Cari Missionari

Chávez
«profeta e martire»?

Su
Missioni Consolata del giugno 2013 a pag. 20 un sacerdote di Caracas definisce
Hugo Chávez «Profeta e martire». Da tempo non mi meraviglio più di nulla, ma di
fronte a questa affermazione si resta senza fiato. Il nostro dittatore
italiano, non paragonabile ai suoi due colleghi degli anni ’30, era stato
definito più modestamente «L’uomo della Provvidenza». Da Libero del 13
marzo scorso (che ovviamente non è Vangelo) apprendo che l’ex deputato di
opposizione Wilmer Azuaje, attribuisce alla famiglia Chávez le proprietà di
45.000 ettari di terreno (30 anni fa possedevano solo tre ettari).

Il
quotidiano spagnolo Abc (anche quello non è Vangelo) stima in due
miliardi di dollari il valore totale della fortuna accumulata dal Caudillo,
di cui, oltre ai terreni citati, in conti all’estero almeno 200 milioni di
dollari; il conto in banca della madre del presidente sarebbe di 163 milioni.
La famiglia Chávez possiede inoltre 10 Suv Hummer, 17 ville e altro
ancora. Non è una novità, è sempre stato così; anche personaggi storici ben più
importanti di Hugo Chávez tipo Napoleone Bonaparte, hanno privilegiato il
proprio interesse privato. Durante il saccheggio francese del nostro paese,
Napoleone inondava il Tesoro di Parigi di enormi somme, merci e opere d’arte,
non prima di aver trattenuto un «buon pizzo» per sé e la sua numerosa famiglia.

Vi
allego un piccolo articolo di Panorama (del 5/6/2013, pag. 36), dove si informa
che nel Venezuela del dopo Chávez, manca la carta igienica e il vino per le
messe, grazie alla politica economica del defunto presidente. Noterete il
sarcasmo di un titolo: Habemus papel.

Concludo:
penso che, come tutti i caudillos della storia, il presidente Chávez si
sia arricchito alla grande, e che abbia gestito l’economia del suo paese peggio
dei nostri governi italiani; qui, almeno per ora, si trova ancora la carta
igienica…

Ricchini Gianpietro
12/06/2013, lettera da Brescia

Grazie di quanto ci
scrive. È vero che l’articolo da noi pubblicato è troppo elogiativo e poco
critico nei confronti di Hugo Chávez. Personalmente avrei desiderato un’analisi
che fosse attenta anche ai limiti e alle contraddizioni di quell’esperienza.
Certo, quella di Chávez è una figura che ha suscitato grandi passioni e
opinioni molto contrastanti.

Perché ho pubblicato
quell’articolo? Per rispetto al mio giornalista che ama quel paese e i suoi
sogni (che invece per altri sono incubi). Perché Chávez ha avuto anche
intuizioni giuste e il coraggio di tentare di emanciparsi da un vicino
invadente (che – ricordo – ha finanziato abbondantemente la diffusione in
America Latina delle sette evangeliche in funzione anticattolica per difendere
i suoi interessi economici). Perché ha tolto i proventi del petrolio dal
controllo dell’oligarchia e delle multinazionali per condividerli col suo
popolo (lo bollano come populista per questo). Certo non è stato immune da
corruzione e clientelismo, da arroganza e da atteggiamenti messianici e di auto-incensazione;
e forse ha anche premiato più l’adulazione che il merito: aspetti questi che
lasciano molte perplessità. Toeremo ancora sul Venezuela, una nazione che
amiamo e dove siamo presenti come missionari della Consolata. Il tempo ci darà
la possibilità di analisi più oggettive e ragionate.

Carità? Per
carità!

Sono
fra Silvestro, un francescano che ha vissuto 12 anni in Est Africa, Uganda e
Tanzania, e sono stato anche in Kenya e a Gibuti. Scrivo per ringraziare Chiara
Giovetti dell’articolo «Carità? Per carità» (MC, giugno 2013).

Preciso
subito che non ho ancora letto il libro L’industria della carità. Ho letto
invece La carità che uccide di Dambisa Moyo. L’ho letto appena uscito e mi
ha colpito per come l’ho sentito vicino al mio modo di vedere certi metodi di
aiutare la «nostra amata» Africa. Cito un esempio per tutti tra quelli che la
signora Moyo fa per spiegare come alcuni interventi portano l’Africa a essere
più povera. Racconta di certe persone di buona volontà che un giorno regalarono
centinaia e centinaia di zanzariere. Quando arrivarono fu festa e la gente era
contenta perché effettivamente i casi di malaria diminuivano, ma col passare
degli anni le reti si rompevano e lasciavano passare le zanzare malariche.
Quelle zanzariere erano finite, ma non c’era nessuno per ripararle o fae di
nuove perché i piccoli artigiani che le fabbricavano localmente avevano dovuto
chiudere per fallimento: nessuno aveva avuto più bisogno delle loro zanzariere.
E così è ritornata la malaria ancora più forte.

Una
mia ulteriore riflessione riguarda anche la bontà con cui tanti missionari e
(non) hanno costruito pozzi d’acqua. Banalizzando, ma purtroppo la faccenda è
serissima, mi vien da dire che in alcune zone sono più i pozzi che i villaggi,
ma guarda caso tanti di questi non funzionano più. Attoo al mio villaggio,
nel Sud dell’Uganda, ne contavo cinque o sei fuori uso. Perché non
funzionavano? Ma semplicemente perché anche i pozzi hanno bisogno di
manutenzione e chiamare i tecnici, anche locali, dalla capitale (esempio
concreto del mio villaggio distante 350km dalla capitale) veniva a costare
troppo rispetto alle possibilità del villaggio. Non importa se poi le persone
dello stesso villaggio trovassero sempre i soldi per bere birra, tradizionale e
non, nei bar locali.

Altra
piccola riflessione. Mi ha colpito, appena rientrato in Italia nel 2005,
sentire Tony Blair affermare che solo il 20% di quanto raccolto a favore del
Sud del mondo va davvero della povera gente a cui dovrebbe essere destinato.
Poi si sa bene che anche gran parte di quel 20 % va nelle mani di chi già sta
bene, magari politici o faccendieri locali. Certo che vedere viaggiare il
personale delle varie organizzazioni umanitarie con macchinoni che non
finiscono più e sapere che vivono in posti lussuosi che in Occidente non
potrebbero permettersi con tanto di servitù, e che il loro salario mensile è
superiore a… Beh, lasciamo perdere.

Grazie
ancora

Fra Silvestro Arosio o.f.m.
10/06/2013, via email

Il problema che Chiara
ha cercato di focalizzare nel suo articolo è molto vasto. E non nuovo: ricordo
che alla fine degli anni Settanta lessi un libro che criticava i progetti inutili delle organizzazioni umanitarie portando esempi concreti di sprechi e cattivo sviluppo.

Credo che come
missionari abbiamo visto progetti bellissimi che hanno cambiato la vita di
villaggi e regioni, altri che sono stati inutili come cattedrali nel deserto e
altri ancora che hanno dimostrato gran cuore e poca testa. Solo pochi giorni fa
sono stato perplesso di fronte alla pubblicità inserita in un importante
settimanale che invitava all’adozione a distanza. Già altre volte ho provato a
verificare in rete le attività di alcune di queste agenzie di adozione e la mia
impressione è stata quella di trovarmi di fronte a qualcosa di molto vago e
fumoso.

Mi permetto di
aggiungere due cose. La prima è l’invito ad essere critici con quelle agenzie
che fanno pubblicità molto costose o che addirittura vi telefonano e mandano i
loro agenti a raccogliere soldi di casa in casa (o cose simili). Un po’ di
pubblicità è certo necessaria: corretta, dignitosa e rispettosa; ma quando usa
lo stesso stile del telemercato e della vendita porta a porta, c’è qualcosa che
non quadra. Sono davvero interessati al bene dei bambini che dicono di aiutare
o alla loro sopravvivenza come organizzazione?

La seconda è una parola
– – neppure troppo seria, però, visti i limiti della mia esperienza – in favore
della servitù. È vero che ci sono degli operatori di Ong o agenzie
inteazionali che vivono in case di lusso (in rapporto allo standard di vita
locale) circondati da servitù: cuoco, colf, babysitter, giardiniere, portinaio,
guardia, autista o simili. Questo può scandalizzare, soprattutto se si ha
l’occasione di sentire le chiacchiere di chi se ne vanta durante gli incontri
tra espatriati. In realtà è uno degli aspetti positivi della presenza dei
cooperanti: creano lavoro in una realtà dove spesso la disoccupazione è piaga
endemica. Ho conosciuto volontari o membri di organizzazioni inteazionali che
di proposito avevano anche più personale del necessario proprio per dare lavoro
ai locali o non dover lasciare a casa persone già impiegate dai loro
predecesssori.

Donne albanesi

Ho letto l’articolo sulla realtà delle donne albanesi ed
essendo io albanese devo dire che non ce la faccio più. Cosa faccio? Sono in
Italia da diversi anni, qua ho le mie amiche, la scuola… poi too a casa e la
vita immaginaria che mi costruisco «nelle poche ore di libertà» crolla, la
speranza di avere un giorno una vita normale… Diverse volte ho sperato che
questo fosse solo un brutto incubo ma poi i fatti mi risvegliano da questo «sogno».
Io non avrò mai un finale a lieto fine anche se lo vorrei con tutto il cuore,
per me e le mie sorelle.

Klodiana
01/06/2013, via email

L’articolo apparso sul
numero di marzo 2013
, raccontava del sogno di ritornare a casa di donne e
famiglie albanesi provenienti dalla Macedonia: un «lieto fine» che è nei
desideri di tutti gli emigranti. Risparmiare abbastanza per rientrare nel
proprio paese a testa alta e ricominciare una vita nuova, liberando i propri
figli dalla necessità di una dura emigrazione è stato il sogno che ha dato la
forza a milioni di emigranti di sopportare difficoltà e sofferenze indicibili. È
anche il sogno della nostra lettrice. Le case vuote di tanti nostri villaggi
nel Sud d’Italia ci dicono che è un sogno difficile da realizzare, ma noi con
tutto il cuore facciamo il tifo per Klodiana e per tutti gli uomini e donne che
come lei sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese.

Sprechi alimentari

Nella
speranza di fare cosa gradita, vorrei condividere con voi questo mio scritto
che ho pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 giugno 2013.
Con molti complimenti per il loro lavoro.

Giorgio Nebbia.

Cultura
dello scarto

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso
l’occasione della quarantunesima «Giornata della Terra» per parlare di ambiente
e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo.
Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha
ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo
coltivassero e custodissero, come si legge nel secondo capitolo del libro della
Genesi, e ci ha invitati a chiederci che cosa significa coltivare e custodire:
trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per
trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo
VI aveva usato nell’enciclica «Populorum progressio» del 1967.

Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la
Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini «sono
sacrificati agli idoli del profitto e del consumo», alla «cultura dello scarto».
Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa
economica, o di un singolo paese, ma sono «doni gratuiti di cui avere cura»,
destinati ad alleviare soprattutto «la povertà, i bisogni, i drammi di tante
persone». Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone
manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto,
dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. «Il consumismo, ha detto il Papa,
ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo.
Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla
mensa di chi è povero».

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da
cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte
dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro
gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano
nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito
per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti.

Il
ciclo dello spreco

L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi
esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso
e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante
contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della
metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va
perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e
dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene
destinata alla zootecnia che «fabbrica» alimenti animali ricchi di proteine
pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere
un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della
respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei
paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla
nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che
comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso
processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno
con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire
come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della
distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci
invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano
anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un
quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai
ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo,
100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle
Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di
tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo
di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e
proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua,
quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi
di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri
cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce
disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi
all’anno. Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si
trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del
continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia
scientifica e culturale per comportamenti rispettosi «del prossimo», per
diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne è privo.
La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di
ricavae sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore
richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità
al servizio dell’uomo.

Nuova
visione

La
salvezza, insomma, va cercata in un «serio impegno di contrastare la cultura
dello spreco e dello scarto», di «andare incontro ai bisogni dei più poveri»,
di «promuovere una cultura della solidarietà». «Ecologia umana ed ecologia
ambientale camminano insieme». Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

Giorgio Nebbia
11/06/2013, via email

risponde il Direttore

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