stanno in lui, dentro di lui, che può
operare in questo suo ambiente, purché lo voglia.
Il mio villaggio-ospedale dovrà progredire, da un punto
di vista tecnico, insieme con il progresso generale di tutti i villaggi che gli
stanno intorno per centinaia di miglia: dovrà sempre essere un poco più avanti,
per fare da guida, ma senza perdere il contatto».
Durante la sua permanenza in Gabon Schweitzer si dedicò
prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con
l’arrivo del dottor Marc Lautemburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della
scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo triestino,
che per oltre trent’anni si è dedicato ad attività organizzative nell’ambito
dell’assistenza sanitaria in Africa ed Estremo Oriente – non fu un genio e non
ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità
riportate varie volte dai media. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e
ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità
geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente
da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso
affermava, da una buona dose di fortuna». Gli interventi principali
riguardavano eie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei
vasi linfatici da parte di microfilarie, nda), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite
causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati.
Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti
ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe
potuti guarire. Nel 1939 gli interventi furono 700. Contro patologie come
filariosi, malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedenica, affezioni
intestinali, dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avitaminosi, etc., venivano
usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico
dall’industria farmaceutica d’oltre oceano.
Gli ammalati arrivavano da villaggi che distavano
centinaia di chilometri dall’ospedale, sia lungo il fiume in canoa, sia percorrendo le piste che attraversavano
la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400 o 500 chilometri – osservava
Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati,
denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e
rimetterli in sesto». In mancanza di denaro ai pazienti veniva chiesto un
contributo in natura e lavoro.
Si può immaginare quali fossero le difficoltà di
organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi
del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat e un clima ostili, senza
collaboratori tecnici competenti.
Anche se Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico,
sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune
patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse
nell’Africa equatoriale il Promine e il Diasone, due
prodotti per il trattamento della lebbra. Fu il primo pure a sostituire
l’Atoxyl e l’arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi) con
il Germanyl, il Moranyl e il Tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta
della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento
della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da
Schweitzer a Lambaréné e presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era
incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente. Purtroppo sull’impiego
del Tryparsamide gravava il dubbio che provocasse lesioni del nervo ottico con
conseguente cecità permanente. Durante un rientro in Europa, Schweitzer
frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue
conoscenze stomatologiche (ramo della medicina che studia le affezioni del cavo
orale e dei suoi annessi, ndr). Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere
concerti, si fermò ad Amburgo per aggioarsi sui progressi della terapia del
sonno, e frequentare un corso di chirurgia che gli consentisse di affrontare e
risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche.
Non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma
è bene rammentare che l’obiettività è frutto delle cose nella situazione stessa
e nel loro momento storico. Ed è ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo
tanto discusso villaggio sanitario ove accolse gli ammalati e le loro famiglie,
assieme agli animali, e acconsentì a lasciare che i vari gruppi etnici
vivessero secondo i loro costumi, adattandosi egli stesso alla cultura dei
popoli locali e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era,
sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani.
Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro
interminabili discussioni… Risultati di un’improvvisazione che ha avuto come
scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. «Tutto questo –
affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta
più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà».
«Le grand docteur» visse in povertà nel suo ospedale, ove il superfluo
era bandito, e fu per questo che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza
politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di
avversione che indusse molti a giudicare la struttura superata o, peggio
ancora, vergognosa.
Forse tardi, ma ancora in tempo, Schweitzer comprese che
l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica «escatologica»
alla quale il mistero della fede portava, ben al di là delle questioni
filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria
vita. Egli trasse l’amara constatazione di vivere in un periodo di decadenza
spirituale, dove la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento, ma
risvegliava in lui la forza di combattere per far recuperare dignità all’essere
umano. Nel 1952 gli fu riconosciuto il premio Nobel per la Pace (33.480
dollari) che utilizzò per ampliare e completare «le village lumière»
(villaggio della luce), per la cura fisica e spirituale dei suoi lebbrosi.
MC ha già pubblicato scritti dello stesso autore su
Schweitzer a maggio 2004 e gennaio 2008.
Eesto Bodini