«Cosa vogliono di più ?»

La questione uigura.


Assieme al Tibet, lo
Xinjiang rimane una spina nel fianco di Pechino. Come conferma anche il
misterioso attentato avvenuto in piazza Tiananmen nell’ottobre 2013. Il governo
sta investendo molto in terra uigura. Vuole conquistae gli abitanti
rendendoli partecipi del «sogno cinese» (oggi incentrato su qualità, tecnologia
e istruzione). Ma forse questo sogno presenta un vizio di fondo: è calato dall’alto.
Prendere o lasciare.

Ping’an Jiating, casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. Chissà se anche
quella di Usmen Hasan aveva affisso sulla propria porta l’adesivo rosso che i
comitati di quartiere di Urumqi donano ai nuclei familiari che «si comportano
bene».

Pechino, 28 ottobre 2013

Quando il 28 ottobre una Jeep bianca è andata a schiantarsi sotto
il ritratto di Mao Zedong in piazza Tiananmen, il mondo ha improvvisamente
scoperto lo Xinjiang: l’irrequieto «Far West» della Cina.

Due giorni dopo la folle corsa di quattrocento metri, che si era
lasciata dietro cinque morti (tra cui i presunti attentatori) e quaranta
feriti, le autorità di Pechino hanno messo il sigillo ufficiale sulla «pista
uigura», comunicando i nomi dei tre a bordo dell’auto: proprio lui, Usmen
Hasan, con sua moglie Gulkiz Gini e l’anziana madre Kuwanhan Reyim, tutti
inceneriti nel rogo della Jeep che – secondo la polizia della capitale –
avevano riempito di taniche di benzina, coltelli, spranghe di ferro e una bandiera
«con slogan religiosi».

La famiglia apparteneva all’etnia turcofona e musulmana dello
Xinjiang, gli Uiguri. Discendenti da tribù nomadi provenienti dalle terre che
oggi formano la Mongolia, sospinti a Sud-ovest dalla pressione di altri popoli
delle steppe, loro stessi prodotto del melting
pot asiatico, sono divenuti sedentari nel corso dei secoli
insediandosi nel bacino del Tarim, l’enorme area all’estremo occidente del
Celeste Impero che è oggi regione autonoma. Loro la chiamano «Turkestan
orientale», per la Cina è, appunto, lo Xinjiang. Estranei alla cultura han –
cioè dei cinesi maggioritari, per come li conosciamo noi – rivelano da tempo un
malessere che viene spesso spiegato ricorrendo alle categorie dell’integralismo
religioso o del conflitto etnico. Hanno nomi uiguri anche le cinque persone
(tre uomini e due donne) «collegate con l’attacco terroristico» e arrestate
nelle ore successive allo schianto della Jeep.

Funzionari cinesi hanno in seguito esplicitamente accusato l’Etim,
il «Movimento islamico del Turkestan orientale» (un’organizzazione di cui non
si conosce la reale consistenza), di essere l’ispiratore dell’attentato.

Ma già prima che il problema arrivasse nel cuore simbolico della
Cina, diversi «incidenti» (leggi «scontri tra le forze di sicurezza e Uiguri più
o meno militanti»), avevano lasciato decine di morti e feriti sul suolo dello
stesso Xinjiang. E proprio nel 2013.

La memoria torna quindi alla rivolta di Urumqi del 5 luglio 2009:
197 morti e 1.721 feriti secondo fonti ufficiali. Va detto che finora si è
sempre trattato di scontri a bassa componente militare; truculenti proprio
perché più simili a uno scannatornio realizzato con coltelli, mannaie e spranghe,
che ad attacchi con ampio sostegno di armi da fuoco o esplosivi. Tuttavia, secondo
il governo cinese, gli «incidenti» hanno senz’altro matrice separatista, sono
preorganizzati e collegati alla Jihad globale. Pechino non fornisce molte prove a sostegno di tali
affermazioni, ma c’è consenso tra gli osservatori indipendenti nel ritenere che
alcune frange estreme dell’indipendentismo uiguro cornoperino con altri gruppi
combattenti dell’Asia centrale, trovando spesso riparo nelle aree tribali del
Pakistan nord-occidentale.

Quello di piazza Tian’anmen è stato comunque un gesto eclatante, a
metà tra l’autornimmolazione dei tibetani e l’autobomba dei fondamentalisti
islamici. A Pechino, un’amica han – l’etnia maggioritaria in Cina – dice: «Ho
paura a passare per piazza Tian’anmen». Mentre su Weibo, il più importante social
network
cinese, circolano messaggi di questo tenore: «È la prima volta che
capito così vicino a un attacco terroristico». Oppure: «Possono davvero fare
questo in Tian’anmen? Mi sento improvvisamente angosciato, come si fa a
prevenire questi attacchi in futuro? Ispezioni dei veicoli?». È proprio l’effetto panico voluto da eventuali «terroristi».

Lati oscuri

Restano però parecchi punti oscuri nella versione ufficiale che
diversi media occidentali hanno da subito messo in dubbio, a differenza, va
detto per inciso, di quanto fecero in occasione dell’attacco alle torri gemelle
di New York: spesso per noi è «terrorismo» solo ciò che avviene a Ovest degli
Urali. Comunque sia, si tende a sostenere che, qualsiasi cosa sia accaduta in
piazza Tian’anmen, le sue ragioni vadano ricercate nella dura repressione che
Pechino compie da anni sugli Uiguri. E poi – si dice – possibile che una
famigliola si faccia indisturbata le migliaia di chilometri che separano lo
Xinjiang da piazza Tian’anmen a bordo di una Jeep con targa della propria terra
d’origine? C’è puzza di depistaggio o di strategia della tensione «secondo
caratteristiche cinesi» (a che pro? Non si sa).

Altri osservatori hanno invece ritenuto plausibile l’atto
terroristico «fai da te» compiuto da una famiglia votata al martirio, citando «Inspire»,
il magazine online del jihadismo globale, che nel suo secondo numero mette a disposizione
una semplice guida per trasformare un pick-up in un’arma micidiale (pag. 54): «La location ideale è un luogo dove ci sono il
maggior numero di pedoni e il minor numero di veicoli. In realtà, potreste
scegliere i camminamenti pedonali che esistono in alcuni centri città, il che
sarebbe favoloso». Uno stile vezzoso per la descrizione perfetta di quanto
accaduto in piazza Tian’anmen. Almeno apparentemente.

Fatto sta che il mondo ha scoperto lo Xinjiang attraverso il suo
volto peggiore e la domanda che ricorre è: Al-Qaeda è arrivata in Cina? È in
corso un salto di qualità nelle tensioni che percorrono l’estremo occidente
cinese? La sclerotizzazione del discorso porta inevitabilmente al circolo
vizioso terrorismo-repressione, in una regione che vive già sulla propria pelle
una progressiva, soffocante militarizzazione; in paradossale contrasto con la
totale libertà di movimento e le sempre maggiori aperture di cui beneficiano le
grandi città della Cina orientale. L’attentato ha fatto proprio questo: portare
un po’ di Xinjiang a Pechino. Con il clima che laggiù si respira.

E allora bisogna forse provare a raccontare la complessa realtà di
quella terra, dove siamo stati pochi giorni prima che il denso fumo nero di una
Jeep in fiamme oscurasse il volto di Mao Zedong.

L’idea: tanti progetti, poca politica

Sull’autostrada tra Urumqi e Turpan, il «grande sogno
cinese», slogan lanciato del presidente Xi Jinping, sembra dispiegato in tutta
la sua potenza. In un incredibile paesaggio lunare, le gigantesche turbine eoliche
si susseguono in file parallele per
chilometri e chilometri, come un futuristico esercito di terracotta in marcia
verso l’avvenire. Rappresentano la componente ambientale del «sogno»: costruire
una economia sostenibile. Lo Xinjiang deve diventare, nelle intenzioni di
Pechino, un hub energetico, commerciale, tecnologico, la porta
spalancata sulla modea Via della Seta.

A
Turpan, è in costruzione una «Ecocity» nuova di zecca proprio di fianco alla
preesistente città di 250mila abitanti, già antica oasi che costeggiava il
deserto del Taklamakan.

È un
perfetto esempio di ciò che la leadership
cinese intende per chengzhenhua, la
nuova urbanizzazione «sostenibile» che segnerà il futuro del Dragone. Ma è
anche la metafora che utilizzeremo per descrivere la questione uigura. Che è un
problema di uguaglianza nella diversità, come ci ha spiegato Wang Hui,
intellettuale della «nuova sinistra» cinese: «Da un lato è perfettamente
legittimo voler migliorare la situazione economica, ma attualmente c’è una
crisi ecologica che va di pari passo con una crisi culturale, perché lo stile
di vita di quella gente sta cambiando, e così abbiamo i conflitti in Xinjiang e
Tibet». Si tratta dunque di «rispettare la singolarità, la diversità, le
differenze senza rifiutare l’idea di base di uguaglianza», continua il
professore dell’Università dello Xinjiang. Toiamo alla ecocity di
Turpan. I pannelli solari sovrastano centinaia di villette a schiera già
costruite, mentre le strutture dei futuri palazzi governativi sono già ben visibili.
Questa città sostenibile occuperà una superficie di 8,8 chilometri quadrati,
darà alloggio a circa 60mila persone e sarà completata entro il 2020. C’è da
crederci.

«Verrà
alimentata da pompe geotermiche e pannelli solari – ci dice un ingegnere uiguro
coinvolto nel progetto – è previsto il trasporto pubblico esclusivamente
elettrico, mentre gli autoveicoli privati saranno deviati in grandi parcheggi».
Eppure il «sogno» non è per tutti.

C’è,
per esempio, la piccola storia di un giovane ingegnere civile e project
manager, che ci è stata raccontata da fonti che preferiscono mantenere
l’anonimato. Di etnia uigura, appena laureato, qualche anno fa fece domanda per
un buon lavoro in una compagnia di stato a Urumqi, casa sua. Ma fu respinto,
perché, gli disse il responsabile delle risorse umane, non avevano in programma
di assumere uiguri. Il giovane se ne andò quindi a Pechino, dove trovò lavoro
in una delle più grandi società di ingegneria della Cina. Ironia della sorte,
fu successivamente inviato a Urumqi per un grande progetto e, una volta lì,
incontrò lo stesso funzionario che l’aveva respinto diversi anni prima. Durante
una cena formale con il gruppo di Pechino, tra cui il giovane ingegnere, il
funzionario locale chiese: «Perché i giovani di talento dello Xinjiang non
contribuiscono mai allo sviluppo della propria terra?».

È una
storia comune in questa enorme fetta di Cina che è già Asia Centrale oppure si
tratta di casi isolati, semplicemente di ragazzi sfortunati? Raccontando queste
storie a conoscenti han, ci si sente rispondere: «L’esempio di un ufficiale
incapace non fa testo, e tieni presente che la maggior parte dei funzionari,
nello Xinjiang, è non-han. Anzi, il fatto che ci siano Uiguri istruiti e che
trovino lavoro dimostra proprio che le politiche di Pechino sono giuste. Il
governo tutela giustamente le minoranze, proprio perché altrimenti le
schiacceremmo numericamente. Così, per esempio, gli Uiguri possono, a
differenza nostra, avere più figli, sottraendosi al “controllo delle nascite”
(politica in via di riformulazione dal novembre 2013, ndr).
Inoltre hanno la libertà di festeggiare le proprie ricorrenze religiose. Cosa
vogliono di più?».

Saranno
dunque i nuovi grandi progetti energetici, tecnologici, le «grandi opere»
secondo caratteristiche cinesi (che qui sono grandi davvero) e l’apertura
all’Asia Centrale a guidare il popolo dello Xinjiang verso un futuro di
opportunità, verso il sogno cinese? Non è facile rispondere.

Hesmat
(nome fittizio), un altro architetto uiguro che se ne è andato dalla sua terra
ma che un giorno vorrebbe tornarci, la vede così: «C’è il rischio enorme che
questo sia un mianzi gongcheng – un
progetto «della faccia» (di facciata, diremmo noi) – mentre una crescita
sostenibile dello Xinjiang significa recuperare e ristrutturare le vecchie città,
dare opportunità alla popolazione locale. Questo deve venire prima o in
parallelo alla costruzione di nuove grandi opere. Ma non se ne vede l’ombra».

Per
molti Han, invece, gli Uiguri non fanno che lamentarsi e il problema, se mai, è
di educazione. «Le difficoltà sono date dalla disparità tra la modea Urumqi e
la parte sud dello Xinjiang che resta arretrata – ci dice un businessman che
opera tra la Cina e il Canada – ma mano a mano sarà risolta grazie allo
sviluppo, ai gasdotti e agli oleodotti, che porteranno soldi anche lì.
Tuttavia, per ora il processo è ancora lento. Per esempio, i testi scolastici
in uiguro arrivano solo fino alle scuole elementari. Così i separatisti si
fanno strada con i loro sermoni».

Quello
della lingua è un bel problema. Da una parte, dato che tutta l’economia della
madrepatria ruota attorno agli affari in lingua cinese, le autorità sostengono
che le minoranze devono prima e soprattutto imparare il mandarino, se vogliono
trovare il proprio posto nel mercato del lavoro. D’altra parte, molti Uiguri
trovano umiliante vedere la propria lingua relegata al ruolo di dialetto
locale, con il rischio che scompaia nel giro di qualche generazione.

Ed ecco un’altra storia che ci ha raccontato Hesmat. «Cinque anni
fa, una giovane donna uigura mia amica ha concluso un dottorato di ricerca in
fisica teorica presso una prestigiosa università giapponese. Tuttavia, le è
stato in seguito negato un lavoro all’Università dello Xinjiang perché avrebbe
dovuto passare l’Hsk (Hanyu Shuiping Kaoshi, l’esame di competenza linguistica certificata in mandarino),
anche se in realtà lei è ufficialmente cittadina cinese e parla perfettamente
la lingua. Delusa e mortificata, se ne è andata a Guangzhou, dove ha iniziato a
vendere vestiti a buon mercato. Ora è milionaria, ma non restituisce nulla del
proprio talento alla sua terra».

Il modello è questo

Il problema è così sintetizzabile: la Cina funziona da sempre per
progetti che piovono dall’alto, sulla base di un modello di sviluppo che appare
vincente. Oggi, stiamo assistendo alla transizione dal vecchio modello Deng –
basato sulle manifatture votate all’export – a quello che l’attuale leadership vuole imporre: più qualità, più tecnologia, più istruzione. Il
sorgere di decine di nuove città «tecnologiche» in tutta la Cina corrisponde a
questo grande sforzo. Lì, dovranno inurbarsi i contadini che sono rimasti
ancora indietro sulla scala del progresso, per evitare che migrino
disordinatamente come è successo finora, intasando le megalopoli già sature. Ma
è comunque un modello dall’alto in basso: può adattarsi alla diversità dei
luoghi e delle genti, in una Cina sempre più complessa e percorsa da culture
così distanti tra loro?

Secondo il businessman han «è sempre meglio provarci che lasciare tutto così com’è. Il
governo cerca di educare questa gente – aggiunge – ma i vecchi non ne vogliono
sapere; anche i funzionari uiguri ci provano, ma non è facile, quelli non
vogliono stare al passo con il mondo».

E poi c’è l’inevitabile stoccata a chi eserciti qualsivoglia
critica: «Voi occidentali non prendete mai in considerazione le enormi
difficoltà che si incontrano nel gestire l’immensa popolazione della Cina,
soprattutto dopo l’abietta occupazione coloniale, i massacri giapponesi, la
guerra civile, la guerra di Corea e la follia delle guardie rosse». E così via,
nella riproposizione circolare della storia patria.

Eppure non è solo un problema di vecchi che non ne vogliono
sapere. Ma di scelte fatte oggi, che possono però ipotecare il futuro.

Prendiamo la scarsità d’acqua. In questa terra desertica, l’uomo
ha risolto il problema da tempo immemore con quello stupefacente miracolo di
antica tecnologia che risponde al nome di karez: canali sotterranei che portano l’acqua dai lontani monti
Tianshan sfruttando la pendenza naturale (la depressione di Turpan è il terzo
luogo più basso della terra). Ma questo delicato ecosistema saprà sopportare
l’impatto di una nuova città da 60mila abitanti?

Secondo l’ingegnere uiguro, la città di nuova costruzione «è
progettata per funzionare in modo relativamente indipendente dalla città
esistente e le principali fonti di approvvigionamento idrico saranno diverse».
Tuttavia, «l’acqua potrebbe essere occasionalmente presa dalla riserva della
Valle dell’uva», cioè il bacino idrico che rifornisce la grande area ricoperta
di vigneti, che rende Turfan una delle capitali cinesi della frutta.

La nuova ecocity risolverà i problemi o ne creerà di nuovi? Che futuro avrà la
Valle dell’uva, elemento imprescindibile non solo per l’economia, ma anche per
la civiltà di questa zona? Una voce si rincorre incontrollata: «Il governo
prevede di trasformare la Valle in un enorme scenic spot per turisti – ci dice un uiguro la
cui famiglia ha una fattoria proprio lì – gli attuali residenti saranno
incoraggiati a lasciare le proprie case per andare nella nuova città». Leggende metropolitane? Forse, ma oltre a far
crescere la diffidenza nei confronti di Pechino, la voce crea già effetti molto
materiali: «Un giorno, vorrei tornare in questa fattoria e continuare il lavoro
di mio padre e di mio nonno – ci dice Tömür (nome fittizio), che fa l’operatore
sociale a Urumqi – ma proprio il mio vecchio non vuole lasciarmela in eredità.
Vuole vendere tutto».

Intoo a noi, i filari delle vigne circondati da alberi di
datteri, l’uva passa esposta a essiccare e il recinto con le tipiche pecore
dello Xinjiang, dotate di quella buffa riserva di grasso sotto la coda che
rende gli spiedini così gustosi.

Non possiamo verificare a oggi se questa grande opera sarà anche
ingegneria sociale oltre che civile, ma c’è da chiedersi se un eventuale
svuotamento della Valle dell’uva per trasferire la popolazione locale nella
nuova ecocity, darà luogo a un melting pot felice o sarà invece una nuova fonte di conflitto.

A ogni modo, è percepibile il rischio che l’ecosistema Xinjiang
possa essere ulteriormente sconvolto da enormi progetti imposti dall’alto per
fare di questa terra un trampolino di lancio per l’Asia centrale.

Sia inteso: lo Xinjiang ha bisogno di progresso. Degli 1,5 milioni
di bambini di strada che percorrono le città cinesi, rubando, prostituendosi,
vivendo alla giornata, si calcola che almeno 100mila siano originari della
grande regione autonoma: sono quasi tutti Uiguri e vengono da famiglie povere.
La loro condizione è resa peggiore dall’essere vittime designate di due
culture: quella musulmana, per cui rubare è peccato; quella han, che li
disprezza rinnovando il mito dell’uiguro-delinquente. Così, quando vengono
raccolti e rispediti a casa nell’ambito dei programmi di recupero del governo,
finiscono spesso per tornare sulla strada in quanto rifiutati dalle loro stesse
famiglie. Emarginati per sempre. C’è bisogno dunque di più ricchezza condivisa
e di sviluppo. Ma qual è, in definitiva, il prezzo del progresso? In un
contesto del genere, l’Islam radicale diventa una strategia di sopravvivenza
molto efficiente e flessibile. Altro che un virus d’importazione. Perché offre
sia una coice morale a chi lotta quotidianamente per una vita migliore e
nutre speranze di successo, sia una zona di comfort a chi è lasciato indietro.

L’architetto Hesmat, che un giorno vorrebbe tornare qui e aprire
un proprio studio, riconosce che «il fondamentalismo si sta allargando».
Qualche tempo fa era un giovane secolarizzato, non immune da qualche serata
alcolica durante i propri anni da studente. Oggi rispetta i dettami del Corano
senza strafare, studia e lavora: «Per sentirmi pulito», spiega. Lui riesce
ancora a mantenere il proprio equilibrio, tenendosi aggrappato al «sogno cinese».

Gabriele Battaglia

Il presidente Xi Jinping


La nuova via della seta 

A settembre, il presidente cinese Xi Jinping ha
completato un tour di dieci giorni in Asia centrale, con tappe in Turkmenistan,
Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit
della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek.

In Turkmenistan, Xi ha inaugurato
un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari
in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha
fatto promesse simili. In tutti i paesi visitati, il presidente cinese ha
cercato di dare solidità ai rapporti bilaterali: investimenti e sostegno
finanziario che arrivano dal grande portafoglio del Dragone, in cambio di una
sempre maggiore cooperazione sul piano diplomatico, della sicurezza regionale e
delle politiche energetiche.

A novembre 2013 la Cina ha concluso
il terzo Plenum del Partito comunista, decidendo di spingere sull’acceleratore
delle riforme economiche e sociali. Bisogna trasferire ricchezza alle famiglie,
creare il nuovo ceto medio e continuare quindi sulla strada dello «sviluppo
pacifico». Per farlo, sono necessari sia buoni rapporti con i paesi confinanti,
sia una rete efficiente e sicura di rifoimenti energetici.

Così, i flussi transfrontalieri si
intensificano in tutta l’area: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar,
dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo viario in costruzione più a Nord,
nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata
inaugurata la linea diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan,
ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello dell’Asia
Centrale, che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.

Per dare un’idea dell’importanza
strategica di questa nuova «Via della Seta» multiforme, basti pensare che un
eventuale prolungamento dal porto pakistano di Gwadar allo Xinjiang del
gasdotto Iran-Pakistan – un progetto sempre più probabile – consentirebbe alla
Cina di utilizzare lo scalo sul Mare Arabico per trasportare via terra il
petrolio che arriva dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto
alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da
pattugliare l’Oceano Indiano).

Ecco quindi l’importanza di quella
che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito «cintura economica della
Via della Seta» che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo
di strade che una sola. Proprio come oggi. E che, proprio come oggi, convergeva
inevitabilmente sullo Xinjiang.

Gabriele
Battaglia


Pechino e la religione


L’Islam degli Uiguri

La popolazione uigura dello
Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulle
montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione han
ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui
resta traccia nelle numerose grotte affrescate.

La
Costituzione cinese garantisce la libertà di religione e, benché laica, non è
necessariamente in contraddizione con i precetti che garantiscono una condotta
islamica (maqasid al-Shariah). Un buon musulmano deve obbedire al
sovrano, anche se questi non professa la stessa fede, e gli sono preclusi atti
di ribellione: tutti precetti che si sposano perfettamente con le politiche e i
codici legali di Pechino. Esplicita è la condanna dell’hiraba, che molti
studiosi associano al terrorismo.

Più
contrastato è il tema del controllo familiare. Nell’applicazione della «legge
del figlio unico» (modificata il 15 novembre 2013, ndr), la Cina si è
dimostrata piuttosto rispettosa dei diritti delle minoranze e le coppie uigure
possono avere due figli se residenti in città e tre se vivono invece nelle aree
rurali. In teoria non è ancora abbastanza per la tradizione delle grandi
famiglie patriarcali locali, ma è un ottimo compromesso. È invece un problema
irrisolto quello dei matrimoni con i cinesi han, legali per lo stato, ma
che per gli Uiguri significano quasi sicuramente interruzione della linea
familiare e religiosa: la cultura della Cina «maggioritaria» è più globalizzata
e accattivante per i giovani figli di coppie miste.

Controverso è
anche il tema dell’educazione all’Islam, visto che la Costituzione cinese
prevede che a nessun cittadino della Repubblica popolare possa essere imposto
un credo religioso prima che diventi maggiorenne, mentre non esistono invece
limitazioni d’età per promuovere l’ateismo.

Suscitano
tensioni le misure di controllo via via più rigide sulle pratiche religiose,
dovute soprattutto al timore di infiltrazione fondamentalista. Tra queste, il
divieto di finanziare direttamente istituzioni religiose, come le moschee.

L’articolo 36
della Costituzione prevede che nessun individuo possa svolgere pratiche «che
nuociono alla salute dei cittadini», scontrandosi così, spesso, con il digiuno
durante il ramadan. Una clausola dello stesso articolo vieta inoltre le
pratiche «che disturbano l’ordine pubblico», lasciando molta discrezionalità ai
funzionari chiamati ad applicarla: può anche significare il divieto di
indossare il velo islamico in pubblico.

Come
dappertutto in Cina, gli Imam sono dipendenti pubblici tenuti a formarsi presso
istituzioni religiose di stato. Per lo Xinjiang, si tratta dell’Istituto per lo
Studio dei testi islamici di Urumqi, dove è obbligatorio seguire anche corsi di
«marxismo e religione» e sul «pensiero di Deng Xiaoping», cosa che spinge
diversi religiosi a formarsi e a operare clandestinamente, svolgendo spesso
anche il ruolo di qadis, giudice islamico: cosa assolutamente
vietata dalle leggi cinesi.

Gabriele
Battaglia

Gabriele Battaglia

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