Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella