Nel numero di maggio
di MC abbiamo raccontato l’installazione di Monsignor José Luis Ponce de Leon,
missionario della Consolata, come vescovo di Manzini, Swaziland, in occasione
del centenario dell’arrivo nel paese dei primi missionari cattolici, i Servi di
Maria. In questo numero, vi proponiamo una panoramica sulle attività della diocesi
e le testimonianze dei protagonisti, raccolte da MCO nel corso della visita
dello scorso giugno.
La Croce del Sud nel cielo notturno, le persone avvolte nelle sciarpe e
nelle giacche a vento per difendersi dai primi freddi nelle mattine di giugno,
gli alberi di frangipani e di stelle di Natale sono tutti indizi che – non
bastassero le diciassette ore di viaggio e i cambi di aereo – aiutano a
percepire quanto lo Swaziland sia distante dall’Europa. Ma più lontani ancora
appaiono lo smog delle metropoli africane, le baraccopoli di lamiera e terra,
l’asfalto che si arrende impotente ai morsi di una natura onnivora e vorace.
Manzini, il principale centro urbano del paese, è una città gradevole
incoiciata dalle colline, dove tutti sembrano affaccendati in qualche cosa:
saldare le parti di un motore, spostare frutta e verdura dentro e fuori dalle
celle frigorifere di un magazzino, entrare e uscire da un supermercato, vendere
dolciumi e ricariche telefoniche agli angoli delle strade e ai banchetti sui
marciapiedi.
Se quella dello sviluppo è una via, il piccolo regno
dello Swaziland – con un’estensione pari a quella del Lazio e circa un milione
di abitanti – sembra trovarsi fra gli stati africani che vi camminano con un
buon passo, dal momento che viene collocato nella fascia bassa dei paesi a
reddito medio. Ma uno sguardo meno superficiale che si allarghi oltre Manzini o
la capitale, Mbabane, e tocchi le aree rurali del paese permette di scorgere
una realtà meno rosea. A cominciare dal tasso di prevalenza dell’Hiv: secondo i
dati più recenti, una persona su quattro è affetta dal virus.
Saint Philip, la battaglia
contro l’Aids delle suore di Madre
Cabrini
Lungo la strada che da Manzini va a Est e poi a Sud in
direzione del Sudafrica, la cupola azzurra con i costoloni rossi della chiesa
di st. Philip appare all’improvviso oltre il tappeto verde dei campi di canna
da zucchero adagiati nel lowveld (bassopiano) della regione Lubombo. La
deviazione del fiume, che permette di coltivare, è un intervento recente in
un’area dove le colline lasciano il posto a una distesa di savana piatta
colpita da ricorrenti ondate di siccità e dalla conseguente carenza di cibo. In
questa parte del paese lavorano le suore del Sacro Cuore di Gesù, fondate da
Santa Francesca Saverio Cabrini e più note come Cabrini Sisters. La
storia della loro presenza qui comincia negli anni Settanta, ma è solo a
partire dalla fine degli anni Novanta, proprio quando la congregazione è vicina
alla decisione di lasciare lo Swaziland per spostarsi in paesi più bisognosi,
che si intreccia con quella della
pandemia dell’Hiv/Aids.
«A un certo punto cominciarono a morire, tutti», spiega
suor Diane Dallemolle, americana di Chicago. «Io e Barbara [suor Barbara
Staley, consorella di Diane diventata lo scorso maggio superiora generale delle
suore di Madre Cabrini] ci rendemmo conto che non c’era un solo nucleo
familiare che non avesse un membro sdraiato su una stuoia dentro casa, privo di
forze e scheletrico, in attesa della fine. Non potevamo andarcene». La speranza
di vita degli swazi crollò nel 2004 a trentasette anni; il tasso di prevalenza
del virus era intorno al quaranta per cento.
«Cominciammo ad andare in giro per le case di tutta la
zona», continua Pius Mamba, che collabora con le Cabrini Sisters da
allora, «io facevo da interprete e le suore chiedevano alla gente di farsi
prelevare un campione di sangue per fare il test Hiv». Le provette con il
sangue venivano poi mantenute al freddo con il ghiaccio e portate ottanta
chilometri più in là, al Good Shepherd di Siteki, uno dei sette ospedali
gestiti nel paese dalla diocesi di Manzini e che serve un bacino d’utenza di
duecentocinquantamila persone nella regione Lubombo. La sua scuola per
infermieri, inoltre, forma ogni anno personale qualificato che presta poi servizio
nelle strutture sanitarie di tutto il paese.
«Facevamo anche più viaggi al giorno, finché non ci fu
donato un frigo. Da quel momento cominciammo a vivere con decine di fiale di
sangue in casa».
Il governo swazi e la comunità internazionale iniziarono
a reagire alla pandemia. In alcuni paesi la disponibilità di farmaci
antiretrovirali non era costante e il rischio per i pazienti era quello di
sviluppare resistenza a causa dell’irregolare aderenza alla terapia e di dover
passare ai farmaci cosiddetti di seconda linea, più cari e ancor meno reperibili.
«Questo in Swaziland non si è mai verificato», dice suor Diane, «fin
dall’inizio la disponibilità di antiretrovirali è stata garantita dal Fondo
Globale che ha fornito la terapia in modo costante».
Oggi, il tasso di prevalenza è al ventisei per cento,
ancora il più alto del mondo, e nonostante i farmaci anti-retrovirali siano
foiti dal sistema sanitario nazionale non sempre le persone decidono di
curarsi: la negazione, la stigmatizzazione, la diffidenza, le resistenze
culturali nelle aree più disagiate – dove i casi di stupro sono più numerosi e
la disponibilità fisica di una donna è data per scontata a partire dalla prima
adolescenza – non sono state completamente eliminate.
Il futuro del paese si gioca anche intorno a un’altra
sfida, quella degli orfani a causa dell’Hiv. «In Swaziland, sono solo ventidue
su cento i bambini che hanno entrambi i genitori», spiega suor Diane, «tutti
gli altri ne hanno perso almeno uno. E crescere bambini orfani di entrambi i
genitori non è un problema che si risolve solo costruendo orfanotrofi. Essere i
tutori di questi bambini non è semplice, non si tratta solamente di nutrirli e
di mandarli a scuola, ma anche di dare loro qualcosa di altrettanto importante:
la sensazione di appartenere a qualcuno, di essere legati a qualcuno».
Le suore di Madre Cabrini, accanto alle attività di
diagnosi e cura dell’Hiv attraverso la clinica presso la missione e le visite
alle comunità, gestiscono un programma di servizi sociali, un ostello per
orfani che lo scorso anno ha ospitato 107 bambini e numerose attività di
sensibilizzazione e formazione. Negli ultimi dieci anni, Cabrini Ministries
– questo il nome dell’organizzazione no-profit attraverso la quale le suore
agiscono in Swaziland – ha assistito seimila persone affette da Hiv/Aids e
circa millecinquecento orfani e bambini vulnerabili.
Rifugiati, sanità,
istruzione: le numerose attività della Chiesa in Swaziland
Sandlane Street è l’animata strada di Manzini che va
dalla cattedrale alla scuola salesiana. Percorrerla a piedi è forse il modo più
rapido per ottenere una sintesi visiva degli ambiti in cui la Chiesa cattolica è
attiva in Swaziland.
Proprio di fronte alla cattedrale si trova l’edificio
che ospita Caritas Swaziland, con i suoi numerosi uffici, le sale per
incontri e convegni, la libreria e l’ufficio del vescovo. Una delle attività
che ogni giorno impegnano i membri dello staff è l’assistenza ai rifugiati,
realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Acnur), che mobilita le risorse necessarie per il mantenimento
complessivo del programma, e il governo dello Swaziland, che garantisce la
sicurezza. Caritas si occupa invece degli aspetti nutrizionali, sanitari e
dell’assistenza legale durante le procedure per l’ottenimento dello status di
rifugiato.
Dopo la Caritas ci sono la Saint Theresa primary e
high school, per ragazze, mentre in fondo alla strada si trovano Salesian
primary school e high school, per ragazzi. Sono centinaia gli studenti che
alla mattina convergono nel fiume colorato di uniformi che affluisce alla
scuola. Proseguendo oltre la struttura dei salesiani, s’incontra la clinica Saint
Theresa, una delle sette strutture sanitarie della Diocesi.
La camminata su Sandlane street si conclude alla Hope
House, un centro di cura per pazienti terminali e disabili gestito da Caritas
Swaziland, che ha venticinque piccole unità abitative per i malati e i
familiari che li accompagnano.
La collaborazione fra la
diocesi di Manzini e Missioni Consolata Onlus
Proprio su un intervento alla Hope House si è
realizzata la prima collaborazione fra Mco e la diocesi di Manzini. La
Conferenza Episcopale Italiana ha finanziato la scorsa primavera il progetto More
Strength to Hope – Più forza alla speranza, che prevede attività di
adeguamento strutturale, l’avviamento di un servizio di fisioterapia,
l’aggioamento del personale sanitario e la formazione dei pazienti e degli
assistenti informali (spesso membri della famiglia) che accompagnano il malato
in clinica e lo seguono poi durante la convalescenza a casa.
«La Hope House è nata nel 2001 come centro per
malati, specialmente di Hiv/Aids, giunti allo stadio terminale», spiega suor
Elsa Joseph, delle Missionary Sisters of Mary Help of Christians,
responsabile della struttura, «e l’obiettivo era quello di accompagnare queste
persone alla morte garantendo loro cure palliative e dignità. Oggi, però,
grazie alla disponibilità di antiretrovirali e di altri farmaci, la percentuale
di malati che riesce a tornare a casa in buone condizioni è del novanta per
cento».
Oltre ai malati di Hiv, il centro ospita anche persone
colpite da tubercolosi, cancro, ictus e malattie dell’apparato
cardiocircolatorio, e il servizio di fisioterapia che verrà reso disponibile
con il progetto è pensato proprio per accelerare il ripristino delle
funzionalità fisiche nei pazienti la cui mobilità è stata temporaneamente
compromessa.
Un ulteriore occasione di collaborazione si è poi
realizzata nell’ambito dell’assistenza nutrizionale che la diocesi fornisce a
circa settecentocinquanta bambini di tre parrocchie grazie alla generosità di
una fondazione statunitense. Durante la visita a due delle tre comunità, la
rappresentante delle madri dei bambini beneficiari, nel ringraziare la Chiesa
cattolica per il progetto, ha auspicato che il supporto nutrizionale possa
continuare, e ha aggiunto che ci sono ancora diversi bambini della comunità
malnutriti o a rischio malnutrizione. «La seconda cosa che la signora ha detto»,
scrive nel suo blog monsignor Ponce de Leon, presente durante le visite insieme
all’amministratore diocesano padre Peter Ndwandwe e al direttore di Caritas
William Kelly, «è quella che mi ha toccato di più, perché dà la misura del
senso di “famiglia” di queste persone: pur avendo ricevuto ciò di cui hanno
bisogno, non dimenticano i membri della loro comunità che sono in condizioni di
necessità. Non solo. Di fronte a quanto la donna ha detto, non si può fare a
meno di chiedersi come sia possibile che ci siano così tanti bambini, e anche
adulti che non hanno cibo a sufficienza in questo paese così bello. Come
Chiesa, non possiamo limitarci a distribuire cibo a chi ha fame, dobbiamo anche
cercare di capire le cause della situazione e lavorare con gli altri per
assicurarci che tutti noi viviamo con la dignità di figli di Dio».
Tags: cooperazione, Swaziland, Hiv/Aids, rifugiati, sanità, educazione, Manzini
Chiara Giovetti