Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello




L’Angelo dei Carriers /3

Continua il fumetto sulla vita della Beata Irene Stefani.
Terza puntata

Continua da «La Consolata», agosto 1916.
Gli accordi furono presto conchiusi: trattamento degli ufficiali a Padri e
Suore; nomina dei Padri a tenenti onorarii e delle Suore a membri della Croce
Rossa; viaggi in prima classe sulla ferrovia, non solo per loro, ma altresì per
Monsignore e per la Superiora delle suore, quando volessero recarsi a far loro
visita nei diversi ospedali. E prontamente si passò all’esecuzione: tre gruppi
di suore con a capo di ciascuno un missionario, si radunano a Fort Hall, donde
automobili foiti dal Goveo li trasportano a Nairobi: quivi si ferma un
gruppo, mentre i due restanti ripartono in ferrovia rispettivamente per Voi e
Mombasa. Non essendo ancora preparate per loro le abitazioni, alloggiano per
qualche tempo sotto solide e comode tende; frattanto in sito attiguo ad ogni
ospedale si costruisce una serie di casette in legno: per il Padre, per le
suore, per i boys di servizio; poi una bella chiesetta che venne dedicata alla
Madonna della pace.

Lo scopo immediato dell’opera dei nostri era l’assistenza ai malati, la sorveglianza al personale nero di servizio negli ospedali ma grado a grado passò in loro mano quasi interamente
l’andamento degli ospedali stessi, con la più ampia facoltà di richiedere dalle
farmacie e magazzini e dispensare medicine, viveri, indumenti, coperte, ecc., e
con la più assoluta autorità su tutto il personale nero.

Scopo remoto poi e finale dei nostri, era accaparrarsi la confidenza dei malati, affezionarli alle Missioni, istruirli gradatamente nella religione, battezzare i morenti e questo altresì
stanno conseguendo su larga scala, a salute di molte anime e grande loro
soddisfazione. I battesimi dati superano il centinaio ogni mese; [la]
confidenza dai nostri acquistata e [l’]ascendente guadagnato sugli indigeni
[sono grandi].

(da «La Consolata», agosto 1916, pag. 115-118).



I Carriers

Tradotto e adattato da: Ross Anderson, World War I in East Africa (pp. 155s). PhD thesis,
University of Glasgow, 2001.

Se la ferrovia foiva il miglior mezzo di trasporto, le condizioni locali imponevano
che gli eserciti dipendessero dal meno efficiente dei mezzi di trasporto:
quello umano. Era l’adattamento di una tradizione ben radicata in alcune tribù:
quella di affittare portatori (agli esploratori bianchi) per i safari.
L’urgenza della guerra e i problemi del trasporto di cibo e munizioni causarono
un radicale e spietato aumento della domanda di forza lavoro. Inizialmente fu
soddisfatta da volontari, ma le condizioni del servizio, la lunga durata
dell’assenza da casa e l’orrore dell’incognito portarono a usare l’arruolamento
forzato su larga scala. Tale metodo di trasporto richiedeva un duro lavoro
fisico in condizioni difficili, in più il cibo era insufficiente, le malattie
erano comunissime e c’era la reale possibilità di diventare una casualità della
guerra. I carriers erano più esposti alle malattie dei soldati a causa
una combinazione di dieta povera, di mancanza di igiene e di ignoranza.
Disporre di portatori a sufficienza divenne un fattore determinante per
Britannici, Belgi e Tedeschi.

Se averli in numero sufficiente era essenziale, il mantenerli efficienti e sani lo
era ancor più. Si calcola che entro la fine del 1916 siano stati arruolati
160mila uomini nei territori inglesi del Nord come pure nella colonia tedesca.
Di essi, 63.000 erano ancora in servizio, 5.349 erano morti e 26.318 – numero
altissimo – avevano disertato o erano dispersi, mentre 30.000 erano stati
congedati secondo gli impegni presi.

[Alla fine del 1916] il nuovo comandante inglese, il generale Hosking, con il suo
staff calcolò che avrebbero avuto bisogno di almeno 160.000 portatori per poter
procedere con le operazioni di guerra. In termini di reclutamento significava
che c’era bisogno di 16.000 nuove reclute ogni mese per tenere il passo con un
livello di perdite mensili del 15%.

Situazione sanitaria dei carriers

Nel periodo tra l’8 gennaio e il 5 maggio 1916 ben 38.000 carriers furono
ammessi negli ospedali, con una proporzione di ammissioni di 206 ogni mille. Di
questi, circa 23.000 erano malati di malaria e 2.800 di dissenteria. I due
malanni erano la ragione principale dei ricoveri ospedalieri. La malaria era la
causa del 60% dei ricoveri, mentre la dissenteria solo del 7,5%. Ma la malaria
provocava il 26% delle morti, mentre la dissenteria il 23%. [L’ospedale di]
Kilwa aveva l’infelice primato di ricoveri, con il 41,3% che si ammalavano.

Il livello di malattie non era un problema temporaneo anche perché moltissimi dei
portatori venivano persi per sempre: o perché ormai invalidi permanenti, o
perché congedati, o perché morti. I carriers pagarono un prezzo
pesantissimo.




Continua

a cura di Gigi Anataloni




Caro Amico

 

Si
apre con l’invito alla lode il Salmo 136, prosegue con la memoria di quanto il
Signore ha compiuto, si chiude con l’invito rinnovato alla lode. È il Salmo che
ogni due versi, nella traduzione Cei precedente a quella attuale, recita «perché
eterna è la sua misericordia» (la versione del 2008 dice, invece, «perché il
suo amore è per sempre»). È il Salmo che Gesù canta subito dopo l’ultima cena,
prima della Passione, ponendo così l’atto supremo della Rivelazione sotto la
luce dell’amore incondizionato di Dio padre. Papa Francesco ne scrive nella
bolla d’indizione del Giubileo che si aprirà l’8 dicembre 2015 e si chiuderà il
20 novembre 2016, centrato sul tema, appunto, della misericordia. Lì il pontefice
ci invita ad assumere il ritornello del Salmo nella quotidiana preghiera di
lode.

Possiamo raccogliere l’invito del
papa da subito. Possiamo, ad esempio, usare lo schema del Salmo 136 per vivere,
nella luce della misericordia, l’estate appena iniziata: usare il tempo del
riposo, del lavoro, del volontariato, del campo in missione, della vita
famigliare delle prossime settimane come tempo di lode a Dio e di memoria, per
ricordare a noi stessi che siamo, e che tutto è, «perché eterna è
la sua misericordia».

Il salmista ci dice che il
Signore ha creato i cieli con sapienza, ha fatto il sole, la luna e le stelle
per regolare il giorno e la notte, ha diviso il Mar Rosso in due parti, ha
guidato il suo popolo nel deserto, che nella nostra umiliazione si è ricordato
di noi, ci ha liberati dai nostri nemici, dà cibo a ogni vivente… «perché
eterna è la sua misericordia». Ciascuno di noi può aggiungere a quanto elencato
dal salmista, le opere che il Signore ha compiuto nella sua vita, nell’anno
sociale che si conclude. Il Signore ci ha liberati dai nemici multiformi che
fuori e dentro di noi attentano alla nostra vita, libertà, gioia, umanità, «perché
eterna è la sua misericordia». Inizieremo il nuovo anno di attività, con la
forza ricavata dal riconoscerci amati in modo incondizionato, coperti
dall’ombra dell’infinita accoglienza di Dio.

Per molti giovani in questo tempo
inizia il conto alla rovescia dei giorni che li separano dalla Giornata
Mondiale della Gioventù del prossimo luglio 2016. Anche quel raduno che porterà
migliaia di persone a Cracovia sarà sotto il segno del tema giubilare: «Beati i
misericordiosi perché troveranno misericordia».

Prepariamoci dunque a vivere
un’estate, e poi diversi mesi ancora, nel segno dell’indulgenza e della grazia,
della vicinanza di un Dio innamorato della nostra vita.

Buona estate da amico,
Luca Lorusso

Luca Lorusso




I Perdenti 6: San Maurizio e la legione Tebea

La celebre
Legione Tebana (o Tebea) è così chiamata perché, secondo la tradizione, era
composta interamente da legionari di fede cristiana provenienti dalla Tebaide,
in particolare dalla città di Tebe, terre e genti egiziane facenti parte
dell’Impero Romano del III secolo dC, una delle zone evangelizzate fin dagli
albori del cristianesimo.

Secondo
sant’Eucherio di Lione (380-450 dC), il primo che raccolse e raccontò nel suo Passio
Acaunensium martyrum
la storia della Legione Tebana, attorno al 286 essa
era di stanza in Gallia, presso la città di Agaunum (odiea Saint Maurice
nell’attuale Cantone Vallese in Svizzera) per reprimere una delle cicliche
rivolte dei Galli Bagaudi. Conclusa vittoriosamente la campagna, Massimiano
Erculeo, co-imperatore con Diocleziano, ordinò alle legioni di sacrificare
all’imperatore e di eseguire una spedizione punitiva per distruggere alcuni
villaggi del Vallese convertiti al cristianesimo. Gli ufficiali della Legione
Tebana, Maurizio, Esuperio e Candido, insieme ai loro centurioni e legionari,
si rifiutarono di adempiere gli ordini, dichiarando apertamente di essere
cristiani loro stessi. Massimiano ordinò la decimazione della legione (un
soldato ogni dieci doveva essere ucciso dai suoi stessi compagni). Dopo la
prima decimazione, ne ordinò una seconda, perché la Legione Tebana continuò a
rifiutarsi di compiere i massacri. All’ennesimo rifiuto, Massimiano chiamò
soldati di altre legioni per punire quella ribelle. La tradizione vuole che la
carneficina sia durata diversi giorni e abbia fatto almeno seimila e seicento
vittime.


La devozione
al santo martire Maurizio e ai soldati suoi compagni si diffuse in tutta la
zona alpina ed è molto radicata ancora ai nostri giorni.


Gli
storiografi avanzano diversi dubbi su alcuni aspetti del racconto di Eucherio,
ma il nucleo di verità rimane: nella persecuzione, anche in quella più
spietata, come è stata quella vissuta dai cristiani sotto l’imperatore
Diocleziano, i fedeli di Gesù Cristo sono capaci di obiezione di coscienza e di
martirio.

Maurizio, vuoi
parlarci dei tuoi tempi e della vita militare sotto l’Impero romano?

L’Impero di Roma in quel periodo aveva raggiunto l’apice del suo
splendore e della sua potenza, le sue legioni avevano sconfitto e soggiogato
quasi tutti i popoli che abitavano in quello che era allora il mondo
conosciuto. A noi legionari era affidato il compito di mantenere l’ordine e la
legalità nell’immenso territorio conquistato.

La tua vicenda risale alla fine del terzo
secolo, il che vuol dire che il messaggio di Gesù di Nazareth ai tuoi tempi si
era già ampiamente diffuso in Europa, arrivando fino ai «limes» dell’Impero.

Effettivamente la religione cristiana si era diffusa rapidamente,
tanto da insidiare il primato della vecchia religione pagana. Molti membri
dell’esercito avevano abbracciato la nuova fede, pur non mettendo mai in
discussione la fedeltà a Roma e all’Imperatore. Anche noi ci eravamo convertiti
al Vangelo, eravamo quindi coscienti che sopra di tutti c’era Dio Padre che per
manifestare agli uomini il suo Amore e la sua tenerezza aveva mandato sulla
terra il Figlio suo Gesù Cristo per rivelarlo, e nonostante fosse stato
condannato e crocifisso, dopo tre giorni era risuscitato e aveva inviato lo
Spirito Santo, tramite i suoi Apostoli, a vivificare la terra.

Voi che avete conosciuto questo messaggio
di salvezza diverse generazioni dopo l’annuncio dei primi discepoli, come vi
rapportavate a quello che era il nucleo centrale della fede cristiana?

Attraverso l’insegnamento di Gesù avevamo preso coscienza che ogni
essere umano, uomo o donna che fosse, nasceva con la stessa dignità di fronte a
Dio, fosse egli figlio di uno schiavo o di un membro del Senato di Roma, quindi
tutti gli uomini di fronte a Dio erano sullo stesso piano, un’uguaglianza in
dignità che aveva dello straordinario. Una novità questa di difficile
comprensione per la mentalità vigente nell’antica Roma in cui la divisione tra
plebe e patriziato, tra cittadini romani e popoli barbari era fortemente
radicata. L’invito a perdonare chi ti offende, il rifiuto della vendetta su chi
ti fa del male, erano cose inaudite ai miei tempi. Se poi aggiungi l’attenzione
da prestare a chi è malato, sofferente o debole, e l’invito da mettere al
centro della vita di tutti i giorni i poveri, ti renderai conto che il suo
messaggio era una vera rivoluzione.

Già, ma Gesù di Nazareth non si era
limitato a quello, aveva anche detto che la violenza non era una strada da
percorrere, perciò come si conciliava quest’affermazione con la politica
dell’Impero di cui le legioni romane erano il «braccio armato»?

Guarda, pur essendo noi militari inquadrati in una delle più
superbe legioni romane, il nostro compito non era di far del male ad altri, ma
di difendere quello che era il territorio di Roma dalle invasioni dei popoli
barbari. Dovevamo difendere i suoi cittadini, le sue leggi, la sua cultura, in
una parola quella che veniva chiamata la «Pax Romana».

Era per quello allora che ti trovavi di
stanza nelle Alpi?

Con i miei legionari ero stato destinato in quelle zone per
contrastare le continue sommosse e rivolte dei Galli tra i quali la tribù dei
Bagaudi composta in gran parte da «teste calde» che mal sopportavano la
disciplina e le leggi di Roma. Noi avevamo il compito di mantenere l’ordine
nelle vallate alpine.

È vero che voi avete scritto una lettera
all’Imperatore manifestando la vostra fedeltà a Roma, ma ribadendo il principio
secondo cui, come militari di fede cristiana, avevate il compito di difendere,
oltre che il territorio, i più deboli e i più indifesi?

Proprio così! Noi scrivemmo all’Imperatore dicendo: «Siamo tuoi
soldati ma anche servi di Dio, cosa che noi riconosciamo francamente. A te
dobbiamo il servizio militare, a Lui l’integrità e la salute, da te percepiamo
il salario, da Lui il principio della vita. Alzeremo le nostre mani contro
qualunque nemico, ma non le macchieremo mai con il sangue degli innocenti. Noi
facciamo professione di fede in Dio Padre Creatore di tutte le cose e crediamo
che suo Figlio Gesù Cristo sia Dio».

Non c’è che dire, una lettera coraggiosa!

Che nasceva dalla convinzione che l’essere cristiani e, in modo
particolare, vivere la condizione di soldato al servizio delle leggi di Roma ci
rendeva leali cittadini, fedeli sudditi dell’Impero, ma anche difensori dei più
deboli che si affidavano a noi per poter vivere e lavorare tranquillamente. Nel
contempo la fede in Cristo ci impediva di usare violenza verso le popolazioni
inermi e di commettere soprusi gratuiti.

Il servizio militare, obbligatorio per
ogni cittadino romano, era parte integrante della vita, in quanto ogni maschio
valido doveva impegnarsi a difendere Roma, a diffondere le sue leggi, a
espandere la civiltà che essa incarnava.

Pur non deponendo le armi, anzi, avendone cura non proprio come
arma di offesa quanto piuttosto di difesa, si può dire che per la prima volta
nella storia l’utilizzo delle forze armate era visto, grazie a noi, non tanto
come un’occasione per conquistare territori, quanto piuttosto come un
mantenimento integerrimo e responsabile della pace e dell’ordine, e come
contributo alla sicurezza della gente. Grazie al nostro esempio quindi, le
legioni romane erano percepite non tanto come truppe di occupazione ma come
garanzia di pace e tranquillità, il tutto ovviamente in una visione globale in
cui Roma «Caput Mundi» riscuoteva le tasse, mentre le legioni garantivano la
pace.

Resta il fatto che il vostro martirio
affrontato coraggiosamente vi fa antesignani di tutti gli obiettori di
coscienza. In più esso si è così impresso nelle vallate alpine che ancora oggi
da quelle parti la devozione nei vostri confronti è molto viva e attuale.

È vero, seimila soldati passati a fil di spada perché si
rifiutarono di uccidere inermi valligiani, civili indifesi, fu un fatto
eclatante che rimase impresso nella coscienza di quelle popolazioni.
L’iconografia classica che si sviluppò successivamente ci rappresentò, infatti,
come dei soldati con la palma del martirio in mano, lo stendardo con croce
rossa in campo bianco, da cui la Svizzera si è ispirata per la sua bandiera, e
la croce mauriziana dipinta sulle nostre armature. La devozione popolare ha
visto in ciascuno di noi, oltre che dei legionari fedeli all’Imperatore che
avevano il compito di difendere il territorio loro affidato, delle persone che
hanno avuto il coraggio di manifestare apertamente la fede cristiana in tempi
non certo favorevoli a gesti simili.

Oltre a ciò la vostra vicenda ha dato
origine anche all’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, che fu fondato dalla
casa dei Savoia quando questa conquistò per un certo periodo il Vallese.

Oltre a ciò i Savoia portarono a Torino parte delle reliquie della
Legione Tebana, nonché la mia spada e il nostro simbolo, ovvero la croce
mauriziana, conservati in una cappella della chiesa in cui è custodita anche la
Sacra Sindone.

Oltre che della casa Savoia siete
diventati i protettori anche di altre istituzioni?

Con i miei compagni siamo i patroni degli Alpini Italiani, delle
Guardie Svizzere e delle truppe alpine dell’Esercito Francese. Le chiese
dedicate a San Maurizio e ai Santi della Legione Tebana si diffusero, e sono
presenti ancora oggi, in Valle d’Aosta, Piemonte, Francia, Germania e Svizzera.
In quest’ultima nazione, nel Canton Grigioni, mi fu dedicata la città di Saint
Moritz e anche in Francia molti paesi furono chiamati con il mio nome proprio
per ricordare il valore e la testimonianza della Legione Tebana. La più celebre
è Bourg Saint Maurice in Savoia e per non essere da meno anche in Piemonte
vennero affidate alla nostra protezione San Maurizio Canavese vicino a Ivrea,
nonché San Maurizio D’Opaglio nel novarese, dove, secondo la tradizione,
eravamo transitati, e infine Porto Maurizio in Liguria.

Gli abitanti di queste città sanno che il
loro patrono proveniva dall’Egitto?

Sì, credo che lo sappiano.

La devozione per i martiri della Legione
Tebea si è diffusa anche presso la Chiesa copta.

Sì, quella copta è una Chiesa storica egiziana che venera non solo
me, San Maurizio, ma tutti i miei valorosi compagni, le cui reliquie si
ritrovano in numerose chiese sia in Europa che in Africa.

Se non vado errato, qualche anno fa furono
donate al Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa della Chiesa Copta, Papa
Shenuda III, alcune preziose reliquie dei Santi della Legione Tebana (nel
1991).

È vero, il nostro sacrificio ha aperto anche un originale cammino
ecumenico in quanto altre Chiese orientali venerano i Martiri della Legione
Tebea. Il martirio da noi subito è anteriore ai vari scismi succedutisi nella
Chiesa attraverso i secoli. Anche nel mondo protestante c’è una devozione
legata alla nostra testimonianza.

Il vostro martirio alla luce della fede
cristiana vi trasforma da perdenti in testimoni della fede, come per Gesù di
Nazareth, il vostro sacrificio invece di essere visto come una sconfitta è
diventato un segno di speranza per i cristiani di tutti i tempi.

La fede nella Risurrezione è questa: offrire la propria vita per
essere fedeli fino in fondo ai valori del Vangelo che Cristo ci ha lasciato!

San Maurizio e i suoi
compagni, che hanno versato il proprio sangue per la confessione della fede
cristiana, restano ancora oggi dei testimoni esemplari di come si possa andare
incontro al martirio con coerenza e coraggio. Il loro esempio deve essere di
stimolo per noi a vivere in pienezza la fede in Cristo Gesù, senza quei
compromessi che rischiano di annacquarla di fronte al mondo. Di tutta questa
vicenda, una delle cose sorprendenti è quella di scoprire che molti paesi e
città delle nostre vallate alpine hanno come Santi protettori delle persone che
oggi definiremmo «extracomunitari» in quanto provenienti dall’Egitto, ovvero
dal continente africano.

Mario Bandera, Missio Novara

Tags: Santi, obiezione di coscienza, San Maurizio, Legione Tebea, Martirio

Mario Bandera




Religioni e violenza secondoMedha Patkar

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 30

Attivista indiana per
i diritti umani, ambientalista e donna politica, Medha Patkar mette in
evidenza, nelle sue riflessioni, il nesso tra violenza, religioni e potere
politico ed economico. In un contesto come quello indiano in cui il primo
ministro, Narendra Modi, è l’esponente di spicco del Partito del popolo
indiano: conservatore, nazionalista, di esplicita ispirazione induista.

«Occorre comprendere che la violenza,
l’emarginazione di ispirazione religiosa non è il solo problema dell’India,
dell’Orissa e del Kandhamal. Sovente il fattore religioso è pretesto per
accrescere la presa dei potenti sul territorio, per svendee le ricchezze
naturali a grandi compagnie, per espropriare tribali, aborigeni e contadini a
favore di colossali interessi agricolo-industriali o minerari».

A dirlo è Medha Patkar, attivista
indiana conosciuta per le sue battaglie ambientaliste. In tempi recenti ha
portato il suo impegno sul piano politico, ma senza cessare di sostenere la
trentennale lotta delle popolazioni interessate dalla controversa diga del
Sardar Sarovar sul fiume Narmada che coinvolge quattro stati dell’India
centrale. A lei si deve la fondazione, con altri, dell’«Alleanza nazionale dei
movimenti popolari» che si è impegnata contro globalizzazione e strapotere delle
grandi aziende, e che nel 2004 si è trasformata in movimento politico, il «Fronte
politico popolare». Una scelta non da tutti compresa, il passaggio
dall’attivismo ecologista alla politica attiva, che Patkar ha spiegato con la
necessità di portare impegno e lotte prima rivolte a obiettivi particolari, su
un piano più generale ma anche più incisivo: «Noi crediamo che i movimenti
popolari siano inevitabili in ogni democrazia per tenere vivo il processo
democratico e per sollevare e risolvere i conflitti tra stato e cittadini su
questioni di ampio interesse. Questo ruolo, lo diciamo con umiltà, è importante
e occorre proseguirlo. Contemporaneamente abbiamo sempre detto che la politica
elettorale non è intoccabile. Piuttosto la consideriamo complementare a quella
non elettorale.

Riteniamo necessario sfidare e
cambiare quella parte di cultura politica che è criminale e disgregatrice, che
sfrutta non solo la religione ma anche le caste come una forza per proseguire
con il gioco dei numeri».

Qualche tempo fa in un’intervista
alla scrittrice e giornalista Gargi Parsai, riflettendo su un tema a lei caro e
solo all’apparenza lontano dal suo impegno primario, la Patkar sosteneva che «è
vero, le caste dividono la società, e oggi sono strumentalizzate al punto da
mettere gli uni contro gli altri contadini e contadini, operai contro operai.
Anche le caste vengono contrapposte alle altre caste e così finisce che si
riduce la loro capacità di unirsi contro le ingiustizie, ma anche contro le
minacce crescenti all’ambiente. Di conseguenza, è tempo che le popolazioni
costrette a lasciare le proprie terre e gli emarginati si uniscano, in modo che
queste forme di ingiustizia possano essere affrontate in modo unitario e
efficace».

I massacri di
Kandhamal

Più di recente, nel 2014, in
occasione di un grande raduno che ha ricordato l’avvio dell’ondata persecutoria
anticristiana nello stato di Orissa, la Patkar ha avuto modo di riflettere su
questo aspetto del suo impegno che è di riconciliazione prima ancora che di
contrasto a abusi e discriminazioni.

«Sono davvero felice e allo stesso
tempo triste di vedere che a sei anni dai massacri del Kandhamal molti abbiano
ancora così tanto entusiasmo, tanta energia, coraggio e forza di opporsi al
governo dell’Orissa e a quello federale guidato da Narendra Modi.

I fondamentalisti (non importa a
quale religione appartengano), gli individui che hanno stuprato suor Meena e
coloro che hanno distrutto più di 300 chiese, 6500 case (ucciso più di cento
persone, ndr) e costretto 56mila persone a lasciare le proprie
abitazioni e a vivere per le strade, che hanno devastato i loro campi e
raccolti e altri mezzi di sostentamento, hanno trasformato uomini liberi in
schiavi».

L’attivista, in queste parole, faceva
riferimento ai gravi fatti – la peggiore persecuzione anticristiana della
storia modea del paese – che ebbero luogo nel distretto del Kandhamal, nello
stato orientale di Orissa. Iniziati nel Natale del 2007, quando radicali indù
sobillati da un leader locale, Laxmanananda Saraswati, bloccarono con una
serrata le celebrazioni cristiane, si concretizzarono violentemente dopo
l’uccisione dello stesso Saraswati il 23 agosto 2008. Un delitto di cui vennero
accusati i cristiani locali, in maggioranza convertiti da etnie animiste e
gruppi indù fuoricasta. L’evidente pianificazione del pogrom, con
l’arrivo organizzato di migliaia di fanatici da altre aree dello stato di
Orissa e del paese, fu negata a favore di una tesi che sosteneva invece la
spontaneità della persecuzione. Quegli eventi, che hanno segnato profondamente
la coscienza collettiva della comunità cristiana indiana, e la difficoltà da
parte delle vittime di avere giustizia a causa di un pesante clima di
intimidazioni e coperture, hanno chiarito i limiti della giustizia indiana e
accentuato i timori delle minoranze, in particolare sotto l’attuale governo
nazionalista e filoinduista del paese.

«Il Kandhamal è uno dei molti luoghi
in India segnati dalla violenza comunitaria. Ovunque si verifichino rivolte nel
nome della religione, a finire sotto attacco è l’umanità, che viene seppellita
– ha indicato la Patkar -. Comunque, deplorare questi incidenti, per quanto lo
facciamo con forza, non può essere sufficiente. Chi promuove un atteggiamento
violento nel nome della religione va condannato».

Estremismo induista

Convinzioni, quelle di Medha Patkar,
che trovano sempre più spazio nella società civile indiana – che va aprendosi a
tematiche come la discriminazione e la violenza sessuale, la lotta a malgoverno
e corruzione, la ricerca di unità in un paese sempre più frammentato e quindi
sempre più distante dall’integrazione sognata dai suoi fondatori –
contemporaneamente a un aumento della violenza religiosa. Quest’ultima è
incentivata dal movimento di riconversione all’induismo promosso da gruppi
estremisti che non agiscono più attraverso la sola coercizione o intimidazione,
ma anche proponendo incentivi materiali, e utilizzando metodi che ricalcano le
iniziative benefiche presenti, ad esempio, nella prassi cristiana che gli
stessi gruppi stigmatizzano come mirati alla conversione.

«È molto importante che comprendiamo
che cos’è la religione», ha segnalato la Patkar aprendosi a una tematica
raramente parte del suo impegno, ma che, come altre, riveste un ruolo
essenziale nel paese e nelle sue difficoltà attuali, a partire dal settarismo
che va diffondendosi. «Religione è prassi di vita, religione significa legge;
indica alcuni principi fondamentali e nient’altro che questo».

«Alcuni riconoscono Bhagwan (termine
generico per indicare dio nell’induismo, nda) o Allah, altri offrono namaaz
(preghiera islamica, nda) e altri fanno i rituali della puja (atto
di adorazione induista, ndr) e i nostri fratelli adivasi (aborigeni, nda)
trovano i fondamenti della loro religione tra gli alberi, sulle montagne e nei
fiumi. La comunità dalit (termine più attuale per fuoricasta, intoccabili, nda)
considera il dottor Ambedkar (che guidò il movimento per la loro emancipazione
negli anni Sessanta, nda) come loro divinità. Anche Buddha, Kabir,
Periyar, Vivekanand e Mahavir non hanno mai predicato la violenza, lo stupro,
la distruzione per diffondere le rispettive pratiche religiose o filosofiche.
In molti casi, tuttavia, i loro seguaci hanno intrapreso un cammino che
contrasta con gli ideali religiosi e ovunque questo succeda non sono soltanto
case e campi a essere devastati, ma è la stessa religione a essere distrutta».

Prove di pulizia
etnica

Si è spesso detto, in modo
particolare da parte della Chiesa cattolica la quale dal 2008 fronteggia con
coraggio la sfida dell’integralismo indù al fianco delle comunità di battezzati
sparse tra le foreste e le colline dell’Orissa, che la situazione vissuta in
Kandhamal è stata una prova di pulizia etnica. Una spallata alla convivenza e
all’integrazione, come già era avvenuto nell’enorme pogrom antimusulmano
del Gujarat nel 2002, quando la violenza integralista indù provocò 1044 vittime
accertate (di cui 790 musulmani), migliaia di feriti e mutilati, stupri di
massa, più di 60mila sfollati.

Per questo, segnala la Patkar, è
fondamentale capire che cosa è successo in Kandhamal: «Occorre partire dalla
conoscenza della sorte della popolazione interessata dalla persecuzione,
soprattutto delle donne e dei bambini. Le grida strazianti delle donne che ho
sentito, in un tempo in cui sono usate come puro oggetto di repressione, devono
essere ascoltate. Non è solo il mercato con le sue logiche a trattare le donne
come oggetti, ma a volte anche la religione».

In Kandhamal, obiettivi dei radicali
che scatenarono il pogrom erano dalit e adivasi cristiani. I richiami
alla calma furono ignorati e le violenze scoppiarono quando ai cristiani venne
attribuita la responsabilità dell’uccisione del leader radicale indù Swami
Laxmanananda Saraswati e di due suoi seguaci in un presunto centro spirituale
che altro non era che un luogo di cornordinamento delle strategie induiste nella
regione. Di fatto i cristiani furono scagionati subito dai guerriglieri maoisti
che rivendicarono di aver ucciso l’uomo per le sue attività persecutorie e per
il suo ruolo di apripista del controllo economico sul territorio dell’interno
dell’Orissa da parte di facoltosi correligionari.

«Le accuse comunque sfociarono in
violenze diffuse, vittime, conseguenze ancora presenti. Su che cosa furono
basate le accuse verso la pacifica comunità cristiana? Se ci fossero state
responsabilità concrete, la popolazione locale si sarebbe rivolta alle autorità.
Il fatto fu che a incentivare i disordini fu un gran numero di elementi
arrivati da fuori Kandhamal e anche da fuori Orissa, e a prolungarli contribuì
la latitanza della polizia in uno stato governato allora in coalizione da un
partito locale di centrodestra, il Biju Janata Dal, e dal Bharatiya
Janata Party
, gruppo di riferimento politico dell’estremismo induista, oggi
al potere centrale a livello federale».

Goveo e
fondamentalisti

Ogni anno ad agosto, gli estremisti
indù organizzano manifestazioni in cui accusano i cristiani di essere colpevoli
degli eventi del Kandhamal e di conversioni forzate. Allo stesso modo, i
cristiani, insieme ad altre organizzazioni della società civile locale e
nazionale, chiedono giustizia accusando gli indù di atteggiamento persecutorio.
A chi dovremmo credere? La risposta di Medha Patkar è chiara: «Ricordate: se c’è
violenza di ispirazione religiosa, la responsabilità ricade sia sul governo,
sia sui fondamentalisti. Dov’era il governo nei terribili giorni del Kandhamal,
dal 23 agosto 2008 in avanti? Chi aveva il potere allora in Orissa?
Evidentemente i due partiti della coalizione decisero di non intervenire, anche
se successivamente l’alleanza si allentò notevolmente. Gli ufficiali di polizia
che resero possibile alle violenze di propagarsi non sono stati puniti, come
pure i responsabili dello stupro di suor Meena. Ai profughi, espropriati di
case e beni viene ancora negata la possibilità del ritorno».

Politica (e
ingiustizia) in nome della religione

Questa problematica non è solo
limitata al Kandhamal, e il continuo accento, posto dalle istituzioni,
sull’unità e integrità del paese – a fronte di pratiche di segno opposto che
proprio la stessa politica e le stesse autorità incentivano o consentono – la
rende più evidente per contrasto.

«Fratelli e sorelle – concludeva
Medha Patkar lo scorso agosto il suo discorso in Orissa, mostrando una copia
del rapporto del Tribunale del popolo per il Kandhamal, impegnato a cercare
giustizia per le vittime – qui sono descritte le azioni che occorrerebbe
intraprendere, quali sono le leggi in base alle quali punire i criminali. La
gente non ottiene giustizia perché i politici fanno politica in nome della
religione. I cristiani sono soltanto il 3% della popolazione, i musulmani il
13%, gli adivasi il 9%. Perché i politici dovrebbero sostenerli? Quando i
partiti pensano così, il popolo non ottiene giustizia, i colpevoli non sono mai
puniti mentre innocenti finiscono in carcere per avere reclamato i propri
diritti. Perché non ci sono state indagini efficaci nel caso del Kandhamal?
Perché nessuno pone questa domanda? Questa è la mia domanda». 

Stefano Vecchia

Tags: Medha Patkar, Narenda Modi, Fondamentalismo, fondamentalismo indù, Orissa, intolleranza religiosa, persecuzioni

Stefano Vecchia




Errata corrige: Quando i progetti non bastano

Dopo gli anni
Settanta e Ottanta in cui «cornoperare» significava fondi a pioggia e tanto
mattone, il mondo missionario ha vissuto – come tutta la cooperazione – una
sorta di panico da «cattedrale nel deserto», che ha tentato di superare con un
metodo di lavoro diverso capace di mettere al centro le comunità locali e la
loro capacità di trovare soluzioni. E i termini empowerment, capacity building, local ownership* sono diventati
protagonisti dei dibattiti e dei progetti. Ma i risultati non sempre sono
arrivati.

«Nel nostro quartiere, dove il 43 per cento della popolazione non va a
scuola, un progetto di formazione sarebbe anche utile. Per le ragazze che hanno
frequentato la scuola possiamo ipotizzare una specializzazione
nell’informatica, perché anche quelle che lavorano nel commerciale non vedono
mai un computer, fatta eccezione per quelle che hanno frequentato qualche
scuola seria, che però è verso il centro città (e non è accessibile a tutte);
molte a scuola si sono formate usando due o tre macchine da scrivere per
classe. Per le ragazze che hanno lasciato gli studi o non sono andate a scuola,
proporrei dei corsi di alfabetizzazione: è quello che già facciamo in piccolo
in parrocchia. Ma non basta fare studiare le persone: bisogna chiedersi quali
sono poi le effettive opportunità di lavoro. Altrimenti specializziamo la
disoccupazione».

Così padre Santino Zanchetta, missionario della
Consolata, riassume la situazione del quartiere di Saint Hilaire a Kinshasa,
Repubblica Democratica del Congo, nel quale da oltre vent’anni vive e lavora. Specializzare la disoccupazione: può sembrare una battuta, ma è anche un’istantanea
della situazione nella quale molti missionari si trovano a lavorare. Contesti
che, pur non mancando una scuola o un pozzo o un dispensario – quelli magari ci
sono e funzionano -, sono inseriti in un ambiente sociale e soprattutto
economico che non cambia, o cambia lentissimamente e non offre opportunità
diverse dal semplice sopravvivere giorno per giorno.

Così, formare un gruppo di donne in attività di
sartoria, inserendo nel corso anche sessioni di formazione igienico-sanitaria e
di gestione di micro-attività imprenditoriali, è indubbiamente un’iniziativa
che ha un’utilità a prescindere, ma si scontra con fenomeni più ampi su cui la
comunità locale non ha controllo.

«Le donne erano fortemente interessate a partecipare»,
spiega Suor Darlene Lima, delle Suore catechiste francescane, responsabile di
un corso di taglio e cucito a Boroma (Tete, Mozambico), «ma non è stato
semplice mantenere sempre alta la motivazione. Quando è il tempo della semina
nella machamba, il campo, molte donne saltano le lezioni per dedicarsi
alla terra, perché la fonte principale di sostentamento rimane l’agricoltura».
Insieme alle beneficiarie, suor Darlene e le animatrici hanno trovato una
soluzione dividendo le donne in due gruppi in modo che, a tuo, uno potesse
occuparsi della machamba e l’altro frequentare i corsi. Il corso era
stato concepito per consentire a queste donne di avviare poi attività
generatrici di reddito in ambito sartoriale per integrare i magri proventi che
l’agricoltura permette. Gli accordi presi con le scuole locali per l’acquisto
delle uniformi confezionate dalle corsiste hanno permesso alle donne di vedere
i risultati del loro sforzo. Ma le difficoltà non sono venute meno.

«Il prezzo di mercato di un’uniforme cucita dalle donne
del corso non sempre riesce a competere con quello delle uniformi importate già
disponibili sul mercato, spesso di fabbricazione cinese». Lo stesso vale per
gli abiti comuni: i mercati africani sono invasi di indumenti di seconda mano
arrivati dall’Europa e Stati Uniti e venduti a cifre tutto sommato accessibili
anche per il potere d’acquisto locale.

Anche in una realtà con un’economia più reattiva, com’è
il Kenya, è necessario a volte aggiustare il tiro: «Negli ultimi anni c’è stato
un cambio sostanziale nella formazione che il nostro istituto tecnico propone»,
spiega suor Rosa Waeni, una missionaria della Consolata direttrice della Irene
Technical Training Institute
di Maralal nella Samburu County dove si
è appena concluso un intervento finanziato dalla Conferenza episcopale
italiana, «perché i corsi di sartoria hanno sempre meno richiesta, mentre
moltissimi studenti si avvicinano alla nostra scuola attirati dalla possibilità
di specializzarsi in informatica o elettronica, le materie che danno loro un più
immediato accesso al mondo del lavoro di oggi in Kenya. Meglio allora
potenziare questi due corsi attrezzando i relativi laboratori».

Le comunità locali
alla prova della globalizzazione

In paesi come il Mozambico, in piena espansione
economica, l’esigenza che le comunità manifestano è quella di poter beneficiare
delle nuove opportunità economiche, locali o straniere che siano. Basta passare
la mattina presto nei pressi del ponte sullo Zambesi, a Tete, per vedere
schiere di operai mozambicani in tuta e casco in attesa del bus che li porterà
al lavoro nelle miniere della multinazionale brasiliana Vale (vincitrice nel
2012 dell’Oscar della vergogna – «Public Eye award» – come compagnia più
inquinatrice del mondo). Cambiando paese, basta guidare verso Nord Est sulla
Thika Road fra Thika e Sagana, in Kenya, e osservare le distese di ananas che,
a perdita d’occhio, si allungano sul lato destro della strada nella fattoria
Del Monte, o le palme da olio che hanno letteralmente invaso i campi nella zona
di Maria La Baja e Cordoba, sulla costa caraibica colombiana. Queste opportunità
economiche portano posti di lavoro ma anche salari bassi, rischi per la salute
dei lavoratori, abuso delle risorse naturali – acqua, suoli, foreste – e
conflitti legati ad esempio all’accaparramento delle terre (land grabbing, vedi articolo pag. 29) e alla distruzione della biodiversità.

È con questi fenomeni che si deve misurare oggi chi
lavora nello sviluppo. E anche quando se ne è consapevoli e si interviene con
l’intenzione di limitae gli aspetti dannosi, di estendere l’accesso a servizi
di base o di creare alternative economiche eque e sostenibili, il successo è
tutt’altro che garantito. Ne è un esempio il progetto Maji Matone (Gocce
d’acqua), realizzato da una Ong tanzaniana, Daraja (il Ponte), che ne
spiega il fallimento sul proprio blog in un articolo dal titolo «Maji Matone
non ha dato risultati. È tempo di accettare il fallimento, imparare e andare
avanti». Il progetto, concentrato su un distretto della Tanzania meridionale,
mirava a creare un sistema che foisse informazioni ai cittadini sui problemi
di approvvigionamento idrico rurale, permettesse loro di segnalare via sms i
guasti ai punti di distribuzione dell’acqua e inoltrasse le informazioni alle
autorità competenti perché potessero provvedere alle riparazioni. C’era poi un
accordo con i media locali perché dessero visibilità ai problemi segnalati in
modo da fare pressione mediatica sulle autorità per accelerae la reazione. «Perché
abbiamo fallito?», si chiedono i responsabili di Daraja. «Beh, non
abbiamo ancora raggiunto una conclusione definitiva, ma ci siamo fatti un’idea.
Motivare le persone ad agire è difficile, soprattutto quando si promette un
beneficio lontano nel tempo e poco chiaro. Forse avremmo potuto lavorare di più
sulla promozione del progetto, ma concentrandoci sulle aree rurali implica
avere a che fare con gruppi di persone più povere, meno istruite e meno
politicamente impegnate delle loro controparti che vivono nelle aree urbane. Può
esserci anche una questione di genere: nelle zone rurali della Tanzania sono le
donne a occuparsi della raccolta dell’acqua; ma hanno davvero sufficiente
accesso ai telefoni cellulari?». Nei casi in cui la segnalazione del guasto c’è
stata, le riparazioni sono effettivamente avvenute nel quaranta per cento dei
casi; ma mentre Daraja aveva ipotizzato il coinvolgimento di circa
tremila persone, di fatto sono arrivati solo 53 sms.

Per cominciare, continua l’auto-analisi di Daraja, ci siamo
concentrati troppo sugli aspetti tecnologici hi-tech del come scegliere
la piattaforma informatica adeguata per canalizzare tutte le informazioni da
condividere, e troppo poco sui problemi low-tech, cioè sul fatto che
nelle aree rurali il tasso di analfabetismo, la difficoltà ad accedere alla
rete cellulare, la mancanza di elettricità per caricare il telefonino sarebbero
stati ostacoli molto più seri. Inoltre non abbiamo affrontato in modo adeguato
le conseguenze della divisione delle responsabilità stabilita dalle istituzioni
per la gestione dell’acqua: riparare le fonti, stabilisce il ministero
tanzaniano dell’acqua, è responsabilità delle comunità locali. Questo, insieme
a una generalizzata mancanza di fiducia da parte dei cittadini nell’operato delle
autorità pubbliche, ha probabilmente portato la maggioranza dei beneficiari a
pensare che non valeva la pena mandare un sms, tanto non sarebbe servito a
nulla.

Ammettere i
fallimenti

A raccogliere esperienze simili a quella di Daraja
c’è Admitting Failure (Ammettere il fallimento), un sito lanciato dalla
sezione canadese di «Ingegneri Senza Frontiere» dove cooperanti appartenenti a
diverse organizzazioni raccontano la loro esperienza di progetti che non hanno
funzionato. Si trovano storie come quella del volontario dei Peace Corps
che in Benin avvia con quattro donne una piccola produzione di pane: 100
dollari procurati dal cornoperante e 20 da loro sono il capitale iniziale per
comprare il materiale di base. Tutto funziona molto bene, i soldi entrano: su richiesta
delle donne stesse è lui a gestire la cassa. Ma a un certo punto il volontario
decide che è il momento di cedere responsabilità alle donne, cassa compresa, e
di continuare ad affiancarle solo come supervisore della contabilità. È allora
che le donne si dividono i fondi in cassa e smettono di fare il pane, restando
senza risorse per continuare.

«Il motivo del fallimento», spiega l’operatore, «è che
avrei dovuto essere più paziente, aspettando che le donne fossero in grado di
mettere oltre il 75% del proprio capitale nel progetto; avremmo anche dovuto
iniziare con più fondi, 300 invece di 120 dollari. In questo modo, le donne
avrebbero potuto comprare subito tutto il materiale necessario e cominciare a
pagarsi invece di vedere i soldi accumularsi per i successivi acquisti di
attrezzature. Il capitale sarebbe stato in beni non liquidi, loro avrebbero
sviluppato un maggior attaccamento al progetto e non avrebbero avuto contanti
che non sapevano dove conservare senza che mariti e figli li vedessero e li chiedessero».

L’unico vero fallimento «cattivo» è quello che si ripete,
conclude Admitting Failure. E il britannico Overseas Development
Institute
(Odi), che è entrato nel dibattito sugli «Obiettivi Sostenibili
del Millennio» con uno studio dal titolo Adattare lo sviluppo, sembra
essere d’accordo: «Non bisogna aver paura di provare, fallire e riprovare», si
legge nel documento. Secondo l’Odi, che si rivolge ai governi, a chi fa le
riforme nei paesi in via di sviluppo, ai donatori inteazionali e alle Ong, i
fallimenti sono spesso dovuti al fatto che ci si concentra più su modelli
ideali che sui problemi concreti. Ad esempio, l’Uganda ha ottime leggi su
gestione dei fondi pubblici e lotta alla corruzione ma poi, nella pratica, le
leggi sono applicate pochissimo. Bisogna allora chiedersi prima di tutto che
cosa è fattibile e che cosa no in contesti politici difficili come quelli dei
paesi in via di sviluppo e sostenere i cambiamenti che nascono dentro questi
contesti per iniziativa dei diretti interessati: politici, società civile,
comunità e imprese locali.

Una tesi non dissimile era emersa chiaramente anche al
convegno «Africa, continente in cammino», organizzato dai missionari e
missionarie Comboniani nel marzo scorso: «Deve essere l’Africa a salvare
l’Africa», si era detto in quell’occasione. Il ruolo di chi fa sviluppo – non
solo in Africa – è quello di favorire, non dirigere (o peggio, ostacolare), il
cambiamento.

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, sviluppo, progetti

Chiara Giovetti




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




Terra d’Africa vendesi

Un caso di land grabbing

«Prosavana»: 14,5
milioni di ettari coltivabili ceduti al Brasile. Cinque milioni di contadini
diventano «senza terra» per lasciare il posto alle monocolture. Il governo
sostiene che è un programma di sviluppo agricolo. La società civile (e la
chiesa) si oppongono e attivano una resistenza.

 

È il 14 agosto del 2011, quando un articolo sul
giornale brasiliano La folha de São Paulo, fa
sobbalzare gli attivisti del movimento contadino di un’altra parte del globo:
il Mozambico. Lo scritto dice con enfasi che il paese africano avrebbe concesso
alcuni milioni di ettari di terra coltivabile agli agricoltori brasiliani, per
produrre soia, cotone e mais.

È
solo dello scorso marzo la pubblicazione di un documento ufficiale, il Piano
direttore, versione «zero», che descrive in dettaglio, nelle sue 204 pagine, il
«Prosavana». Abbiamo sentito telefonicamente alcuni protagonisti di questo
episodio di land grabbing in
Mozambico.

«Si tratta di un programma di cooperazione trilaterale,
che coinvolge Mozambico, Brasile e Giappone – ci spiega Agostinho Bento,
responsabile di politiche e advocacy alla Unac, l’Unione nazionale contadina mozambicana, il
maggiore sindacato di categoria -. Quando la società civile mozambicana sentì
parlare del progetto di cui era all’oscuro, si mobilitò alla ricerca di
informazioni. Scoprì che si trattava di un vasto programma agricolo chiamato
Prosavana. Esso prevedeva che un certo numero di grandi produttori brasiliani
abbiano in concessione terra mozambicana per un periodo di 50 anni. Questa
informazione allertò il movimento contadino e la Unac in particolare. Cosa
voleva dire quell’acquisizione di terra? Cosa c’era dietro?».

Questi
programmi, sempre più frequenti in Africa, rientrano nella categoria chiamata
(in inglese) land grabbing,
ovvero accaparramento di terra. L’Africa è l’unico continente rimasto con
abbondanza di terra agricola sotto sfruttata, che sta diventando strategica per
la produzione di cibo, risorsa, insieme all’acqua, sempre più importante per il
pianeta. Per questo motivo si è innescata la corsa allo sfruttamento della
terra africana, di cui però i contadini locali vivono.

Il
Prosavana (per esteso: Programma di cooperazione trilaterale per lo sviluppo
agrario del corridoio di Nacala) è un grande piano di sviluppo agroindustriale
che coinvolge 19 distretti di tre province mozambicane, Nampula, Zambézia e
Niassa, nel cosiddetto corridoio di Nacala, che taglia il Nord del paese dal
lago Malawi alla costa, per un totale di 14,5 milioni di ettari (la superficie
di quasi mezza Italia).

«In
effetti – spiega il giornalista Jeremias Vunjanhe – i tre governi hanno
elaborato segretamente questo piano fino dal settembre 2009, diventato pubblico
solo con la divulgazione dell’articolo sul giornale brasiliano».

La voce del governo

Secondo
il governo del Mozambico, il programma Prosavana fa parte del Piano strategico
per lo sviluppo del settore agrario (Pedsa), che «si basa sull’aumento di
produzione e produttività agraria e contribuisce alla sicurezza alimentare e
all’aumento del reddito dei produttori agricoli in maniera competitiva,
sostenibile, garantendo l’uguaglianza sociale e di genere». E, sempre secondo
il ministero dell’Agricoltura e della Sicurezza alimentare mozambicano: «Tutte
le iniziative nell’ambito di Prosavana dovranno avere come principale obiettivo
l’appoggio ai piccoli e medi agricoltori mozambicani, cercando il miglioramento
delle loro condizioni di vita e l’aumento della loro produzione e produttività,
contribuendo alla sicurezza alimentare e nutrizionale della popolazione».

Ma
allora cosa c’è che non va in questo programma?

Ce lo
spiega Agostinho Bento, da Maputo: «Il Prosavana ha come obiettivo la
produzione di monocolture come la soia, che saranno esportate su un mercato
internazionale e in particolare giapponese. Saranno coinvolte enormi estensioni
di terra. Non si vuole trasmettere tecnologia ai piccoli agricoltori, ma è un
grande programma di agrobusiness, che
punta, di fatto, a togliere terra ai contadini, la risorsa che viene ora usata
per produrre cibo, e convertirla in terra per produrre grande monocoltura,
merce da esportazione. Gli agricoltori mozambicani e le loro famiglie saranno
sfollate e dovranno essere ricollocate altrove». L’impatto diretto sarebbe su
circa cinque milioni di contadini.

Continua
Bento: «Un programma che soddisfa gli interessi di grandi imprese, di grandi
affaristi, e non i bisogni dei piccoli agricoltori. Per questo abbiamo
cominciato questa contestazione. Abbiamo iniziato un’azione di advocacy
contro il programma».

Secondo
Vunjanhe, che è anche cornordinatore nazionale dell’Azione accademica per lo
sviluppo delle comunità rurali (Adecru), dietro a Prosavana ci sono «enormi
interessi economici di grandi corporazioni e istituzioni finanziarie. Il
cosiddetto Fondo Nacala, gestito in Lussemburgo, con il coinvolgimento della
Fondazione Getúlio Vargas, è uno dei principali meccanismi di raccolta di
risorse finanziarie, il che evidenzia la privatizzazione della presunta
cooperazione tra i governi».

 

I precedenti
«scomodi»

Prosavana
è la copia di un programma realizzato in Brasile nella zona del Cerrado negli
anni ’60. La Unac è entrata in contatto con le organizzazioni contadine di
quell’area, racconta il sindacalista: «Ci informarono che si trattò di
programmi che esclusero totalmente i contadini e le loro organizzazioni. È lo
stesso sistema che si vuole usare oggi in Mozambico. Quando il governo
brasiliano presentò il programma per la produzione di soia e canna da zucchero
nel Cerrado, disse che voleva aiutare i contadini, trasferendo tecnologia, ma
quando cominciò a implementare il programma, delle nuove tecniche e macchine
che usarono per lavorare la terra, nessun abitante ebbe beneficio.

Allo
stesso modo Prosavana non vuole accompagnare i contadini, non vuole produrre
cibo per i mozambicani, ma piuttosto merce da esportazione con conseguente
sfollamento di abitanti a livello del corridoio di Nacala».

Società civile tricontinentale

Per
reagire la società civile mozambicana scrisse una lettera aperta (maggio 2013)
ai governi dei tre paesi, nella quale chiedeva un dibattito aperto e
democratico sul progetto che avrebbe influenzato la vita di tanti cittadini e
allo stesso tempo metteva in guardia dai danni che Prosavana avrebbe creato:
contadini senza terra, corruzione, impoverimento delle comunità rurali,
avvelenamento di terra e acqua a causa di concimi e pesticidi, ecc. La risposta
arrivò solo dal governo mozambicano e si trattò di una sintesi del programma.

Sviluppati
i contatti con la società civile brasiliana e giapponese, gli attivisti dei tre
paesi iniziarono a cornordinarsi e a fare pressioni sui rispettivi governi.

Dopo
l’organizzazione nel 2013 della prima Conferenza triangolare dei popoli a
Maputo, nel giugno del 2014 fu lanciata la campagna «No Prosavana». Agostinho
Bento ricorda: «La conferenza mise insieme le società civili dei tre paesi.
Invitammo anche i tre attori statali. Partecipò solo il governo del Mozambico,
rappresentato dal ministro dell’Agricoltura. Fu uno spazio di condivisione per
i tre popoli per mostrare una volta di più ai loro governi perché dire no al
programma Prosavana. Le società civili esigono la sospensione immediata del
programma e la convocazione di un tavolo tra associazioni e attori governativi
per progettare un programma che possa effettivamente creare sviluppo e aiutare
i contadini in Mozambico».

In
questo incontro le tre società civili portarono alla luce alcuni documenti che
erano stati elaborati in forma nascosta dai tre governi. «Il più importante è
il Piano direttore o Master
plan, il documento di base del programma, ottenuto attraverso i nostri
colleghi del Giappone. Ma il governo mozambicano lo disconobbe. Certo non
pensavano che noi lo avessimo. Con esso dimostrammo che il programma non è
compatibile con le necessità del paese. Furono fatte altre attività, in
collegamento tra le società civili dei tre paesi. E nel 2014 fu organizzata la
seconda Conferenza triangolare che fu più ricca, più produttiva. Ancora potemmo
mettere insieme i tre popoli, e a quell’incontro parteciparono anche i
rappresentanti dei tre governi. Spiegammo nuovamente che il Prosavana deve
essere interrotto e le nostre ragioni. Nonostante questa advocacy,
assistiamo ancora a una resistenza dei governi che vogliono implementare il
programma con la forza».

 
Goveo, avanti tutta

Nel
marzo scorso il governo del Mozambico presenta il Master
plan ufficiale. Nel mese di aprile organizza quindi incontri di «consultazione
pubblica», in tutti i distretti, a livello dei capoluoghi di provincia e a
Maputo. Lo scopo ufficiale è condividere e «validare» il Master
plan con le comunità locali.

Così
non sembra, vista la reazione di parte della società civile, come la
Commissione arcidiocesana di Giustizia e Pace di Nampula e l’Adecru, che con un
comunicato denunciano: «[…] questo processo è stato segnato da molte gravi
irregolarità che, una volta di più, confermano i vizi insanabili del
concepimento del programma Prosavana e che devono essere pubblici e denunciati
dalle società mozambicana, brasiliana e giapponese». E continuano «[…] abbiamo
visto il pubblico presente [alle riunioni di consultazione] manifestare la sua
profonda preoccupazione e indignazione e ripudiare l’intenzionale
disorganizzazione, politicizzazione, esclusione, mancanza di trasparenza,
intimidazione […] e manipolazione delle riunioni di consultazione pubblica […]».
I firmatari del comunicato pertanto «esigono dalle autorità l’invalidazione e
la sospensione immediata» di Prosavana.

«In
tutto il Corridoio di Nacala, i governi locali hanno intensificato la propria
azione di intimidazione, persecuzione e minaccia nei confronti dei contadini, e
manipolazione, strumentalizzazione e cornoptazione delle autorità comunitarie
locali» ci dice Jemerias Vunjanhe, giornalista dell’Adecru. «A livello
nazionale, soprattutto a Maputo, il governo continua a simulare un’attitudine
dialogante e di apertura per una tavola di consultazioni di facciata».

Racconta
Vunjanhe che «durante la riunione di consultazione pubblica a livello
provinciale, realizzata a Nampula il 13 maggio, il governatore provinciale,
Victorio Borges e il cornordinatore di Prosavana, l’ex ministro dell’Agricoltura
Antonio Limbau e tutta la squadra del ministero, non seppero rispondere a
domande circa la base giuridico-legale di questo processo, creando così un
grande sconforto nella sala. Dopo questo incontro, e con grande ripercussione
di comunicazione a livello nazionale e internazionale, il governo, attraverso
il cornordinatore Limbau, ha rilasciato interviste con l’obiettivo di soffocare
il rifiuto di Prosavana da parte dei contadini della regione interessata e
chiudere un occhio sulle  gravi denunce
della società civile», e continua: «Limbau indurisce l’autoritarismo del
governo mozambicano e, appoggiato dai governi di Brasile e Giappone, tira
dritto per implementare il Prosavana con l’obiettivo di vedere approvato il Master
plan entro l’anno 2015, indipendentemente dalla posizione ferma dei
contadini e delle organizzazioni della società civile».

Le prossime mosse

Secondo
Vunjanhe, anche la resistenza tenderà a radicalizzarsi: «Se il governo seguiterà
in questo modo, il popolo e soprattutto i contadini, con gli alleati della
società civile nazionale e internazionale, saranno costretti a indurire la
propria resistenza contro l’occupazione e l’usurpazione delle terre da parte
dei grandi investitori di Prosavana, intensificando così gli attuali conflitti
per la terra in quella regione. Di certo il governo perderà ulteriore fiducia e
credibilità nei confronti dei suoi cittadini. Ricordiamoci che nelle ultime
elezioni presidenziali e legislative, piuttosto contestate e denunciate per
frode, l’attuale presidente Filipe Nyusi e il suo partito Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico) persero in quella regione».

Del canto suo Agostinho Bento dichiara: «Continueremo
un’advocacy di resistenza, sarà una lotta tremenda, nei confronti
dei poteri locali, da parte dei contadini che respingono il Prosavana.
Organizzeremo manifestazioni, per mostrare lo scontento su questo programma ai
tre governi coinvolti e anche alla comunità internazionale». Intanto iniziano a
verificarsi tensioni tra contadini e autorità. «In questo processo, il
ministero ha manipolato le persone, le ha usate per parlare nelle comunità, nel
tentativo di legittimare il programma a loro nome. Ma in alcuni momenti, quando
alle riunioni queste persone si alzavano dicendo di essere contadini, la gente
le smascherava dicendo che non facevano parte delle loro comunità, che erano
usati dal ministero dell’Agricoltura».

Unac
sta continuando un lavoro di sensibilizzazione e rafforzamento nelle comunità: «L’obiettivo
è coscientizzare la gente, in modo che possa dire le sue ragioni di fronte al
governo e ai poteri locali. Abbiamo argomenti per replicare. Facciamo conoscere
il programma, affinché la gente possa dire no con coscienza. Attraverso la
formazione, vogliamo rinforzare gli agricoltori, in modo che possano assumere
decisioni e proporre delle alternative». Assieme a Unac, nella campagna No
Prosavana, ci sono organizzazioni ambientaliste, di difesa dei diritti umani,
ecclesiali, di donne, ecc.

Un
grande valore aggiunto di questa lotta è il cornordinamento tra le società civili
di tre paesi così distanti, non solo geograficamente: «Lavoriamo congiuntamente
in tre popoli. Noi della Unac siamo stati in Brasile e Giappone. Stiamo dunque
cornordinandoci, realizziamo le attività in partenariato e abbiamo una strategia
comune. Quando si fa un’azione di advocacy a
livello di Mozambico, si fa anche in Brasile e Giappone. Così i tre governi
sono sotto pressione. Per esempio su quello giapponese affinché non finanzi il
programma. In Brasile chiedendo informazioni e giustificazioni. È un lavoro
arduo».

Marco
Bello

Parla monsignor Lerma


Una voce della Chiesa

Monsignor Francisco Lerma Martínez,
portoghese, è missionario della Consolata. Dal 2010 è vescovo di Gurúè, diocesi
nella provincia di Zambézia, il cui territorio rientra in pieno nel programma
Prosavana.

Il progetto Prosavana che impatto può avere sulla diocesi di Gurúè?

«Si tratta di un mega progetto (e
non è il primo in Mozambico) pensato fuori dal paese, in questo caso in
Giappone con la collaborazione diretta del Brasile. La sua finalità ultima è
favorire le ditte di questi paesi che sono quindi beneficiari finali. La
popolazione locale senz’altro avrà qualche vantaggio (forse qualche posto di
lavoro), ma nell’insieme l’operazione sarà, come negli altri casi, a favore
delle grandi multinazionali.

Il Mozambico, infatti, grazie ai
megaprogetti del carbone (Tete), del gas naturale, (Inhambane e Cabo Delgado),
dell’alluminio (Mozal a Matola) e altri ancora, nel 2014 ha avuto un Pil in
crescita del 7,4%: valore tra i più alti dell’Africa.

Ma dobbiamo chiederci: la gente
vive meglio? Abbiamo un servizio sanitario migliore? Migliori scuole? Migliori
comunicazioni? Nella mia diocesi, Gurúè, nell’Alta Zambézia, nel mese di
gennaio ci sono state grandi piogge e forti venti che hanno distrutto più di
tremila case, oltre un centinaio di scuole e 160 cappelle, diversi ponti,
causando oltre cento morti. Dopo quattro mesi stiamo ancora soffrendo le
conseguenze di questo dramma.  Ma,
nonostante il Pil, il 45% della popolazione continua a vivere in situazioni di
povertà, con redditi di un euro al giorno. Allora, ci domandiamo, chi beneficerà
di questo progetto? Senz’altro chi lo ha pensato, ideato e progettato».

Nella sua diocesi, come si sta organizzando la società civile per far
sentire la propria voce? E quali sono le associazioni più contrarie? Ce ne sono
di favorevoli?

«Nell’Alta Zambézia siamo fuori
delle normali correnti di opinioni, senza strutture, senza mezzi di
comunicazione, lontani dai centri d’influenza. Noi siamo in periferia, in una
zona geografica lontana dalla capitale provinciale, ancora isolati dalle piogge
di gennaio. La nostra popolazione ha in grande maggioranza un tasso di
analfabetismo molto elevato, non ha accesso ai mezzi di comunicazione,
giornali, riviste, Tv o altri servizi. Non abbiamo delle associazioni sindacali
o di creazione di opinione pubblica come altrove».

La chiesa del Mozambico, e in particolare nella sua diocesi, sta facendo
qualcosa, o prendendo posizioni, in merito a questo progetto governativo?

«Durante l’ultima assemblea
nazionale di Caritas, con la partecipazione dei vescovi, delegati delle Caritas
diocesane, e osservatori della società civile, è stato presentato alla
riflessione dei partecipanti il Progetto. Con la Commissione di Giustizia e
Pace siamo nella fase di raccolta di dati, di riflessione e di
coscientizzazione, come, d’altronde, abbiamo fatto per i mega progetti in altre
aree (per esempio il carbone) e stiamo facendo sulla situazione socio-politica-economica
attuale».

Marco Bello

Tags: Senza terra, land grabbing, agroindustria, società civile, ambiente

Marco Bello




Da Brescia a Torino, per l’Africa

Padre ANGELO BELLANI,
a cinquant’anni dalla morte

I missionari della Consolata
sono oggi sparsi in quattro continenti e appartengono a venti nazionalità diverse,
ma all’inizio si trattava di un piccolo gruppo di giovani tutti piemontesi che l’Allamano,
nel nome della Consolata, inviò in Africa. Il primo sacerdote non piemontese a
entrare nell’Istituto fu un giovane prete bergamasco-bresciano, Angelo Bellani (1875-1964).

Nato nel 1875 a Palosco, in provincia di Bergamo, ma nella diocesi
di Brescia, entrò in seminario nel 1891 e venne ordinato sacerdote nel 1900.
Interruppe lo studio della teologia per il servizio militare che compì alla
rocca di Anfo da febbraio 1896 a maggio 1897, dove ebbe la possibilità di
collaborare col parroco don Andrea Pelizzari a iniziare l’oratorio parrocchiale
e la banca rurale.

Negli anni di seminario maturò il desiderio
di andare missionario in Africa e durante gli esercizi spirituali in preparazione
all’ordinazione sacerdotale scrisse al suo vescovo una lettera per chiedergli
il permesso di realizzarlo. Il vescovo mons. Giacomo Coa Pellegrini gli
rispose: «Caro don Bellani, so del tuo grande desiderio di farti missionario.
S. Carlo Borromeo ai novelli sacerdoti che desideravano diventare religiosi
diceva: “Pagate alla diocesi che vi ha ordinato quattro anni di servizio
sacerdotale”. Poi sarai libero». Mandato vice parroco a Tuscolano conobbe don
Piero Grana, amico di Daniele Comboni, il grande missionario della Nigrizia. La
frequentazione di don Grana intensificò in Bellani il desiderio di partire per
l’Africa come Comboniano.

Missionario


Ecco come padre Angelo si racconta: «Iniziai
le pratiche e fui accettato dall’allora superiore generale (dei Comboniani),
padre Colombaroli. Ormai al termine della mia ferma in diocesi e quando già
avevo fatto i preparativi per raggiungere l’Istituto che consideravo “mio” fui
pregato dal superiore di rimanere ancora in aiuto del mio vescovo finché non
avesse avuto un sacerdote con cui sostituirmi. Un vero colpo per me: questo fu
il motivo per cui venni nella determinazione di non entrare più fra i
Comboniani, ma di cercare altrove la mia sistemazione. Provvidenzialmente il
mio parroco mi offerse alcuni numeri del bollettino delle Missioni Italiane edito
a Firenze dicendomi: “Prendi e leggi, ti piaceranno giacché vuoi proprio
andartene”. Nel numero 3-6 luglio-dicembre 1902 trovai descritta la fondazione
dell’Istituto della Consolata. Fu per me una rivelazione. Ebbi uno scambio di
lettere con il canonico Giuseppe Allamano».

Un padre gesuita che predicava gli esercizi
spirituali ai preti di Brescia gli disse: «Vada a Torino, il canonico Allamano è
un santo prete». L’incontro di Bellani con il fondatore fu cordialissimo e si
concluse con la sua accettazione, primo sacerdote missionario della Consolata
non piemontese. Era l’inizio dell’inteazionalità del nostro Istituto.

Prima della sua partenza per Torino, fece
una visita ad Anfo, dove il parroco stimava molto l’Allamano. Là, condividendo
la sua scelta con i giovani dell’oratorio, ne contagiò in modo speciale due,
che erano ancora bambini quando lui era militare: il quattordicenne Bortolo Liberini (1890 – 1960, sepolto in
Mozambico) che sarebbe diventato un esemplare fratello missionario della
Consolata e la tredicenne Mercede Stefani (1891 – 1930, sepolta in Kenya) che
sarebbe divenuta suora missionaria della Consolata col nome di Suor Irene e che
abbiamo visto beatificata il 23 maggio scorso.

Angelo Bellani entrò a Torino il 16 agosto
1904 e iniziò con grande impegno la sua preparazione alla vita missionaria
studiando linguistica, inglese, medicina, infermieristica, agricoltura,
falegnameria, ma anche spiritualità missionaria e scienze, secondo il metodo
pratico e concreto dell’Allamano.

In Kenya

Il 24 gennaio 1905 emise il giuramento per
cinque anni (i primi missionari si legavano all’Istituto non con una
professione religiosa a vita, ma con un contratto giurato, ndr) e il 29
gennaio partì per il Kenya, due anni e mezzo dopo i primi quattro missionari
della Consolata e là fu accolto dal superiore padre Filippo Perlo.

La sua attività missionaria si esplicitò nei
settori più diversi: fondazione di missioni, attività agricola, formazione dei
catechisti. Fu superiore alla fattoria del Mathari-Nyeri (1905-1909); fondatore
e superiore della missione di Gaturi (1910-1911); superiore della missione di
Karema (1912-1915); addetto al collegio catechisti a Mogoiri (1915-1918);
missionario nel Meru nella missione di Egoji dal 1919 al 1929.

Riferì un suo amico bresciano: «Mi disse
varie volte che egli si era prefisso un triplice ordine di lavori, mostrando
idee modeissime in materia di apostolato missionario: la fondazione di
cristianità; la formazione di catechisti e del clero indigeno che avviava ai
centri di educazione; e l’organizzazione di una autonomia economica al servizio
della missione». In tutti questi tre settori padre Bellani lasciò un segno
della sua genialità e della sua costanza.

Nel 1908 per un incidente e per un’operazione
male eseguita ebbe una gamba rovinata e irrigidita che lo costrinse a zoppicare
molto visibilmente e a cercare nel bastone un appoggio. Questo non ridusse il
suo slancio missionario. Dopo 15 anni tra i Kikuyu (1905-1919), finita la
guerra e rientrati i missionari dagli ospedali dei carriers, fu inviato
tra i Meru, nella missione di Egoji, ove spese una decina d’anni imparando la
loro lingua e scrivendone la prima grammatica, un libro di preghiere – il Ketabu
kea Akristo
– e un catechismo della dottrina cattolica, oltre a lasciare
appunti sulla cultura e le usanze di quel popolo.

Erano gli anni iniziali della presenza
cattolica tra quella popolazione e furono particolarmente duri. Al suo arrivo
nel Meru nel 1919 erano già sorte quattro missioni: Imenti ed Egoji nel 1911;
Tigania ed Eghembe nel 1913. I missionari le chiamavano «trappe», e la loro era
veramente una vita da trappisti con tanta preghiera, duro lavoro e scarsi
risultati visibili.

Egoji

Quando padre Bellani giunse a Egoji, i cristiani erano 36, quando
dieci anni dopo lasciò quella missione, i cristiani erano appena 195,
nonostante il grande lavoro compiuto. Ma quei pionieri, con la grazia di Dio,
misero le fondamenta di una cristianità che sarebbe «esplosa» alcune decine di
anni più tardi, negli anni Cinquanta. Infatti è interessante ricordare che nel
1953 sarà creata la diocesi di Meru che oggi conta 846.000 cattolici (il 31,1%
della popolazione), 60 parrocchie, 168 sacerdoti e 398 religiose, dalla quale
verranno poi staccate la Diocesi di Embu (1986) con 320.000 cattolici (il 60,5%
della popolazione), 16 parrocchie, 55 sacerdoti e 92 religiose e (1995) il
vicariato apostolico di Isiolo con 35.000 cattolici.

Rientro in Italia

Nel 1929 padre Angelo dovette lasciare
l’Africa e il suo Istituto e rientrare in diocesi, su ordine di mons. E.
Pasetto, il visitatore apostolico che in quegli anni difficili fu mandato da
Roma a controllare, ridimensionare e riqualificare l’Istituto, accusato di
essere troppo lassista nella formazione dei suoi missionari, «arruolati» in
quantità pur di avere personale a sufficienza per il numero crescente di
missioni.

Padre Bellani che tanto aveva lottato per
essere missionario, per obbedienza aveva dovuto abbandonare quel campo dove
aveva tanto lavorato e dove avrebbe voluto terminare la sua vita.

Non potendo più essere missionario al
fronte, volle continuare ad esserlo nelle retrovie. Egli chiese di lavorare
ancora per le missioni e fu nominato Direttore diocesano delle Pontificie Opere
Missionarie. In questo ufficio, come scrisse mons. Luigi Fossati «con un lavoro
tutto suo ed originale padre Bellani fece fiorire le iniziative missionarie.
Nessun missionario passava dal suo ufficio senza partire carico di aiuti per le
missioni. Il museo missionario, il laboratorio missionario, le conferenze e i circoli di studio e la raccolta di
offerte ricevettero un grande impulso. Svolse nel seminario Santo Cristo di
Brescia una assidua assistenza spirituale e coltivò le vocazioni per le
missioni. Raccolse una vasta biblioteca specializzata in etnologia,
missiologia, storia delle religioni. Curò pubblicazioni scientifiche come la
comunicazione su una delle sorgenti del Nilo, quella di Bar el Ghazal, che fece
modificare la carta geografica del ministero delle colonie; tenne conferenze
all’ateneo di Brescia e in vari convegni di studio».

Il dolore per non poter più tornare in Africa
non sminuì il suo impegno missionario ma lo trasformò in creativo dinamismo per
rendere missionaria la diocesi. Nelle parrocchie promosse innumerevoli
iniziative, curò la creazione di gruppi di collaboratori/trici che formava
spiritualmente alla missione. Il servizio di direttore spirituale in seminario
fu un’altra posizione strategica per «contagiare» il clero e promuovere le
vocazioni missionarie.

Non dimenticò mai l’Istituto della Consolata
a cui si sentiva sempre legato. Ne chiamò i membri per frequenti giornate
missionarie, inviava arredi per le chiese in Africa. Non fu estraneo alla
donazione della villa di Bedizzole che la Contessina Anna Maria Calini Carini
fece all’Istituto per erigere un noviziato internazionale, e godette nel
vederlo realizzato prima della sua morte. Il fatto che la diocesi di Brescia
conti ben 160 tra sacerdoti, fratelli e suore missionarie della Consolata è
anche frutto della missionarietà di padre Angelo.

Ritoo nell’Istituto

Gioia grande per padre Bellani fu, nel
giugno 1963, essere ufficialmente riammesso nell’Istituto che aveva tanto
amato. Scrisse al superiore generale padre Domenico Fiorina: «Il povero
sottoscritto Le serberà perpetua riconoscenza per avergli ottenuto la grazia di
tornare in pieno come missionario della Consolata». E padre Fiorina gli
rispose: «Il suo ritorno ufficiale nell’Istituto viene a premiare un amore
costante e generoso alla nostra famiglia religiosa ed alle nostre missioni».

Ecco come descrive il suo ultimo Natale,
1963: «Il Natale di quest’anno è per me tutto simile a quello indimenticabile
del 1904: lo celebrai con la sacra divisa dei missionari della Consolata, benedetta
dal Veneratissimo Fondatore; quest’anno lo passo in famiglia, professo perpetuo
dell’Istituto della Consolata. Deo Gratias».

Padre Bellani si addormentò nel Signore
nella sua abitazione di Palosco, il 16 luglio 1964, vigilia del suo 90°
compleanno. Il funerale fu imponente per la partecipazione dell’intero paese,
di numerosi confratelli e dei novizi della casa di Bedizzole con il superiore
generale, di molti sacerdoti diocesani e del vescovo Giuseppe Almici, ausiliare
di Brescia. La sua salma riposa nel
cimitero di Palosco.

Dopo la sua morte, la rivista Missioni
Consolata del settembre 1964 ne sintetizzava così il profilo: «Padre Bellani
per noi Missionari della Consolata sarà sempre una stella di prima grandezza,
un apostolo-pioniere da annoverarsi tra quei prodi dei primi tempi, che hanno
dato l’avvio al nostro movimento missionario; uno di quei pionieri di Cristo,
molto spesso ignorati o dimenticati, sul cui sacrificio sono fiorite oggi le
fiorenti cristianità dell’Africa nuova».

Mario Barbero

Tags: Bellani, Palosco, missionari, Gruppi missionari, animazione missionaria

Mario Barbero




Il Sultano del Bosforo

Ai confini dell’Europa (6): la?Turchia

Da 12 anni la Turchia è nelle mani di Erdo?an e dell’Akp, il
partito di ispirazione islamica. Sulla spinta della crescita economica del paese, il
presidente e il suo governo si sono rafforzati. In un crescendo di autoritarismo
e intolleranza.

 

 

 

«La
Turchia oramai non è più la vecchia Turchia. La nuova Turchia deve distinguersi
con qualcosa di diverso». Motivando con queste parole la costruzione della
nuova residenza presidenziale (Ak Saray, «Palazzo Bianco»), costata 500 milioni
di dollari, il presidente Recep Tayyip Erdo?an foiva una sorta di corollario
dei tredici anni al potere del «Partito della giustizia e dello sviluppo» (Akp,
di ispirazione islamica). Un potere manifestato anche attraverso i simboli, da
lasciare ai posteri quale marchio della propria «grandezza»: «Questo edificio è
una necessità per il nostro paese. (…) Il nostro obiettivo è quello di lasciare
in eredità un’opera che duri nel tempo, proprio come hanno fatto i nostri
antenati».

Dalla laicità dei
militari all’islamismo di Erdo?an

È difficile prevedere quello che diranno i posteri del
periodo di governo dell’Akp e di Erdo?an (già premier per 11 anni e oggi
presidente) la cui figura sovrasta da tempo quella del proprio partito. Restano
comunque alcuni dati di fatto: che con l’Akp la Turchia ha visto scardinare un
attore stabile della politica turca – i militari – e ha assistito ad un periodo
di prosperità economica, di fermento sociale e di visibilità in politica estera
come non era mai avvenuto dalla fondazione della repubblica. Negli ultimi anni
però l’iniziale ottimismo suscitato dai successi del governo turco ha subito
una drastica inversione di tendenza, mettendone sempre più in primo piano il
carattere autoritario e insofferente verso qualsiasi posizione critica. Un
atteggiamento favorito dall’incontrastato sostegno di una larga parte degli
elettori nei confronti di Erdo?an, che, nell’agosto del 2014, lo ha portato a diventare
il primo presidente della Turchia scelto direttamente dai cittadini (e non dal
parlamento come accadeva in precedenza). In tutto questo, negli ultimi anni è
emersa in maniera sempre più evidente l’influenza di una visione politica di
stampo islamo-sunnita, mentre la retorica religiosa, intrisa di affermazioni al
contempo moraleggianti e nazionalistiche, è stata spesso utilizzata dal governo
per ottenere maggiore credito e credibilità.

Eppure, gli uomini che nel 2001 fondarono l’Akp – tra cui
lo stesso Erdo?an e il suo predecessore Abdullah Gül – definirono da subito
l’orientamento del partito quale «conservatore democratico», smarcandosi dalla
linea intransigente dell’Islam politico turco da cui provenivano e che, nel
ventennio successivo al golpe del 1980, aveva dovuto scontrarsi con l’establishment
militare, assurto a difensore della laicità – considerato il cardine della
repubblica – pagando con crisi di governo, la chiusura di due partiti, fino ad
arrivare al golpe bianco del 1997.

Ma il successo ottenuto negli anni dall’Akp non è stato
solo frutto di questa nuova impostazione politica bensì di una combinazione di
elementi diversi. Sul fronte interno è riuscito, da un lato, a dare voce e
identità a buona parte della società turca che si riconosce in una cultura
conservatrice e che si è vista a lungo emarginata dal sistema politico
kemalista; dall’altro, grazie alla retorica sull’importanza del pluralismo,
Erdo?an ha conquistato inizialmente numerosi intellettuali liberali che hanno
riconosciuto nell’Akp la possibilità di rompere con il passato segnato dalle
repressioni del potere militare e di avviare un reale processo di
democratizzazione nel paese. A tal fine ha contribuito l’impegno assunto dal
governo islamico moderato di realizzare, a partire dalla prima legislatura, le
riforme politiche e sistemiche necessarie a far sì che la Turchia aderisse
all’Unione europea.

Crescita economica e
neoliberismo

Il tutto è coinciso con un momento di ripresa economica
del paese. Forte della sua netta maggioranza parlamentare il governo dell’Akp
ha messo in atto provvedimenti improntati su un forte neoliberismo, le cui basi
erano già state gettate dall’esecutivo precedente. Tali provvedimenti, grazie
all’unione doganale vigente da 15 anni con l’Ue e l’avvio nel 2005 dei
negoziati di adesione nel gruppo dei ventotto, hanno permesso l’ingresso di un
ingente flusso di capitali stranieri in Turchia. La crescita annua media del 5%
– toccando picchi del 9% tra il 2010 e il 2011 – la quasi decuplicazione delle
esportazioni, la triplicazione del Pil e l’aumento del reddito medio registrati
nel primo decennio di governo Akp hanno contribuito ad accrescere la fama del
suo successo economico.

Lo stretto rapporto del governo con le comunità religiose
musulmane più influenti del paese, tra cui il movimento Hizmet di Fethullah Gülen
(considerato oggi suo acerrimo nemico, come vedremo tra poco), ha reso anche
possibile l’emergere di una nuova classe imprenditoriale di stampo conservatore
organizzata in diverse associazioni tra cui la Müsiad (Associazione degli
uomini d’affari indipendenti) e la Tukson (Confederazione degli
industriali e imprenditori), che risultano particolarmente attivi nelle
principali città anatoliche dove nel tempo si è assistito in maniera sempre più
evidente a un intreccio di interessi e scambio di favori tra il mondo degli
affari e le amministrazioni locali (gestite dall’Akp), sempre sotto l’egida
dell’esecutivo.

L’emergere
dell’autoritarismo

Il consenso dell’Akp, che dal 2002 non ha mai perso
alcuna prova elettorale, anche a causa
dell’assenza di un’opposizione politica valida, è cresciuto negli anni portando
con sé anche una trasformazione nel modo di porsi del partito. Mentre la prima
legislatura è stata caratterizzata dalla ricerca da parte dell’Akp di trovare
legittimazione e riconoscimento, a partire dalla seconda – va ricordato che nel
2008 rischiò la chiusura perché accusato di essere anti-laico –  si è assistito all’acuirsi del conflitto con
i vertici dell’esercito. Dopo la vittoria politica ottenuta con la nomina di
Abdullah Gül – al tempo alleato fedele di Erdo?an (ora escluso dalla scena
politica e su posizioni più critiche verso l’attuale capo di stato) – alla
presidenza, e i maxi processi condotti contro centinaia di ufficiali
dell’esercito ed esponenti della società civile di posizioni nazionaliste –
accusati di aver ordito un colpo di stato -, i militari si sono visti
estromettere completamente dalla politica, situazione che ha consolidato
definitivamente il potere dell’Akp. Con il terzo governo Erdo?an (2011-2015) il
carattere autoritario del partito ha iniziato a emergere in maniera più
evidente.

Se la situazione creata dall’avvio di riforme politiche e
dalla crescita economica avevano permesso alla società civile di diventare
sempre più visibile e attiva, già a partire dal 2006, la nuova legge
antiterrorismo è stata utilizzata per arrestare diversi attivisti di origine
curda e della sinistra, mentre le riforme avviate sotto la spinta dei negoziati
con Bruxelles hanno subito una battuta d’arresto. Nel frattempo viene avanzata
la proposta di scrivere una nuova costituzione – in sostituzione di quella
attualmente in vigore e figlia dell’ultimo golpe militare – che negli intenti
dovrebbe accontentare tutti i settori della società. Tuttavia i quattro partiti
presenti nel parlamento – oltre all’Akp, il partito repubblicano Chp, quello
nazionalista Mhp e quello curdo Bdp – non sono riusciti a trovare un’intesa e
il progetto è stato momentaneamente accantonato. Anche le cosiddette «aperture»
del governo nel riconoscere maggiori diritti ad alcuni settori minoritari della
società come gli Aleviti – musulmani eterodossi vicini per alcuni aspetti allo
sciismo, che rappresentano una «minoranza» di circa 20 milioni di persone –
sono rimaste inconcluse perché l’esecutivo non ha voluto accogliere le
richieste avanzate. Per quanto riguarda i diritti delle donne, invece, è
prevalso un atteggiamento patealistico e patriarcale che emerge costantemente
nei discorsi dei politici. Risulta così un’immagine della donna che acquista
importanza e rispettabilità solo in quanto madre e membro della famiglia. Le
leggi promulgate negli ultimi anni per proteggerle dalla violenza maschile,
seppur in linea con gli standard inteazionali e di per sé bastevoli a
tutelarle, non vengono applicate secondo la norma anche a causa di una rete di
omertà che si estende dai politici alla magistratura fino alle forze
dell’ordine.

Proteste di piazza e
scandali insabbiati

Sul piano dei diritti dei lavoratori si è iniziato a
pagare le conseguenze di una politica di sfrenato liberismo, nel quale lo
stipendio minimo resta a tutt’oggi sui 300 Euro mensili e le misure di
sicurezza sul lavoro restano, nella maggior parte dei casi, completamente
inadeguate, come si è visto in occasione dell’incidente della miniera di Soma
in cui hanno perso la vita 301 lavoratori (13 maggio 2014). Il settore edile,
considerato il motore dello sviluppo economico del paese, è entrato senza
criterio anche nei centri storici delle città, sconvolgendo il tessuto sociale
e urbano. Non a caso, le proteste che nell’estate del 2013 hanno mobilitato in
tutto il paese, ma soprattutto a Istanbul, migliaia di persone, erano nate per
la preservazione di un parco, il Gezi Park, per poi allargarsi e diventare una
contestazione delle politiche oppressive e autoritarie di Erdo?an.

Le manifestazioni di massa di Gezi Park, del tutto
inaspettate per il governo, nonostante le critiche sulla violenza con cui sono
state sedate, hanno avuto l’effetto di accentuare il carattere autoritarista
del governo. Mentre la censura sulla stampa, da sempre presente nei media mainstream, è
diventata più pressante – oltre un centinaio di giornalisti hanno perso il
lavoro in quel periodo -, l’esecutivo ha iniziato a prendere provvedimenti per
delimitare l’ambito dei social media, che si sono dimostrati un meccanismo di
comunicazione micidiale durante le proteste, fino a bloccare, l’anno scorso,
Youtube e Twitter per alcune settimane.

La maxi operazione anti-corruzione del dicembre 2014, che
ha coinvolto quattro ministri dell’esecutivo e diversi esponenti del mondo
degli affari vicino al governo, nonché il figlio dello stesso Erdo?an,
all’epoca ancora premier, avrebbe potuto costituire un duro colpo per il leader
e i suoi uomini. La vicenda, tuttavia, si è risolta in un nulla di fatto a
livello processuale per i nomi coinvolti, mentre i magistrati e gli agenti
della polizia che avevano condotto l’operazione sono stati destituiti
dall’incarico, trasferiti se non addirittura radiati dalla professione. L’esecutivo
ha accusato un proprio vecchio alleato, Fethullah Gülen, capo di «Hizmet»,
potente movimento religioso (oltre che sociale e culturale), in esilio
volontario negli Stati Uniti, di aver ordito un complotto per rovesciarlo,
utilizzando la propria influenza sulle forze dell’ordine e la magistratura. La
vicenda, oltre a sollevare numerosi e legittimi interrogativi sull’affidabilità
di queste due istituzioni, ha anche messo in luce la lotta di potere tra gruppi
legati da una visione religiosa simile, ma con obiettivi sociali e politici
diversi. Una lotta questa che prosegue tutt’oggi e con ambiti di scontro ancora
più ampi.

Politica estera: le
scelte di Ankara

Anche in politica estera, soprattutto grazie alla
filosofia «zero problemi con i vicini» dell’attuale premier Ahmet Davuto?lu (già
ministro degli Esteri), tra il 2008 e il 2009 la Turchia ha rappresentato un
paese in ascesa. Mentre venivano aboliti i visti con diversi paesi confinanti e
si instauravano i primi contatti ufficiali con la regione autonoma curda
dell’Iraq, Ankara estendeva la propria rete diplomatica con gli stati africani.
Grazie al sostegno di questi, nel periodo 2009-2010 la Turchia è diventata
membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si riprendeva anche
il dialogo diplomatico con l’Armenia, fino ad arrivare nel 2009 alla firma di
protocolli che hanno tracciato un iter per riavviare i rapporti tra i due
paesi. Inoltre Ankara, membro della Nato dal 1952, mantenendo una posizione
equidistante dai vari attori politici regionali, si è posta come mediatrice nei
conflitti del Medioriente (tra Israele e Palestina e tra Israele e Siria),
arrivando a diventare un «modello» per diversi paesi nella regione perché
rappresentava un esempio di unione tra democrazia e Islam benedetta da un
notevole successo economico.

Questo quadro inizia tuttavia a scricchiolare nel 2011,
dopo l’inizio delle cosiddette «primavere arabe», per poi crollare. Il governo
dell’allora premier Erdo?an abbandona l’equidistanza per assumere una posizione
pro-sunnita, sostenendo i gruppi ideologicamente più vicini alla propria
posizione come i Fratelli musulmani. L’idea dell’ «Inteazionalismo della
Fratellanza», promosso dal governo Erdo?an, nelle cui intenzioni la Turchia
dovrebbe assumervi il ruolo di leader, subisce varie battute d’arresto. I
rapporti con Assad, un tempo «fratei», si deteriorano rapidamente dopo
l’inizio delle proteste, ma il governo siriano non cade, come invece auspicava
Ankara e, intanto, il presidente dell’Egitto ed esponente dei Fratelli Mohammed
Morsi, sostenuto dalla Turchia, viene destituito dall’incarico in seguito a un
golpe militare (3 luglio 2013).

Profughi e jihadisti

Mentre Ankara accoglie circa un milione di profughi
siriani, Erdo?an preme nell’arena internazionale affinché Assad venga cacciato.
Nel frattempo fornisce sostegno logistico e di armi ai gruppi che combattono
contro Damasco. Per quanto il governo turco lo neghi, diverse testimonianze e
resoconti apparsi sulla stampa locale (come il quotidiano Cumhuriyet) e
internazionale, indicano che questo aiuto sia rivolto anche ai gruppi jihadisti
salafiti come al Nusra, Ahrar al-Sham e lo Stato islamico (già Isis).

La posizione assunta dalla Turchia a Kobane, cantone
siriano a maggioranza etnica curda e de facto autonoma, è stata a riguardo
molto indicativa. Ankara, che non vuole ai propri confini un’altra regione
autonoma curda come quella irakena, ha evitato di dare appoggio ai miliziani
curdi in lotta contro lo Stato islamico, che ha tenuto sotto assedio la città
per oltre quattro mesi. Dopo aver assistito ai bombardamenti della coalizione
anti-Isis guidata dagli Stati Uniti e al rifoimento di armi da parte di
Washington ai combattenti curdi, la Turchia ha permesso in extremis il
passaggio dei peshmerga irakeni dal proprio territorio con armi pesanti,
destinati a Kobane, che hanno contribuito alla cacciata dei jihadisti dal
cantone curdo (gennaio 2015). Ora, in Yemen, la Turchia ha dichiarato di
appoggiare l’operazione militare avviata dall’Arabia Saudita contro i ribelli
sciiti, dimostrando ancora una volta che la sua visione in politica estera
tendente a sostenere il fronte sunnita non è cambiata.

Il sogno di Erdo?an

Mentre Erdo?an aspira a trasformare il sistema
parlamentare turco in uno presidenziale in cui si prospetta una pericolosa
concentrazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario nelle proprie
mani, le crepe all’interno della società turca e tra gli stessi alleati
dell’Akp tendono ad allargarsi. Con la crescita economica ferma al 3% da un
paio di anni, la disoccupazione che ha raggiunto il valore più alto degli
ultimi 5 anni e l’aumento esponenziale delle morti sul lavoro; con leggi che
accrescono il potere della polizia e dei servizi segreti, limitando
l’indipendenza della magistratura e la libertà di espressione, sembra difficile
che ai posteri restino in eredità solo i palazzi di marmo di Ak Saray.

Fazila Mat*

* Nata a Istanbul, Fazila Mat ha vissuto a lungo tra Roma e Milano. Da diversi anni è
corrispondente per la Turchia dell’Osservatorio sui Balcani e Caucaso.
Collabora come giornalista con quotidiani ed emittenti italiane e straniere. È
coautrice di #GeziPark, cornordinate
di una rivolta (Alegre Editore,
2013).

Tags: Islam, Turchia, Curdi, Minoranze, Diritti umani, Medio Oriente

Fazila Mat