Cooperazione senz’anima
Un libro,
un’esperienza di vita, una proposta concreta.
Un ex volontario. Uno
che ci crede. Ritorna in Africa dopo 15 anni e trova un sistema cambiato: sono venute meno le motivazioni di un tempo. Propone una
riflessione ad ampio spettro. Per un cambiamento: andare verso il futuro, ripartendo
dai valori di una volta.
Alberto Zorloni, classe 1961, è nato e cresciuto in montagna, e là
di quello che un tempo si chiamava «Terzo Mondo» non si parlava proprio, non si
conosceva nulla. A Milano, nel corso di un processo di ricerca su come
concretizzare i suoi ideali, entra in contatto con alcune Ong e gli si apre un
mondo. «Per me l’incontro con le Ong è stata una cosa fantastica. In esse si
realizzava una sintesi ideale tra i valori cristiani nei quali credevo (e
ancora credo) e gli ideali di giustizia propugnati, ma, negli anni ’70 del mio
liceo, poco praticati dalla tradizione di sinistra».
«Le
Ong, come le ho conosciute negli anni ’80, non solo erano l’unione teorica tra
questi due discorsi, ma lo erano anche in pratica. Davano la possibilità a
tanti giovani, come me, di partire per paesi lontani e impegnarsi in
realizzazioni concrete».
E così
Alberto, diventato medico veterinario, decide di far seguire a questa «sintesi»
un impegno pratico, e parte volontario per un progetto nel Sud Kivu, in Congo
RD. È l’epoca dello Zaire di Mobutu: «Lavoravo in una zona poverissima –
ricorda – una situazione quasi di emergenza. Secondo me, non c’erano le
condizioni minime per un progetto di sviluppo».
«Ero partito con molto entusiasmo e molta carica e, pur
nelle mille difficoltà logistiche che ho trovato sul posto, è stato un periodo
molto bello». Alberto è grato a quella Ong per la preparazione ricevuta prima
della partenza: «Mi aveva offerto un corso di formazione ottimo. Quello che ho
imparato è stato poi fondamentale in tutte le esperienze africane. Tagliare i
fondi per una formazione seria ai volontari in partenza (come succede oggi, ndr) è un suicidio».
Poi
il rientro. Ma Alberto intende il volontariato internazionale come «un ponte a
doppio senso». Il suo impegno diventa parlare in prima persona dell’esperienza
vissuta, nell’ambito di quella che viene chiamata «educazione allo sviluppo»: «Quando
si tornava, bisognava contribuire a dare un’informazione corretta. E su questo
io ho investito molto negli anni ‘90. Ho fatto almeno una cinquantina di ore in
scuole di ogni ordine e grado della mia zona e mi ero trovato bene».
Ma non basta. Sempre in linea con i suoi valori di base,
Alberto si occupa di commercio equo e poi di finanza etica. Fonda insieme ad
alcuni amici un’associazione di volontariato. Oltre al volontario, fa il
veterinario, e completa la sua formazione professionale seguendo un corso di
medicina veterinaria tropicale al Anversa, allo scopo di migliorare le sue
competenze che mette a disposizione in brevi esperienze nei paesi del Sud.
«È stato un periodo di “successo”, anche se, come avviene
spesso in Africa, si fanno dei progetti che però non si traducono in vero empowerment»
(termine usato per definire un aumento della consapevolezza delle proprie
capacità e della possibilità di farle valere, ndr). Alberto lamenta però
che queste belle esperienze restano spesso circoscritte.
Alberto
rimane quindi nell’ambiente del volontariato internazionale, pur non
effettuando più missioni lunghe. Però l’idea di ripartire cova dentro. «A un
certo punto mi sono deciso: volevo ripartire per l’Africa. Dopo alcune
selezioni non andate a buon fine, finalmente una Ong mi propone un posto in
Etiopia, dove hanno urgentemente bisogno di un veterinario». Così Alberto
riparte, a 15 anni dalla prima esperienza. «Sono partito con un contratto di 13
mesi, ma mi sono trovato del tutto spaesato. I valori, la carica ideale erano
venuti meno, e al loro posto c’era tutta una serie di comportamenti, quasi un
teatrino, un castello di carta vuoto, fatto di rapporti scritti, relazioni,
budget, fund raising (raccolta
fondi, ndr). Si giocava a fare i manager». Alberto non accetta il nuovo
approccio della cooperazione, e inoltre vive anche una serie di disavventure
con l’Ong che lo ha assunto e il suo personale italiano in Etiopia.
«I
valori che provavo a propugnare, che erano state le Ong stesse a infondermi,
provocavano ilarità. Come se mi fossi vestito alla maniera dell’800 e,
vedendomi andare in giro, la gente si domandasse: “Ma da dove esce questo?”».
Con i colleghi etiopi, al contrario, Alberto instaura un
ottimo rapporto, e sperimenta un modo di lavorare molto arricchente. «Non sono
stato io a mettere in piedi un approccio partecipativo con i locali, ma sono
stati loro. Io sono semplicemente stato disponibile, e mi è piaciuto molto,
perché è stato qualcosa che hanno preso in mano loro. Mi hanno dato coraggio.
Io mi sono sentito strumento, ma mai oggetto. Strumento in un ruolo che
valorizzava la mia soggettività: l’apertura, la disponibilità alla cultura, ai
mezzi locali, anche se non ortodossi secondo noi occidentali, anche se non
facilmente inquadrabili nei nostri schemi. Io ero aperto al loro modo di fare,
e loro hanno “preso il potere”. Per me è stato molto bello, mi sono sentito
responsabilizzato e al tempo stesso valorizzato e questo mi ha restituito la
motivazione, che ormai pensavo di aver perso».
Alberto,
che è sul punto di abbandonare a causa dei comportamenti dei colleghi italiani,
decide di restare proprio grazie al rapporto instaurato con l’équipe locale. Con
alcuni di loro rimarrà in contatto anche dopo il rientro in Italia, e aiuterà
un giovane collaboratore molto promettente a studiare in Europa.
«Una persona molto in gamba. Lui è riuscito a valorizzare
me per quella che era la mia apertura ai sistemi locali, e io ho valorizzato
lui per quelle che erano le sue capacità».
I
problemi invece ci sono con gli italiani. «Era vero e proprio mobbing –
sostiene Alberto -. Perché il rappresentante dell’Ong nel paese faceva da padre
e padrone. Questo anche perché dall’Italia le attività in Etiopia erano seguite
da una persona che non parlava l’inglese, che quindi non poteva neppure leggere
progetti e rapporti».
Il
rappresentante si era fatto largo a gomitate, aveva lavorato in condizioni
eroiche, si era fatto una famiglia. In Italia l’Ong non sapeva niente, per cui
l’Etiopia, per quella Ong, era identificata con quella persona che aveva le sue
regole monolitiche. Tra esse c’era quella per cui il volontario che arrivava
per primo doveva diventare il capo progetto.
«Il
mio collega diretto, arrivato sei mesi prima di me, era un giovane neolaureato.
Il progetto da realizzare era in ambito veterinario. Per questi motivi il
responabile ero io, ma a loro due questo non andava giù. Pur senza mettersi
d’accordo, tendevano sempre a fare rilevare la mia inefficienza. Ovvio, ero
arrivato lì e non mi avevano detto quasi niente. Non sapevo neanche i nomi dei
villaggi. è stata un po’ dura
all’inizio. Ma lo staff locale ha fatto tutta un’altra scelta. Alla fine è
stata una bella esperienza per me».
Alla
scadenza del contratto c’è ancora la possibilità – e la necessità – di
continuare, e l’Ong propone un rinnovo ad Alberto, salvo poi fare dietrofront,
sotto le pressioni dei due colleghi italiani. Un epilogo un po’ triste.
Probabilmente Alberto si è trovato in una situazione particolarmente
sfortunata, perché normalmente le relazioni tra volontari espatriati, nei paesi
più diversi e complessi, sono molto buone e costruttive.
Alberto rientra in Italia e riprende il suo lavoro di
veterinario alla Asl di Domodossola. E intanto matura l’idea di scrivere un
libro. Ma poi va oltre, con un’idea per il futuro del volontariato
internazionale.
«Quando
ero in Africa scrivevo delle lunghe lettere a un indirizzario di diverse decine
di persone, con le quali avevo condiviso l’impegno negli ambiti di commercio
equo e finanza etica. Illustravo la situazione. Loro mi hanno sempre suggerito
di pubblicarle».
Alberto
inizia una collaborazione con l’Università di Pretoria (Sudafrica) che sfocerà
poi in un master di ricerca per approfondire i metodi tradizionali di cura dei
pastori nomadi dell’Etiopia, proprio sulla scia del lavoro effettuato in quel
paese. «È stato un periodo molto impegnativo. Nel 2009 ho ripreso in mano 18
lettere, e ho cercato di trasformarle in un libro. Inizialmente il testo aveva
una forte impronta storica, perché l’Etiopia ha una storia entusiasmante e io
ne sono un appassionato. Lo sottoposi allo storico Angelo del Boca, il quale mi
disse: “La parte storica è molto valida, ma
la tolga tutta”. Perché? chiesi. “Molte cose interessanti sono state scritte
sulla storia dell’Etiopia, diversi studiosi seri ci si sono cimentati. Al
contrario non ho mai letto una presentazione del volontariato internazionale
che fosse così scevra da tentativi di commuovere o raccogliere fondi, o di
mostrare interessi di parte, o di come siamo bravi. è piuttosto una critica dall’interno che propone un
cambiamento positivo. E dal punto di vista intellettuale è indipendente ed
emotivamente sofferta, in prima persona. Non come altre critiche fatte
guardando solo i conti e i bilanci”.». Così, dopo quasi sei anni di lavoro e un
paio di decine di versioni, è nato nel 2015 il libro «Ripartire da ieri, la
nuova sfida del volontariato internazionale» (ed. Emi, 2015), che oltre a
contenere parte della storia personale e professionale di Alberto Zorloni, in
particolare riguardante l’esperienza etiope, propone un nuovo concetto di
volontariato internazionale, che ha radici nel passato.
«La
mia proposta è rilanciare il volontariato internazionale “partendo da ieri”, da
quelle motivazioni e da quella spinta valoriale che abbiamo lasciato cadere. E
non vale solo per questo ambito. Infatti, tornato in Italia, parlandone con
diverse persone, ho capito che è lo stesso in politica, nel sindacato, nella
scuola, nell’assistenza sociale. Non capiamo più dove stiamo andando, non ci
riconosciamo più in quello che stiamo facendo. È un libro in cui c’è una
riflessione arricchita anche dal confronto con altri. Questo è un primo punto:
il bagaglio di valori non è una zavorra che riduce l’efficienza, ma è qualcosa
grazie al quale si riesce a essere più efficienti.
Le
Ong devono cercare di esprimere motivazioni e ridare valore agli ideali,
cercare di staccarsi il più possibile da un arido elenco di dati. Riaprire il
discorso alle valutazioni del proprio lavoro, discutere su quello che si fa,
sul senso che ha. In Etiopia, quando cercavo di far ripartire queste
discussioni, mi dicevano “ma cosa me ne frega, è previsto nel budget, lo
facciamo e chiuso”.
Secondo punto: va finalmente messo in pratica il concetto
per cui il volontariato deve essere uno scambio. Io sono stato valorizzato
dagli africani, mi hanno aiutato. Vivo le cose in modo molto intenso, per cui
sono anche soggetto ad ansia, ma loro hanno saputo costruirmi attorno un
contesto, nel quale io mi sentissi sicuro, tranquillo e potessi operare al
meglio. Ho visto che anche questo è uno strumento che ti fa lavorare bene, più
efficace di altre amenità tecnologiche, come l’impiego del satellite o altro.
Una serie di strumenti avanzati possono essere utili all’Africa, per noi
invece, visto come stanno andando le cose nella società, sarebbe importante
avvalersi di questi strumenti relazionali, comunitari, che erano anche nostri
in passato. In Africa resistono ancora, anche se, di questo passo, pure gli
africani li stanno perdendo. Il tutto in un’ottica di scambio.
Io
come veterinario sul campo, ho avuto la fortuna di conoscere quell’Africa che
dicono non ci sia più. Conoscendo lo swahili, ho potuto relazionarmi con
persone la cui voce non si sente o non si è mai sentita.
In
generale i dirigenti di Ong africane o piccoli imprenditori della classe media
europeizzata, sono impostati sul nostro modello di società e vedono di buon
occhio l’arrivo di qualunque investimento. Ma con l’aumento delle già enormi
differenze tra ricchi e poveri, ho notato anche una maggiore presa di coscienza
da parte delle Ong locali. La società civile africana è cresciuta, questo è
positivo. Si sono resi conto che è in gioco la cultura, l’essere africani».
Ci
chiediamo se ha ancora senso la cooperazione internazionale. «Io sono per il sì.
Sono sicuro». Ma ormai è diventato un lavoro come un altro, senza le
motivazioni di ieri. Esistono pure dei corsi universitari per prepararsi. È
come se il volontariato si fosse professionalizzato.
«Ribalterei il discorso. Secondo me si è
deprofessionalizzato, perché le Ong hanno avuto una grande occasione per far
valere la propria maggiore professionalità, ad esempio il fatto di relazionarsi
in un certo modo con le persone, avere una visione che parte da determinati
valori. Quella dei valori non è una questione morale, è proprio uno strumento
che ti permette di lavorare meglio. Quindi una parte della professionalità,
anche quella di accontentarsi di stipendi bassi, che non incidano troppo sul
budget del progetto, è una caratteristica professionale perché avrai più fondi
da investire nelle attività aumentandone l’efficienza».
Alberto
non ha molti riscontri sul suo libro da parte del mondo Ong, nonostante la
tematica.
«Ho avuto tante risposte positive da parte di persone
comuni, anche gente che non si occupa dell’argomento o di Africa. Da parte
delle Ong ho avuto solo due feedback: uno diretto e l’altro tramite la presentazione del
libro sul sito istituzionale dell’organizzazione.
Al di
fuori di questo non ho ricevuto né critiche, né apprezzamenti, pur avendo
scritto a molti, comprese le federazioni di Ong».
Le
riflessioni contenute nel libro di Alberto sono estese a livello ampio
all’intera società.
«Sento
la necessità di un nuovo umanismo. Ma non intendo fare una nuova associazione.
È un
cammino da fare a livello individuale, fin dalle più piccole cose: mettere
determinati valori in cima alla scala delle proprie scelte quotidiane, ad
esempio nel consumo, le scelte di sobrietà, ecc. Sono convinto che, se si dà
importanza a queste cose, se non le si considera delle bazzecole, ma cose
importanti per la nostra vita, ci si ritroverà concordi su obiettivi comuni.
Occorre un cambiamento di priorità di valori». Un cambiamento sulla lunga
scadenza ma con risultati in tempi ragionevoli: «Altrimenti si perde fiducia.
Penso a un nuovo che però riparta dal vecchio, dai valori che già c’erano».
«Mi
piacerebbe che tutte le persone, anche in altri campi, che sentono questa
esigenza, riuscissero a fare una cosa comune. Come un sito web in cui
presentare le esperienze che già funzionano in questo “ripartire da ieri”. Per
dare un messaggio che le cose si possono realizzare. L’importanza del fare, del
concreto. Vorrei che uscissero allo scoperto quanti condividono questo pensiero
e insieme si riuscisse a concretizzarlo, realizzando progetti in Africa in un
certo modo. Per me non è un sogno, deve essere una realtà».
Marco
Bello
per volere dell’intervistato e coerenza con il libro, in
questo testo non si fanno nomi di persone o enti. Tuttavia i «non nomi», come
li chiama Zorloni, corrispondono a persone e fatti realmente accaduti.
Marco Bello