Ucciso il 25 agosto 1991 nei pressi di Santa, sulle montagne di Chimbote, in Perù, da due membri di Sendero Luminoso, don Alessandro Dordi verrà proclamato Beato il 5 dicembre prossimo.
Nato il 22 gennaio 1931 a Gromo San Marino, in alta Val Seriana, missionario fidei donum della diocesi di Bergamo, prima di partire per il Perù nel 1980 era stato al servizio della diocesi di Chioggia dal 1954, anno della sua ordinazione sacerdotale, quando andò ad aiutare le popolazioni del Polesine colpite dall’alluvione, al 1965, ed era stato prete operaio e cappellano dei migranti italiani in Svizzera dal 1965 al 1979. Nonostante le minacce esplicite ricevute da parte del movimento guerrigliero, decise di rimanere in Perù. Durante l’ultimo viaggio in Italia salutò i suoi famigliari dicendo loro: «Addio, adesso torno laggiù
e mi uccideranno».
Non ho conosciuto don Sandro, ma, considerando quello che è stato raccontato su di lui e i suoi scritti, mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, prendendo l’Evangelii Gaudium di papa Francesco tra le mani, avrebbe il volto luminoso di chi trova conferma a tutte le sue scelte, di chi, con meraviglia, scopre che da sempre è stato condotto dal Signore.
Quella domenica 25 agosto 1991 don Sandro aveva un appuntamento già fissato da tempo. Un pretesto per chi lo voleva uccidere, un segno per lui, prete contento di essere prete, pur con l’imbarazzo di non sentirsi all’altezza.
È stata questione di brevissimo tempo: l’impatto terribile con la durezza del cuore, lo smarrimento davanti alle armi, il desiderio di trovare una mediazione, «Per favore, non fatelo», la voce strozzata in gola davanti ai suoi aguzzini, e poi l’abbandono fiducioso.
Il silenzio che solitamente avvolge la morte, per don Sandro è rotto dall’intensità della sua testimonianza evangelica. Ucciso lungo la strada verso la parrocchia di Santa, ancora oggi continua il suo cammino nel sangue: sì, perché qualche ora più tardi, una suora bergamasca giunta sul luogo dell’assassinio, ha raccolto un pugno di terra impastato di sangue. Oggi è la reliquia più preziosa che portiamo con noi nella fedeltà al mandato missionario.
La missione nasce dalla dinamicità della fede.
Alessandro Dordi, figlio della terra bergamasca, nato il 22 gennaio 1931, respira da subito quel senso del dovere che scaturisce dall’essenzialità dell’esperienza cristiana e dalla sobrietà della vita di montagna. È il secondogenito di una famiglia che alla fine conterà 9 figli. La profondità di spirito che viene dall’ascolto della natura lo accompagnerà sempre, nell’austera vita del seminario e della formazione, nelle esperienze del Polesine, della Svizzera e poi del Perù, sicuramente tappa, quest’ultimo, in cui esprimerà tutta la maturità della sua adesione al progetto di Dio.
La comprensione della povertà come luogo teologico diventa sempre più concreta man mano che il servizio sacerdotale gli permette di immergersi nella storia degli uomini. I contesti in cui lavora sono davvero diversi: il Polesine segnato dall’alluvione del 1951 lo vede protagonista del quotidiano, capace di un ascolto che ricompone le contrapposizioni, pellegrino nelle case della parrocchia con il «cartoccetto» della cena, pedalatore instancabile per raggiungere un infermo o condividere un dramma familiare. Lo stupore sul volto di chi lo conosce sarà, anche dopo la sua morte, una prova di tutto questo. La Svizzera ridisegna i confini del ministero di don Sandro, ma non il suo cuore che vi farà l’esperienza del lavoro in fabbrica, della condivisione dei disagi dei migranti italiani, dell’ordinarietà della cura della fede. Anche le fratture dell’io, con le paure esistenziali dei momenti di fragilità, non risparmiano il respiro di don Sandro che, grazie alla paternità del vescovo, e all’affetto fermo della mamma, trova una risposta positiva alla sua ricerca di un servizio sempre più intenso.
In Svizzera, tra i migranti italiani si colloca il discernimento che lo spinge oltre oceano. È al termine di un viaggio di ricognizione con il confratello don Sergio, oggi arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, che una mano di grazia lo aiuta a trovare casa a Santa, nella diocesi di Chimbote in Perù. Adesso la missione assume le caratteristiche dell’ad gentes, proprio il paradigma dell’azione pastorale della Chiesa.
E la storia immerge volti e racconti nel cuore del missionario.
L’amicizia sincera e fraterna con Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione, è un po’ come lo scrigno da cui don Sandro attinge per impegnarsi senza limiti nelle opere e nella pastorale, nell’intento di proporre ai suoi fedeli una predicazione concreta, calata nella storia, capace di raggiungere il cuore e la vita della gente, dei poveri soprattutto. Camilla, sua fedele collaboratrice dai tempi della Svizzera, racconterà le sue liturgie quotidiane: dapprima cariche di silenzi, poi con poche parole che riconducono il Vangelo a una famiglia, un ammalato, un disoccupato, un senza Dio, un giovane e a chi può avere più bisogno di una Parola di Grazia. La liturgia non può che diventare storia, altrimenti si riduce ad archeologia. Ed è prendendosi cura dei piccoli e degli ultimi che la liturgia realizza la dimensione profetica che le è propria, e apre gli orizzonti della speranza. Sa bene don Sandro che non si tratta di trovare qualcosa di consolatorio davanti alle fatiche della vita, qualcosa come la promessa di un contentino finale se «farai il bravo». C’è di mezzo il Regno di Dio, una cosa talmente importante da disegnare la speranza di popoli interi, da segnare per sempre il cammino di ogni vita. Questa responsabilità lo accompagna nel pellegrinaggio del ministero lasciando emergere, di volta in volta, attenzioni e gentilezze proprie di un cuore grande. Infaticabile in Polesine, presente in Svizzera, libero in Perù.
La rivoluzione del Vangelo è portatrice di pace.
Don Sandro sperimenta l’odio sulla sua pelle. Anni dopo la sua uccisione, il suo esecutore, raggiunto in carcere dal Vescovo di Chimbote, ammetterà l’odio che correva nel sangue di quel Sendero luminoso che voleva far tesoro dei poveri a proprio beneficio e sentiva di dover combattere, fino al sangue, la verità del Vangelo.
Don Sandro rimane al suo posto, nonostante le minacce, la morte dei due frati polacchi all’inizio di quel suo ultimo mese di agosto del 1991, l’aria sempre più rarefatta, le scritte sul muro di cinta che recitano: «Straniero, il Perù sarà la tua tomba».
Emerge un tratto caratteristico di don Sandro, talmente disarmante da sembrare persino infantile: il cuore libero. Pronto a partire in un baleno per il Polesine dopo pochi giorni dall’ordinazione, ancora avvolto nella festa della rugiada del sacerdozio, capace di offrire agli emigrati italiani in Svizzera una disponibilità di attesa e fiducia, convinto di rimanere accanto al suo popolo peruviano con il sudore di sangue che solo la paura può generare ma che si terge con la fedeltà alla propria vocazione. L’obbedienza è per lui «croce e delizia»: un abbandonarsi alla fedeltà di Dio, un ritrovarsi inspiegabilmente protagonista di una storia più grande di quanto credesse. È il suo un protagonismo «umile», alla ricerca di quelle ragioni che appartengono al cuore e alle quali è impossibile ogni imposizione. Per questo il suo rapporto con i vescovi è sempre onesto, schietto, libero, persino «disobbediente» nella passione per la ricerca, quando si tratta di partire per il Perù. «Per essere utili a se stessi e agli altri – scrive a un amico – occorre avere dentro delle giuste motivazioni». E il suo cuore è capace di tanto che il Vescovo non ha timore di accompagnarlo con la sua benedizione.
Il missionario è una vita che annuncia.
Non ci piove, occorre buttarsi dentro a capofitto. «Per essere missionari – scrive in una lettera del 2 febbraio del 1982 – occorre essere umili, per questo si parla di scambio e servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa di più. Deve scomparire ciò che è proprio dell’italiano, dello spagnolo, del francese e dell’americano, per diventare solo membri del popolo che si serve… Noi missionari dobbiamo imparare a controllarci, a non fare confronti, a mostrare anche nelle critiche un grande amore per il popolo».
Segnato dalla vocazione missionaria, don Sandro chiede da subito di lasciare spazio a questo spirito universale negli anni degli studi teologici, quando nel 1952 viene accolto nel seminario del «Paradiso», la comunità sacerdotale missionaria nata nel 1949 dal cuore immenso di don Fortunato Benzoni e dalla sapiente profezia del vescovo Adriano Beareggi, presenza qualificante nella Chiesa di Bergamo. Preti «votati» alla missione a 360°, a servizio delle diocesi più povere di sacerdoti, presenti nei luoghi di migrazione, promotori della nuova evangelizzazione.
L’ordinazione, che avviene il 12 giugno del 1954 per don Sandro e per altri 26 giovani, tra i quali altri quattro, oltre a lui, della Comunità Missionaria del Paradiso, sigilla tutto questo anche grazie alle parole generose che il vescovo Giuseppe Piazzi consegna loro: «Il sacerdozio è il compimento dell’opera redentrice del Cristo, la quale si è operata sulla Croce… Il sacerdote che vuole fare del bene… che vuole convertire a Cristo… deve voler mettersi vicino alla Croce di Gesù, anzi salirvi sopra col suo sacrificio e con la sua sofferenza».
«È un martire», dice il vescovo Giulio Oggioni la mattina del 26 agosto 1991, giorno solenne per la Chiesa di Bergamo per il ricordo liturgico del suo patrono S. Alessandro, all’inizio della celebrazione di quel giorno, aggiungendo poi, il 1° settembre, nel momento in cui la salma di don Sandro viene adagiata davanti all’altare della cattedrale: «Don Sandro, sei tornato nella cattedrale dove hai ricevuto il ministero pastorale. Sei tornato quasi per dirci che come la chiesa cattedrale è la matrice di tutte le chiese diocesane, così essa è la matrice di tutto il nostro ministero in qualsiasi luogo lo si eserciti. Sei partito da qui, hai esercitato il tuo ministero in Italia e in Svizzera e ultimamente a Santa, in Perù, sempre però come presbitero della tua diocesi. Ho detto spesso che i presbiteri diocesani devono vedere nei loro missionari l’espressione più eccellente della loro missionarietà e tu, ora, sei tornato per dircelo non a parole, ma coi fatti. I due colpi mortali che ti hanno colpito al cuore e alla testa sono la testimonianza di amore e di fede, sono un insegnamento che difficilmente si cancellerà nel nostro cuore e nel nostro intelletto. Per questo sarai per noi una immagine e un modello di come si è ministri e servitori dei fratelli».
Oggi la Chiesa ci riconsegna don Sandro Beato: un uomo, un prete, un missionario, un martire, un impasto di testimonianza di fede, un invito. Sì, proprio l’invito rivolto a ciascuno di essere discepoli missionari, perché il seme dei martiri è fecondità di vita nuova, è la gioia del Vangelo, appunto un Vangelo di gioia.
don Giambattista Boffi
direttore del Cmd di Bergamo
Giambattista Boffi