3. Iran: La forza di un popolo giovane e colto

Intervista con
Davood Abbasi
A Teheran abbiamo incontrato il direttore dell’edizione
italiana di Radio Irib, l’emittente dello stato iraniano ascoltabile anche in
Italia. L’embargo (occidentale), la guerra in Siria, le relazioni
inteazionali, l’Islam, l’origine e il ruolo dei gruppi salafiti, i rapporti
con il mondo cristiano, ma anche i progressi scientifici e il nucleare. Ecco i
punti salienti di una conversazione a 360 gradi.

Teheran. Il compound della Radio e Tv di stato iraniana
occupa una vasta area della collina a nord della città. I controlli all’entrata
sono severi e anche l’abbigliamento deve essere adeguato. Qui non si ammettono
licenze in fatto di capigliatura, tollerate fuori, e i capelli devono essere
ben nascosti sotto un foulard o un chador. Gentili e accoglienti, le addette
alla sicurezza ci accolgono, ci perquisiscono e ci indirizzano verso la
redazione di «Radio Irib» (http://italian.irib.ir), in un dedalo di
stanze e sale di trasmissione, dove ci aspetta il giovane direttore
dell’edizione italiana, Davood Abbasi, giornalista ma anche ingegnere
aerospaziale.

Direttore Abbasi, l’Iran è sotto
embargo da molto tempo, ma negli ultimi anni le sanzioni si sono fatte più
pesanti. I cittadini come affrontano la situazione?

«La situazione dell’Iran sotto
embargo è ormai consolidata. Nel senso che quando contro un paese sono in
vigore sanzioni da oltre 30 anni, la questione non è certo una novità. Nel
corso degli anni l’embargo è stato però graduale e ciò ha dato al popolo
iraniano e naturalmente alle autorità la possibilità di sviluppare le proprie
difese e di mettere a punto le dovute contromisure. L’Iran sopravvive, ma
soprattutto progredisce perché l’embargo (box di pagina 37) non è “internazionale”
quanto piuttosto “occidentale”. Inoltre, molti paesi del fronte “occidentale”,
alla fine, non riescono ad attenervisi e continuano a fare affari con noi».

L’embargo colpisce però la vera
ricchezza dell’Iran: il petrolio.

«Prima dell’inizio del contenzioso
sul nucleare, gli Stati Uniti hanno cercato di penalizzare l’Iran a più riprese.
Nel 1996 approvarono la legge Ilsa
(Iran and Libya Sanctions Act). Ancora prima cercarono di interrompere
le relazioni Iran/Europa con la farsa del caso tedesco Mykonos, un attentato di
cui vennero incolpate le autorità iraniane senza uno straccio di prova. Accuse,
sanzioni, misure hanno indotto diverse volte le compagnie energetiche e
petrolifere occidentali come la Siemens, l’Eni, la Total, l’Ansaldo a lasciare
l’Iran per poi ritornarvi. In questi continui tira e molla l’Iran ha imparato a
fidarsi sempre di più di partner di altre parti del mondo, come delle compagnie
provenienti da Malesia, Indonesia, Cina, India, e delle proprie compagnie
private.

Gli Usa da anni vietano la vendita
all’Iran di pezzi di ricambio di aerei e l’Iran ha imparato a procurarseli dal
mercato nero pagando qualcosa in più, o utilizzando compagnie estere come
prestanome.

L’ultima fase riguarda gli otto
anni di governo dell’ (ex) presidente Ahmadinejad, che, mossa dopo mossa, è
riuscito a prevedere i passi dell’Occidente impedendo il collasso della
nazione.

Quando i paesi occidentali
sventolarono la probabilità di interrompere la vendita di benzina all’Iran, lui
cambiò velocemente i sistemi di diverse raffinerie che invece di altri prodotti
iniziarono a produrre il combustibile. Egli applicò, inoltre, il razionamento
della benzina e così non solo rese l’Iran autosufficiente nella produzione, ma
lo trasformò in un esportatore».

Il petrolio iraniano continua ad
essere una carta pesantissima nei rapporti inteazionali del suo paese…

«Certamente. Prendiamo la Turchia.
Ankara può anche pensarla diversamente rispetto all’Iran in questioni come la
Siria, ma sia l’Iran che la Turchia sanno benissimo di essere legati a doppio
filo per via dell’esportazione del gas iraniano, una vera e propria linfa
vitale per l’economia turca senza la quale Erdogan non può nemmeno immaginare
di sopravvivere. Lo stesso vale per Iraq, Repubbliche Centro-asiatiche e
Afghanistan. Con questi paesi ci sono scambi di energia elettrica, con alcuni
stati della regione, come il Kuwait, persino quelli di acqua potabile. Il
Pakistan, entro un anno, con il completamento del “gasdotto della pace”, sarà
collegato a Teheran ed è in fase di studio anche la costruzione di un oleodotto
che colleghi le due capitali. La Cina ha già annunciato il proprio per
l’ampliamento di entrambi i progetti verso il suo suolo, concedendo persino una
linea di credito al Pakistan.

Dall’altra parte c’è un’India che
dipende dal petrolio iraniano in maniera considerevole e che ha più volte dichiarato
di non volervi rinunciare. Nel lontanto est-asiatico ci sono la Corea del Sud e
il Giappone, due alleati Usa che però sono troppo collegati al mercato
iraniano. In particolare la Corea del Sud dipende dal greggio dell’Iran e
rivende una quantità incredibile di automobili ed elettrodomestici nel mercato
iraniano.

Sommando l’Africa, l’America Latina
e alcuni paesi dell’Europa con maggiore indipendenza, l’Iran ha ancora una
buona fetta di comunità internazionale con cui commerciare e trattare. È forse vero
che la popolazione, in questo periodo, ha sentito l’effetto dell’embargo
obamiano in maniera più consistente del passato. In effetti mai era stato
proibito l’acquisto del petrolio e mai era stata boicottata la banca centrale
iraniana, ma anche in questo caso la dirigenza ha trovato le soluzioni. Da
Turchia e India si fa dare l’oro, dalla Cina riceve merce, con ogni nazione ha
trovato la sua formula ideale. Le navi iraniane vanno a vendere il petrolio in
alto mare. Insomma, l’Iran è diventato ancora più forte ed è poco obiettivo
sostenere che sia stato messo in ginocchio dall’embargo. La conclusione è che
oggi la nazione va avanti nonostante le sanzioni. Se qualcuno lo vuole proprio
fuori dai giochi, dovrà pensare a qualcos’altro».

Come reagiscono i giovani iraniani
davanti alle sanzioni che colpiscono il loro paese?

«L’Iran ha un numero elevato di
laureati e specializzati, e il lavoro abbonda per questa generazione dato che
c’è tanto da fare e costruire. Per questo la quasi totalità dei giovani si
impegna e dà vita a quello che, senza esagerazioni, bisogna chiamare il “prodigio
tecnologico e scientifico” dell’Iran.

Nel 2012 le organizzazioni
inteazionali hanno proclamato l’Iran la nazione al mondo con il più veloce
progresso scientifico dato che il numero di pubblicazioni di studiosi iraniani,
nel giro di 10 anni, era aumentato di 11 volte. Oggi, nella regione, la nazione
supera pure la Turchia e ha ottenuto il primato. Nella classifica mondiale
generale è al 14esimo posto secondo alcune classifiche, al 17esimo secondo
altre. E questo non è l’identikit di una nazione isolata.

Una nazione che clona gli animali,
che manda nello spazio i suoi satelliti autonomamente, che padroneggia la
tecnologia nucleare, che vince l’Oscar con i suoi film, che eccelle pure nelle
discipline sportive, o non è isolata, o come minimo ha saputo reagire bene a
tutti i tentativi di isolarla».

Nel novembre 2012 Barack Obama è
stato rieletto presidente degli Stati Uniti. Vede, in prospettiva, un
cambiamento di linea politica nei vostri confronti?

«È inutile nascondere che Barack
Obama, con tutta una serie di azioni di basso profilo, sta cercando di
preparare al meglio una vera e propria guerra all’Iran. Al contrario della sua
parvenza pacifica, Obama ha imposto contro il nostro paese le sanzioni più dure
della storia, ossia il divieto di acquisto del petrolio, nostra principale
fonte di reddito, e poi il boicottaggio della Banca centrale iraniana. Per
essere chiari, sono misure che distano solo un passo dalla guerra vera e
propria. Questo l’Iran lo ha capito e non a caso nei mesi scorsi autorità
politiche e militari di Teheran hanno informato che sarebbero pronte a chiudere
lo Stretto di Hormuz nel caso di un’aggressione militare. Attraverso questo
stretto passa gioalmente qualcosa come il 40% del greggio mondiale ed è
naturale che basterebbe una chiusura anche temporanea per far schizzare a cifre
impensabili il suoprezzo. Naturalmente ne conseguirebbe un contraccolpo
economico spaventoso che l’Occidente – già oggi alle prese con una pesantissima
crisi – non sarebbe in grado di assorbire. 
Obama è il paziente stratega che nel corso di anni ha preparato l’azione
finale contro l’Iran1». 

Quali sono i legami tra la guerra
civile in Siria e le minacce all’Iran?

«Come ho spiegato prima non credo
che i venti di guerra contro l’Iran si siano placati ed anzi, in Siria, gli Usa
hanno scelto probabilmente di combattere una guerra per procura anche contro
l’Iran. Loro stanno agendo per conto di Israele, che in pratica considera
nemica la Siria solo per il fatto che Damasco rivendica la proprietà delle
alture del Golan, zone effettivamente siriane occupate da Israele con la “Guerra
dei Sei giorni” (1967).

Come ha fatto notare alle Nazioni
Unite il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, l’accanimento contro la
Siria è dovuto all’alleanza di Damasco con l’Iran. È notorio che nei primi mesi
del conflitto in Siria, ad Assad era giunta una proposta da parte
dell’Occidente: l’alleanza con il suo governo in cambio dell’interruzione delle
relazioni con l’Iran.

Il motivo è semplice. L’alleanza
non solo politica ma anche militare dell’Iran con la Siria, l’Iraq e il Libano,
rende di fatto impensabile per l’Occidente un’azione ai danni di Teheran. Perché
– con la collaborazione di questi alleati – l’Iran potrebbe colpire
tranquillamente e dolorosamente sia Israele che le basi Usa e Nato nel
Mediterraneo e nel Golfo Persico».

Dunque, secondo lei, la guerra in
Siria è soltanto un tassello di una partita contro l’Iran che vede in campo
numerosi attori. È così?

«Arabia Saudita e Qatar hanno
voluto creare una “primavera” fasulla in Siria per evitare che si sviluppasse
la primavera autentica che si stava creando e che c’è ancora nei loro
territori. L’est dell’Arabia Saudita, la regione di Qatif, ed il Bahrain sono
da oltre due anni teatro di moti popolari anti-monarchici e l’Arabia Saudita ha
cercato di soffocarli nel sangue. In più ha sguinzagliato estremisti religiosi,
criminali comuni, e terroristi provenienti da diverse nazioni arabe in Siria,
nella speranza che questa fasulla “primavera” potesse allontanare l’attenzione
mondiale e le forze che contano nella regione dai suoi territori. Poi c’è la
Turchia che si è lasciata ingannare dalle promesse di “potere” fattele dagli
Usa. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu è un teorico del pensiero
neo-ottomano2, che crede nella possibilità di
ridare vita all’Impero Ottomano di un tempo. Per questo si notano, nell’ultimo
periodo, le politiche aggressive di Ankara non solo nei confronti della Siria,
ma anche dell’Iraq. In più non bisogna ignorare gli sforzi della Turchia, negli
ultimi anni, di proporsi come un modello per tutte le nazioni del Nordafrica e
di improvvisarsi come un sostenitore sincero persino per la Palestina. In
questo senso anche il Qatar ha cercato di avvicinarsi ai palestinesi.

Purtroppo Davutoglu ha letto la
storia a metà e non si ricorda che uno dei motivi che portò l’Impero Ottomano
alla rovina furono le sue guerre contro l’Impero Persiano. Oggi, stiamo
assistendo ai famosi corsi e ricorsi storici teorizzati da Giambattista Vico.
Nella regione mediorientale ci sono due potenze emergenti, Iran e Turchia, ed
il bene di entrambe sarebbe cornoperare. Già una volta, in passato, questi due
centri di civiltà caddero in rovina, dato che attori stranieri riuscirono a
creare divergenze tra di loro. L’Iran comprende benissimo questa situazione e
lo ha dichiarato più volte. Ahmadinejad disse chiaramente che “certi paesi
saranno importanti per l’Occidente fino a quando ci sarà un governo
indipendente a Damasco. Se questo governo crollerà, altri paesi della regione
non varranno più nemmeno un fazzolettino di carta e toccherà a loro essere
attaccati”.

La Turchia non si accorge che dopo
Siria e Iraq, ammesso che in questi due paesi crollino gli attuali governi
indipendenti, l’obiettivo sarà proprio Ankara. In generale si può dire che
l’azione contro la Siria è l’inizio di tutta una serie di azioni successive.
Probabilmente contro l’Iraq, contro la Turchia stessa, e – perché no? – anche
contro l’Arabia Saudita.

Dopo aver disegnato una nuova
cartina della regione, gli americani cercheranno probabilmente di sferrare il
colpo finale anche contro Teheran. Per loro l’Iran è importante per due motivi
basilari. In primis, esso è il punto, probabilmente l’ultimo autentico, di
forza del mondo islamico: senza l’Iran sarebbe credibile la previsione di
Samuel Huntington3 che dava per condannata alla
scomparsa la civiltà islamica. In secondo luogo, è l’ultima tappa che precede
il grande duello, teorizzato da Huntington e altri, tra civiltà occidentale e
civiltà confuciana, cioè tra Usa e Cina».

Il neo-salafismo è un fenomeno in
crescita, costituendo una reale minaccia per molti Paesi.

«Credo che il neo-salafismo sia
frutto del pensiero di alcuni paesi arabi, Arabia Saudita in primis, che ha
cercato in qualche modo di salvarsi dalla morte. Spiego perché. Nel 1979,
quando in Iran vinse la rivoluzione islamica guidata dall’Imam Khomeini,
l’intero mondo islamico rimase a guardare stupito quella novità: quell’Islam
che voleva riportare in vita gli insegnamenti degli albori del profeta e che
non era corrotto, laico o occidentalizzato come quello di altre nazioni.

L’Islam iraniano ha veramente
rivoluzionato la scena politica della regione. È inutile negare che la regione
mediorientale del 1970 è molto differente rispetto a quella del 2000 e ciò
soprattutto per merito dell’Iran. Una nazione che nonostante l’aggressione
dell’Iraq di Saddam, nonostante le sanzioni e nonostante il “no” grande e grosso
detto sempre a Usa e Israele, ha costruito la sua fortuna contando sulla forza
della sua gente. Se tutte le nazioni della regione e persino in Europa
comprendessero che, per essere una nazione forte e indipendente, e non c’è
bisogno di essere sudditi di una qualsiasi potenza del momento, gli Usa
perderebbero il dominio su tante nazioni del mondo».

Ma a chi giova la diffusione del
fondamentalismo salafita?

«L’estremismo islamico è nato come
pensiero alternativo e alternativa politica al pensiero sciita iraniano. Per
questo gli Usa, con la cooperazione di Arabia Saudita e servizi d’intelligence
di altri paesi, hanno inventato i talebani, i salafiti, i gruppi di combattenti
estremisti.  Questi gruppi sostengono di
essere rivoluzionari, di combattere contro l’ingiustizia, contro le dittature,
certe volte anche contro gli stranieri, ma sono manovrati e gestiti proprio da
loro. Essi, tra l’altro, non possono nemmeno essere definiti islamici perché  l’Islam ha una radice che significa “pace” e
loro uccidendo persino musulmani di altre confessioni (sciiti, sufi, ecc.)
hanno dimostrato di non essere assolutamente degni di tale appellativo.

I gruppi estremisti salafiti,
impiegati in Libia, e poi esportati in Siria, e strumentalizzati pure in Mali,
hanno una duplice funzione: 1) sono strutture che possono arruolare giovani
ignoranti e poveri nei paesi arabi, impedendo loro di trovare vere vie di
liberazione dei propri paesi. In questo modo si garantisce la forza delle
monarchie filo-occidentali come quella saudita. 2) Questi gruppi hanno ai loro
vertici agenti della Cia, del Mossad e dell’MI6 o sono comunque molto vicini ai
servizi occidentali. Per questo possono essere usati e strumentalizzati per
giustificare azioni militari.

In pratica gli Usa formano queste entità
e le mantengono più o meno attive per impedire che nel mondo islamico si
formino autentiche forze rivoluzionarie. In più, possono usare questi “falsi
islamici” per azioni di terrorismo che poi servono per giustificare le campagne
militari di conquista». 

Qual è il ruolo di Arabia Saudita e
Qatar nell’attuale scenario mediorientale?

«Arabia Saudita e Qatar sono due
monarchie traballanti e sanno molto bene che mantenere un simile sistema di
governo nella regione del Golfo Persico tra popolazioni musulmane è tutt’altro
che semplice.

È noto che dopo il crollo
dell’Impero Ottomano, gli inglesi cercarono di costruire su modello della
Corona inglese degli imperi nella regione ed oggi in nazioni come Arabia
Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati, Oman, Giordania osserviamo più o meno la
stessa cosa.

L’Arabia Saudita, storicamente, ha
sempre cercato di impedire l’ingresso di onde modeizzatrici nel suo
territorio e nelle nazioni circostanti. A questo ruolo dei sauditi si è unito
quello svolto dal Qatar. Entrambi i paesi cercano di alimentare l’estremismo
salafita per salvaguardare la propria monarchia. Infatti, in una situazione di
normalità e assenza di conflitti nella regione, la situazione in Arabia Saudita
sarebbe difficilmente sostenibile. Già oggi le regioni orientali sono quasi
gioalmente teatro di proteste.

Le donne hanno una condizione
insostenibile; nonostante i grandi introiti petroliferi la povertà in Arabia
Saudita è a livelli allarmanti, molte città non hanno nemmeno la rete fognaria;
a Mecca e Medina, negli ultimi 25 anni, il 90% dei luoghi sacri islamici sono
stati distrutti. I prigionieri politici sono oltre 30 mila, la gente inizia ad
essere insoddisfatta anche delle politiche della monarchia che risulta sempre
più una pedina degli Usa nella regione.

Il salafismo è la risposta che
queste monarchie oscurantiste e retrograde danno. Facciamo attenzione perché
stanno tentando di diffondere in diverse regioni del mondo l’azione di questo
pensiero: Turchia, Qatar e Arabia Saudita stanno cercando di impiantare reti
salafite anche in Europa e in zone remote del globo, come in alcune aree della
Cina.

Obiettivamente però credo che pure
Arabia Saudita e Qatar avranno una loro data di scadenza e, dopo aver svolto il
proprio compito, verranno riciclati dagli stessi alleati occidentali. Si veda
il comportamento del Qatar: compra di quà e di là nel mondo, credendo così di
ipotecare per sé una sorta di stabilità, ma si sbaglia di grosso. Come accadde
a Gheddafi, quando i suoi averi all’estero faranno abbastanza gola, si troverà
un bel pretesto per attaccarlo e toglierglieli. La scusa potrebbe essere quello
stesso salafismo che oggi il Qatar sostiene in Siria».

L’Iran non ha la bomba nucleare, ma
le attività di arricchimento dell’uranio a scopi pacifici proseguono. Possiamo
definire il Paese, «potenza nucleare»?

«Nel periodo della guerra fredda, “potenza
nucleare” si diceva di una nazione che possedeva la bomba.

L’Iran non possiede la bomba e
sbaglierebbe di grosso a possederla. Per questo la Guida suprema della nazione,
l’Ayatollah Khamenei, ha persino emesso un editto religioso, una Fatwa,
che proibisce la fabbricazione di armi nucleari.L’Iran sa benissimo di potersi
difendere senza bisogno di armi nucleari. Il nucleare è visto soltanto come
un’opportunità per produrre energia elettrica in abbondanza e dare inizio a un
grande progresso economico e industriale.

Con la sua giovane popolazione di
77 milioni di persone, il paese mira a raggiungere il benessere generalizzato
nei prossimi anni. Oggi sfrutta al minimo tantissime opportunità e potenzialità
economiche esistenti al suo interno. Un territorio immenso dove si continuano a
costruire con un ritmo frenetico dighe, edifici, dove vengono inaugurati
progetti di ampliamento, industrie, fabbriche. La vera “potenza nucleare”
dell’Iran è la vitalità, il livello di cultura e la forza di un popolo che sta
attraversando passo dopo passo la via del progresso. L’Iran oggi è ancora
dipendente dal suo petrolio, ma anche solo usando il suo turismo – è tra i
paesi dove si trovano il maggior numero di reperti storici del Patrimonio
culturale mondiale -, potrebbe ottenere guadagni ingenti.

Pochi infine sanno che con
l’allentamento delle sanzioni l’Iran potrebbe svolgere il ruolo di hub aereo
della regione e crocevia del trasporto di passeggeri e merci. È anche il
tragitto ideale per far passare gli idrocarburi del Mar Caspio e portarli fino
ai mari del Golfo Persico.

A mio avviso, l’Iran diventerà uno
dei paesi maggiormente industrializzati, una delle potenze della regione e
probabilmente del mondo. Gli americani e gli israeliani questo lo sanno e non
vogliono che accada».

I cristiani cattolici hanno un nuovo
Papa, che ha scelto un nome ricco di significati positivi: Francesco. Francesco
d’Assisi è amato per la sua semplicità, la vicinanza agli ultimi e l’amicizia
con il Sultano musulmano. Cosa ne pensa?

«Nel Corano, nel versetto 82 della
sura Al Maeda (o della Tavola Imbandita, la quinta del Corano) si legge questo
consiglio rivolto da Dio ai musulmani: “… e troverai che i più prossimi
all’amore per i credenti sono coloro che dicono: “In verità siamo nazareni”,
perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna
superbia”.

Il fatto che i cristiani siano
potenziali amici e alleati dei musulmani, è una verità risaputa. Quando
Mohammad, il profeta dell’Islam, era un bambino e accompagnava lo zio in un
viaggio, venne riconosciuto dal monaco cristiano Bahìra a Basra4 che vide in lui i segni citati da Gesù per il profeta
che sarebbe venuto in futuro. Ci sono tanti altri tratti della storia che
potrebbero testimoniare la vicinanza tra Islam e Cristianesimo. Secondo
l’Islam, almeno, tutti i profeti della tradizione ebraica e cristiana, più
altri presentati dal Corano, sono messaggeri di un unico Dio e hanno invitato
tutti a un’unica religione.

Nel mondo di oggi, Papa Francesco
(o qualsiasi altro uomo di religione, veramente amante della pace) può fare
molto per la nostra Terra. Il mondo è così pieno di ingiustizia, corruzione e
male che basta solo fare qualche passo in avanti per poter dare vita a grandi
cambiamenti. Io posso solo sperare che il nuovo Papa si adoperi per la pace e
prego Dio affinché possa guidare al meglio i fedeli cattolici in un mondo che
pare ancora riservarci troppe guerre e ingiustizie». •

Note:

(1) 
Davood Abbasi, Usa/Iran: ecco la guerra che Obama ha scatenato
(italian.irib.ir/analisi/commenti/item/122913).
(2) 
Si veda: Angela Lano, Dossier primavere arabe, Missioni Consolata,
gennaio 2013, reperibile sul nuovo sito web della rivista.
(3) 
Samuel Huntington (1927-2008), politologo statunitense, famoso
soprattutto per la sua tesi sullo «scontro di civiltà».
(4) Gabriel Mandel Khan, Dizionari
delle Religioni
, Islam, Electa, p.26.

 
       1979-2013 – Un  embargo lungo 34 anni                                                       

Contro l’Iran sono in vigore
sanzioni economiche, commerciali, scientifiche e militari. Sono state imposte
dal governo degli Stati Uniti o, sotto la sua pressione, dalla comunità
internazionale attraverso il Consiglio di sicurezza dell’Onu.  Comprendono, tra le altre cose, un embargo
nei rapporti commerciali con gli Usa e un divieto di vendere aerei o pezzi di
ricambio all’aviazione iraniana. Nel 1979, dopo un tentativo di golpe statunitense
per rimettere al potere lo shah Reza Pahlavi, un gruppo di studenti islamici
occupò l’ambasciata Usa a Teheran, tenendo sotto sequestro lo staff
diplomatico. L’allora presidente Jimmy Carter emise un ordine che prevedeva il
congelamento di circa 12 miliardi di dollari di beni iraniani (depositi
bancari, oro e altro), 10 dei quali sono ancora in mano agli Usa.

Nel 1984 le sanzioni aumentarono
dopo l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq (settembre 1980 – agosto 1988),
prevedendo il divieto di vendita di armi, e dei prestiti bancari da parte delle
istituzioni finanziarie inteazionali. Nel 1987, il presidente Usa Ronald
Reagan emise un decreto che proibiva attività di import-export con l’Iran per
qualsiasi tipo di prodotto o servizio .

Durante il governo del presidente
iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani (un conservatore centrista aperto al libero
mercato interno e un moderato a livello di relazioni inteazionali, favorevole
alla distensione dei rapporti con gli Usa e l’Occidente) le sanzioni furono
durissime: nel 1995, il presidente Bill Clinton emise un ordine che proibiva,
prima, le transazioni con le industrie petrolifere iraniane, poi ogni tipo di
scambio commerciale. In quell’anno ebbero dunque termine le relazioni di affari
tra Usa e Iran. Nel 1996, il Congresso Usa approvò l’Atto delle sanzioni contro
Iran e Libia (Ilsa) in base al quale le compagnie petrolifere straniere che
investissero in Iran oltre i 20 milioni di dollari sarebbero state soggette a
penalità, tra le quali il rifiuto del credito da parte di istituzioni
finanziare statunitensi e dell’assistenza bancaria per l’import-export.

Quando fu eletto il presidente
riformista Mohammad Khatami, Clinton alleggerì le sanzioni, ma nel 2001 l’Ilsa
fu rinnovato e ratificato dal presidente George Bush.

Il presidente Mahmoud Ahmadinejad,
eletto nel 2005, riprese l’arricchimento dell’uranio, sospeso in base a un
accordo con Francia, Germania e Gran Bretagna. Da allora gli Usa spingono perché
le Nazioni Unite sanzionino l’Iran sul suo programma nucleare.

Tra il 2006 e il 2010, il Consiglio
di sicurezza dell’Onu adottò le risoluzioni 1737, 1747, 1893, 1929 che
impongono nuove sanzioni o l’inasprimento di quelle già in atto, per punire il
programma nucleare iraniano.

Nel luglio del 2010, il presidente
Barack Obama ratificò il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and
Divestment Act»: tali restrizioni comprendono la cancellazione
dell’autorizzazione per l’importazione di articoli di origine iraniana
(tappeti, pistacchi, caviale, eccetera).

Un discorso a parte meritano le
sanzioni in campo bancario. Le istituzioni finanziarie iraniane hanno il
divieto di accedere direttamente al sistema finanziario statunitense. Sanzioni
vennero imposte nel 2006 alla Bank Saderat Iran in quanto accusata di aver
trasferito fondi al movimento di resistenza libanese Hezbollah. Nel novembre
del 2007, altre banche iraniane entrarono nel mirino dell’embargo Usa. Vennero
inserite nella lista speciale dell’Ofac (Office of Foreign Assets Control), che
riguarda nazioni o entità a cui è negato l’accesso al sistema finanziario
statunitense.

Le restrizioni bancarie hanno
costretto cittadini e piccoli imprenditori iraniani a rivolgersi al mercato
hawala*, per bypassare l’embargo e portare avanti le proprie transazioni
economiche e finanziare. •

(*) Si tratta di
un sistema alternativo e informale di trasferimento della valuta basato su un
network di brokers. È diffuso in Africa, India e Medio Oriente.

Angela Lano

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