Il Sultano del Bosforo
Da 12 anni la Turchia è nelle mani di Erdo?an e dell’Akp, il
partito di ispirazione islamica. Sulla spinta della crescita economica del paese, il
presidente e il suo governo si sono rafforzati. In un crescendo di autoritarismo
e intolleranza.
«La
Turchia oramai non è più la vecchia Turchia. La nuova Turchia deve distinguersi
con qualcosa di diverso». Motivando con queste parole la costruzione della
nuova residenza presidenziale (Ak Saray, «Palazzo Bianco»), costata 500 milioni
di dollari, il presidente Recep Tayyip Erdo?an foiva una sorta di corollario
dei tredici anni al potere del «Partito della giustizia e dello sviluppo» (Akp,
di ispirazione islamica). Un potere manifestato anche attraverso i simboli, da
lasciare ai posteri quale marchio della propria «grandezza»: «Questo edificio è
una necessità per il nostro paese. (…) Il nostro obiettivo è quello di lasciare
in eredità un’opera che duri nel tempo, proprio come hanno fatto i nostri
antenati».
Dalla laicità dei
militari all’islamismo di Erdo?an
È difficile prevedere quello che diranno i posteri del
periodo di governo dell’Akp e di Erdo?an (già premier per 11 anni e oggi
presidente) la cui figura sovrasta da tempo quella del proprio partito. Restano
comunque alcuni dati di fatto: che con l’Akp la Turchia ha visto scardinare un
attore stabile della politica turca – i militari – e ha assistito ad un periodo
di prosperità economica, di fermento sociale e di visibilità in politica estera
come non era mai avvenuto dalla fondazione della repubblica. Negli ultimi anni
però l’iniziale ottimismo suscitato dai successi del governo turco ha subito
una drastica inversione di tendenza, mettendone sempre più in primo piano il
carattere autoritario e insofferente verso qualsiasi posizione critica. Un
atteggiamento favorito dall’incontrastato sostegno di una larga parte degli
elettori nei confronti di Erdo?an, che, nell’agosto del 2014, lo ha portato a diventare
il primo presidente della Turchia scelto direttamente dai cittadini (e non dal
parlamento come accadeva in precedenza). In tutto questo, negli ultimi anni è
emersa in maniera sempre più evidente l’influenza di una visione politica di
stampo islamo-sunnita, mentre la retorica religiosa, intrisa di affermazioni al
contempo moraleggianti e nazionalistiche, è stata spesso utilizzata dal governo
per ottenere maggiore credito e credibilità.
Eppure, gli uomini che nel 2001 fondarono l’Akp – tra cui
lo stesso Erdo?an e il suo predecessore Abdullah Gül – definirono da subito
l’orientamento del partito quale «conservatore democratico», smarcandosi dalla
linea intransigente dell’Islam politico turco da cui provenivano e che, nel
ventennio successivo al golpe del 1980, aveva dovuto scontrarsi con l’establishment
militare, assurto a difensore della laicità – considerato il cardine della
repubblica – pagando con crisi di governo, la chiusura di due partiti, fino ad
arrivare al golpe bianco del 1997.
Ma il successo ottenuto negli anni dall’Akp non è stato
solo frutto di questa nuova impostazione politica bensì di una combinazione di
elementi diversi. Sul fronte interno è riuscito, da un lato, a dare voce e
identità a buona parte della società turca che si riconosce in una cultura
conservatrice e che si è vista a lungo emarginata dal sistema politico
kemalista; dall’altro, grazie alla retorica sull’importanza del pluralismo,
Erdo?an ha conquistato inizialmente numerosi intellettuali liberali che hanno
riconosciuto nell’Akp la possibilità di rompere con il passato segnato dalle
repressioni del potere militare e di avviare un reale processo di
democratizzazione nel paese. A tal fine ha contribuito l’impegno assunto dal
governo islamico moderato di realizzare, a partire dalla prima legislatura, le
riforme politiche e sistemiche necessarie a far sì che la Turchia aderisse
all’Unione europea.
Crescita economica e
neoliberismo
Il tutto è coinciso con un momento di ripresa economica
del paese. Forte della sua netta maggioranza parlamentare il governo dell’Akp
ha messo in atto provvedimenti improntati su un forte neoliberismo, le cui basi
erano già state gettate dall’esecutivo precedente. Tali provvedimenti, grazie
all’unione doganale vigente da 15 anni con l’Ue e l’avvio nel 2005 dei
negoziati di adesione nel gruppo dei ventotto, hanno permesso l’ingresso di un
ingente flusso di capitali stranieri in Turchia. La crescita annua media del 5%
– toccando picchi del 9% tra il 2010 e il 2011 – la quasi decuplicazione delle
esportazioni, la triplicazione del Pil e l’aumento del reddito medio registrati
nel primo decennio di governo Akp hanno contribuito ad accrescere la fama del
suo successo economico.
Lo stretto rapporto del governo con le comunità religiose
musulmane più influenti del paese, tra cui il movimento Hizmet di Fethullah Gülen
(considerato oggi suo acerrimo nemico, come vedremo tra poco), ha reso anche
possibile l’emergere di una nuova classe imprenditoriale di stampo conservatore
organizzata in diverse associazioni tra cui la Müsiad (Associazione degli
uomini d’affari indipendenti) e la Tukson (Confederazione degli
industriali e imprenditori), che risultano particolarmente attivi nelle
principali città anatoliche dove nel tempo si è assistito in maniera sempre più
evidente a un intreccio di interessi e scambio di favori tra il mondo degli
affari e le amministrazioni locali (gestite dall’Akp), sempre sotto l’egida
dell’esecutivo.
L’emergere
dell’autoritarismo
Il consenso dell’Akp, che dal 2002 non ha mai perso
alcuna prova elettorale, anche a causa
dell’assenza di un’opposizione politica valida, è cresciuto negli anni portando
con sé anche una trasformazione nel modo di porsi del partito. Mentre la prima
legislatura è stata caratterizzata dalla ricerca da parte dell’Akp di trovare
legittimazione e riconoscimento, a partire dalla seconda – va ricordato che nel
2008 rischiò la chiusura perché accusato di essere anti-laico – si è assistito all’acuirsi del conflitto con
i vertici dell’esercito. Dopo la vittoria politica ottenuta con la nomina di
Abdullah Gül – al tempo alleato fedele di Erdo?an (ora escluso dalla scena
politica e su posizioni più critiche verso l’attuale capo di stato) – alla
presidenza, e i maxi processi condotti contro centinaia di ufficiali
dell’esercito ed esponenti della società civile di posizioni nazionaliste –
accusati di aver ordito un colpo di stato -, i militari si sono visti
estromettere completamente dalla politica, situazione che ha consolidato
definitivamente il potere dell’Akp. Con il terzo governo Erdo?an (2011-2015) il
carattere autoritario del partito ha iniziato a emergere in maniera più
evidente.
Se la situazione creata dall’avvio di riforme politiche e
dalla crescita economica avevano permesso alla società civile di diventare
sempre più visibile e attiva, già a partire dal 2006, la nuova legge
antiterrorismo è stata utilizzata per arrestare diversi attivisti di origine
curda e della sinistra, mentre le riforme avviate sotto la spinta dei negoziati
con Bruxelles hanno subito una battuta d’arresto. Nel frattempo viene avanzata
la proposta di scrivere una nuova costituzione – in sostituzione di quella
attualmente in vigore e figlia dell’ultimo golpe militare – che negli intenti
dovrebbe accontentare tutti i settori della società. Tuttavia i quattro partiti
presenti nel parlamento – oltre all’Akp, il partito repubblicano Chp, quello
nazionalista Mhp e quello curdo Bdp – non sono riusciti a trovare un’intesa e
il progetto è stato momentaneamente accantonato. Anche le cosiddette «aperture»
del governo nel riconoscere maggiori diritti ad alcuni settori minoritari della
società come gli Aleviti – musulmani eterodossi vicini per alcuni aspetti allo
sciismo, che rappresentano una «minoranza» di circa 20 milioni di persone –
sono rimaste inconcluse perché l’esecutivo non ha voluto accogliere le
richieste avanzate. Per quanto riguarda i diritti delle donne, invece, è
prevalso un atteggiamento patealistico e patriarcale che emerge costantemente
nei discorsi dei politici. Risulta così un’immagine della donna che acquista
importanza e rispettabilità solo in quanto madre e membro della famiglia. Le
leggi promulgate negli ultimi anni per proteggerle dalla violenza maschile,
seppur in linea con gli standard inteazionali e di per sé bastevoli a
tutelarle, non vengono applicate secondo la norma anche a causa di una rete di
omertà che si estende dai politici alla magistratura fino alle forze
dell’ordine.
Proteste di piazza e
scandali insabbiati
Sul piano dei diritti dei lavoratori si è iniziato a
pagare le conseguenze di una politica di sfrenato liberismo, nel quale lo
stipendio minimo resta a tutt’oggi sui 300 Euro mensili e le misure di
sicurezza sul lavoro restano, nella maggior parte dei casi, completamente
inadeguate, come si è visto in occasione dell’incidente della miniera di Soma
in cui hanno perso la vita 301 lavoratori (13 maggio 2014). Il settore edile,
considerato il motore dello sviluppo economico del paese, è entrato senza
criterio anche nei centri storici delle città, sconvolgendo il tessuto sociale
e urbano. Non a caso, le proteste che nell’estate del 2013 hanno mobilitato in
tutto il paese, ma soprattutto a Istanbul, migliaia di persone, erano nate per
la preservazione di un parco, il Gezi Park, per poi allargarsi e diventare una
contestazione delle politiche oppressive e autoritarie di Erdo?an.
Le manifestazioni di massa di Gezi Park, del tutto
inaspettate per il governo, nonostante le critiche sulla violenza con cui sono
state sedate, hanno avuto l’effetto di accentuare il carattere autoritarista
del governo. Mentre la censura sulla stampa, da sempre presente nei media mainstream, è
diventata più pressante – oltre un centinaio di giornalisti hanno perso il
lavoro in quel periodo -, l’esecutivo ha iniziato a prendere provvedimenti per
delimitare l’ambito dei social media, che si sono dimostrati un meccanismo di
comunicazione micidiale durante le proteste, fino a bloccare, l’anno scorso,
Youtube e Twitter per alcune settimane.
La maxi operazione anti-corruzione del dicembre 2014, che
ha coinvolto quattro ministri dell’esecutivo e diversi esponenti del mondo
degli affari vicino al governo, nonché il figlio dello stesso Erdo?an,
all’epoca ancora premier, avrebbe potuto costituire un duro colpo per il leader
e i suoi uomini. La vicenda, tuttavia, si è risolta in un nulla di fatto a
livello processuale per i nomi coinvolti, mentre i magistrati e gli agenti
della polizia che avevano condotto l’operazione sono stati destituiti
dall’incarico, trasferiti se non addirittura radiati dalla professione. L’esecutivo
ha accusato un proprio vecchio alleato, Fethullah Gülen, capo di «Hizmet»,
potente movimento religioso (oltre che sociale e culturale), in esilio
volontario negli Stati Uniti, di aver ordito un complotto per rovesciarlo,
utilizzando la propria influenza sulle forze dell’ordine e la magistratura. La
vicenda, oltre a sollevare numerosi e legittimi interrogativi sull’affidabilità
di queste due istituzioni, ha anche messo in luce la lotta di potere tra gruppi
legati da una visione religiosa simile, ma con obiettivi sociali e politici
diversi. Una lotta questa che prosegue tutt’oggi e con ambiti di scontro ancora
più ampi.
Politica estera: le
scelte di Ankara
Anche in politica estera, soprattutto grazie alla
filosofia «zero problemi con i vicini» dell’attuale premier Ahmet Davuto?lu (già
ministro degli Esteri), tra il 2008 e il 2009 la Turchia ha rappresentato un
paese in ascesa. Mentre venivano aboliti i visti con diversi paesi confinanti e
si instauravano i primi contatti ufficiali con la regione autonoma curda
dell’Iraq, Ankara estendeva la propria rete diplomatica con gli stati africani.
Grazie al sostegno di questi, nel periodo 2009-2010 la Turchia è diventata
membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si riprendeva anche
il dialogo diplomatico con l’Armenia, fino ad arrivare nel 2009 alla firma di
protocolli che hanno tracciato un iter per riavviare i rapporti tra i due
paesi. Inoltre Ankara, membro della Nato dal 1952, mantenendo una posizione
equidistante dai vari attori politici regionali, si è posta come mediatrice nei
conflitti del Medioriente (tra Israele e Palestina e tra Israele e Siria),
arrivando a diventare un «modello» per diversi paesi nella regione perché
rappresentava un esempio di unione tra democrazia e Islam benedetta da un
notevole successo economico.
Questo quadro inizia tuttavia a scricchiolare nel 2011,
dopo l’inizio delle cosiddette «primavere arabe», per poi crollare. Il governo
dell’allora premier Erdo?an abbandona l’equidistanza per assumere una posizione
pro-sunnita, sostenendo i gruppi ideologicamente più vicini alla propria
posizione come i Fratelli musulmani. L’idea dell’ «Inteazionalismo della
Fratellanza», promosso dal governo Erdo?an, nelle cui intenzioni la Turchia
dovrebbe assumervi il ruolo di leader, subisce varie battute d’arresto. I
rapporti con Assad, un tempo «fratei», si deteriorano rapidamente dopo
l’inizio delle proteste, ma il governo siriano non cade, come invece auspicava
Ankara e, intanto, il presidente dell’Egitto ed esponente dei Fratelli Mohammed
Morsi, sostenuto dalla Turchia, viene destituito dall’incarico in seguito a un
golpe militare (3 luglio 2013).
Mentre Ankara accoglie circa un milione di profughi
siriani, Erdo?an preme nell’arena internazionale affinché Assad venga cacciato.
Nel frattempo fornisce sostegno logistico e di armi ai gruppi che combattono
contro Damasco. Per quanto il governo turco lo neghi, diverse testimonianze e
resoconti apparsi sulla stampa locale (come il quotidiano Cumhuriyet) e
internazionale, indicano che questo aiuto sia rivolto anche ai gruppi jihadisti
salafiti come al Nusra, Ahrar al-Sham e lo Stato islamico (già Isis).
La posizione assunta dalla Turchia a Kobane, cantone
siriano a maggioranza etnica curda e de facto autonoma, è stata a riguardo
molto indicativa. Ankara, che non vuole ai propri confini un’altra regione
autonoma curda come quella irakena, ha evitato di dare appoggio ai miliziani
curdi in lotta contro lo Stato islamico, che ha tenuto sotto assedio la città
per oltre quattro mesi. Dopo aver assistito ai bombardamenti della coalizione
anti-Isis guidata dagli Stati Uniti e al rifoimento di armi da parte di
Washington ai combattenti curdi, la Turchia ha permesso in extremis il
passaggio dei peshmerga irakeni dal proprio territorio con armi pesanti,
destinati a Kobane, che hanno contribuito alla cacciata dei jihadisti dal
cantone curdo (gennaio 2015). Ora, in Yemen, la Turchia ha dichiarato di
appoggiare l’operazione militare avviata dall’Arabia Saudita contro i ribelli
sciiti, dimostrando ancora una volta che la sua visione in politica estera
tendente a sostenere il fronte sunnita non è cambiata.
Mentre Erdo?an aspira a trasformare il sistema
parlamentare turco in uno presidenziale in cui si prospetta una pericolosa
concentrazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario nelle proprie
mani, le crepe all’interno della società turca e tra gli stessi alleati
dell’Akp tendono ad allargarsi. Con la crescita economica ferma al 3% da un
paio di anni, la disoccupazione che ha raggiunto il valore più alto degli
ultimi 5 anni e l’aumento esponenziale delle morti sul lavoro; con leggi che
accrescono il potere della polizia e dei servizi segreti, limitando
l’indipendenza della magistratura e la libertà di espressione, sembra difficile
che ai posteri restino in eredità solo i palazzi di marmo di Ak Saray.
* Nata a Istanbul, Fazila Mat ha vissuto a lungo tra Roma e Milano. Da diversi anni è
corrispondente per la Turchia dell’Osservatorio sui Balcani e Caucaso.
Collabora come giornalista con quotidiani ed emittenti italiane e straniere. È
coautrice di #GeziPark, cornordinate
di una rivolta (Alegre Editore,
2013).
Tags: Islam, Turchia, Curdi, Minoranze, Diritti umani, Medio Oriente
Fazila Mat