Dopo gli anni
Settanta e Ottanta in cui «cornoperare» significava fondi a pioggia e tanto
mattone, il mondo missionario ha vissuto – come tutta la cooperazione – una
sorta di panico da «cattedrale nel deserto», che ha tentato di superare con un
metodo di lavoro diverso capace di mettere al centro le comunità locali e la
loro capacità di trovare soluzioni. E i termini empowerment, capacity building, local ownership* sono diventati
protagonisti dei dibattiti e dei progetti. Ma i risultati non sempre sono
arrivati.
«Nel nostro quartiere, dove il 43 per cento della popolazione non va a
scuola, un progetto di formazione sarebbe anche utile. Per le ragazze che hanno
frequentato la scuola possiamo ipotizzare una specializzazione
nell’informatica, perché anche quelle che lavorano nel commerciale non vedono
mai un computer, fatta eccezione per quelle che hanno frequentato qualche
scuola seria, che però è verso il centro città (e non è accessibile a tutte);
molte a scuola si sono formate usando due o tre macchine da scrivere per
classe. Per le ragazze che hanno lasciato gli studi o non sono andate a scuola,
proporrei dei corsi di alfabetizzazione: è quello che già facciamo in piccolo
in parrocchia. Ma non basta fare studiare le persone: bisogna chiedersi quali
sono poi le effettive opportunità di lavoro. Altrimenti specializziamo la
disoccupazione».
Così padre Santino Zanchetta, missionario della
Consolata, riassume la situazione del quartiere di Saint Hilaire a Kinshasa,
Repubblica Democratica del Congo, nel quale da oltre vent’anni vive e lavora. Specializzare la disoccupazione: può sembrare una battuta, ma è anche un’istantanea
della situazione nella quale molti missionari si trovano a lavorare. Contesti
che, pur non mancando una scuola o un pozzo o un dispensario – quelli magari ci
sono e funzionano -, sono inseriti in un ambiente sociale e soprattutto
economico che non cambia, o cambia lentissimamente e non offre opportunità
diverse dal semplice sopravvivere giorno per giorno.
Così, formare un gruppo di donne in attività di
sartoria, inserendo nel corso anche sessioni di formazione igienico-sanitaria e
di gestione di micro-attività imprenditoriali, è indubbiamente un’iniziativa
che ha un’utilità a prescindere, ma si scontra con fenomeni più ampi su cui la
comunità locale non ha controllo.
«Le donne erano fortemente interessate a partecipare»,
spiega Suor Darlene Lima, delle Suore catechiste francescane, responsabile di
un corso di taglio e cucito a Boroma (Tete, Mozambico), «ma non è stato
semplice mantenere sempre alta la motivazione. Quando è il tempo della semina
nella machamba, il campo, molte donne saltano le lezioni per dedicarsi
alla terra, perché la fonte principale di sostentamento rimane l’agricoltura».
Insieme alle beneficiarie, suor Darlene e le animatrici hanno trovato una
soluzione dividendo le donne in due gruppi in modo che, a tuo, uno potesse
occuparsi della machamba e l’altro frequentare i corsi. Il corso era
stato concepito per consentire a queste donne di avviare poi attività
generatrici di reddito in ambito sartoriale per integrare i magri proventi che
l’agricoltura permette. Gli accordi presi con le scuole locali per l’acquisto
delle uniformi confezionate dalle corsiste hanno permesso alle donne di vedere
i risultati del loro sforzo. Ma le difficoltà non sono venute meno.
«Il prezzo di mercato di un’uniforme cucita dalle donne
del corso non sempre riesce a competere con quello delle uniformi importate già
disponibili sul mercato, spesso di fabbricazione cinese». Lo stesso vale per
gli abiti comuni: i mercati africani sono invasi di indumenti di seconda mano
arrivati dall’Europa e Stati Uniti e venduti a cifre tutto sommato accessibili
anche per il potere d’acquisto locale.
Anche in una realtà con un’economia più reattiva, com’è
il Kenya, è necessario a volte aggiustare il tiro: «Negli ultimi anni c’è stato
un cambio sostanziale nella formazione che il nostro istituto tecnico propone»,
spiega suor Rosa Waeni, una missionaria della Consolata direttrice della Irene
Technical Training Institute di Maralal nella Samburu County dove si
è appena concluso un intervento finanziato dalla Conferenza episcopale
italiana, «perché i corsi di sartoria hanno sempre meno richiesta, mentre
moltissimi studenti si avvicinano alla nostra scuola attirati dalla possibilità
di specializzarsi in informatica o elettronica, le materie che danno loro un più
immediato accesso al mondo del lavoro di oggi in Kenya. Meglio allora
potenziare questi due corsi attrezzando i relativi laboratori».
Le comunità locali
alla prova della globalizzazione
In paesi come il Mozambico, in piena espansione
economica, l’esigenza che le comunità manifestano è quella di poter beneficiare
delle nuove opportunità economiche, locali o straniere che siano. Basta passare
la mattina presto nei pressi del ponte sullo Zambesi, a Tete, per vedere
schiere di operai mozambicani in tuta e casco in attesa del bus che li porterà
al lavoro nelle miniere della multinazionale brasiliana Vale (vincitrice nel
2012 dell’Oscar della vergogna – «Public Eye award» – come compagnia più
inquinatrice del mondo). Cambiando paese, basta guidare verso Nord Est sulla
Thika Road fra Thika e Sagana, in Kenya, e osservare le distese di ananas che,
a perdita d’occhio, si allungano sul lato destro della strada nella fattoria
Del Monte, o le palme da olio che hanno letteralmente invaso i campi nella zona
di Maria La Baja e Cordoba, sulla costa caraibica colombiana. Queste opportunità
economiche portano posti di lavoro ma anche salari bassi, rischi per la salute
dei lavoratori, abuso delle risorse naturali – acqua, suoli, foreste – e
conflitti legati ad esempio all’accaparramento delle terre (land grabbing, vedi articolo pag. 29) e alla distruzione della biodiversità.
È con questi fenomeni che si deve misurare oggi chi
lavora nello sviluppo. E anche quando se ne è consapevoli e si interviene con
l’intenzione di limitae gli aspetti dannosi, di estendere l’accesso a servizi
di base o di creare alternative economiche eque e sostenibili, il successo è
tutt’altro che garantito. Ne è un esempio il progetto Maji Matone (Gocce
d’acqua), realizzato da una Ong tanzaniana, Daraja (il Ponte), che ne
spiega il fallimento sul proprio blog in un articolo dal titolo «Maji Matone
non ha dato risultati. È tempo di accettare il fallimento, imparare e andare
avanti». Il progetto, concentrato su un distretto della Tanzania meridionale,
mirava a creare un sistema che foisse informazioni ai cittadini sui problemi
di approvvigionamento idrico rurale, permettesse loro di segnalare via sms i
guasti ai punti di distribuzione dell’acqua e inoltrasse le informazioni alle
autorità competenti perché potessero provvedere alle riparazioni. C’era poi un
accordo con i media locali perché dessero visibilità ai problemi segnalati in
modo da fare pressione mediatica sulle autorità per accelerae la reazione. «Perché
abbiamo fallito?», si chiedono i responsabili di Daraja. «Beh, non
abbiamo ancora raggiunto una conclusione definitiva, ma ci siamo fatti un’idea.
Motivare le persone ad agire è difficile, soprattutto quando si promette un
beneficio lontano nel tempo e poco chiaro. Forse avremmo potuto lavorare di più
sulla promozione del progetto, ma concentrandoci sulle aree rurali implica
avere a che fare con gruppi di persone più povere, meno istruite e meno
politicamente impegnate delle loro controparti che vivono nelle aree urbane. Può
esserci anche una questione di genere: nelle zone rurali della Tanzania sono le
donne a occuparsi della raccolta dell’acqua; ma hanno davvero sufficiente
accesso ai telefoni cellulari?». Nei casi in cui la segnalazione del guasto c’è
stata, le riparazioni sono effettivamente avvenute nel quaranta per cento dei
casi; ma mentre Daraja aveva ipotizzato il coinvolgimento di circa
tremila persone, di fatto sono arrivati solo 53 sms.
Per cominciare, continua l’auto-analisi di Daraja, ci siamo
concentrati troppo sugli aspetti tecnologici hi-tech del come scegliere
la piattaforma informatica adeguata per canalizzare tutte le informazioni da
condividere, e troppo poco sui problemi low-tech, cioè sul fatto che
nelle aree rurali il tasso di analfabetismo, la difficoltà ad accedere alla
rete cellulare, la mancanza di elettricità per caricare il telefonino sarebbero
stati ostacoli molto più seri. Inoltre non abbiamo affrontato in modo adeguato
le conseguenze della divisione delle responsabilità stabilita dalle istituzioni
per la gestione dell’acqua: riparare le fonti, stabilisce il ministero
tanzaniano dell’acqua, è responsabilità delle comunità locali. Questo, insieme
a una generalizzata mancanza di fiducia da parte dei cittadini nell’operato delle
autorità pubbliche, ha probabilmente portato la maggioranza dei beneficiari a
pensare che non valeva la pena mandare un sms, tanto non sarebbe servito a
nulla.
Ammettere i
fallimenti
A raccogliere esperienze simili a quella di Daraja
c’è Admitting Failure (Ammettere il fallimento), un sito lanciato dalla
sezione canadese di «Ingegneri Senza Frontiere» dove cooperanti appartenenti a
diverse organizzazioni raccontano la loro esperienza di progetti che non hanno
funzionato. Si trovano storie come quella del volontario dei Peace Corps
che in Benin avvia con quattro donne una piccola produzione di pane: 100
dollari procurati dal cornoperante e 20 da loro sono il capitale iniziale per
comprare il materiale di base. Tutto funziona molto bene, i soldi entrano: su richiesta
delle donne stesse è lui a gestire la cassa. Ma a un certo punto il volontario
decide che è il momento di cedere responsabilità alle donne, cassa compresa, e
di continuare ad affiancarle solo come supervisore della contabilità. È allora
che le donne si dividono i fondi in cassa e smettono di fare il pane, restando
senza risorse per continuare.
«Il motivo del fallimento», spiega l’operatore, «è che
avrei dovuto essere più paziente, aspettando che le donne fossero in grado di
mettere oltre il 75% del proprio capitale nel progetto; avremmo anche dovuto
iniziare con più fondi, 300 invece di 120 dollari. In questo modo, le donne
avrebbero potuto comprare subito tutto il materiale necessario e cominciare a
pagarsi invece di vedere i soldi accumularsi per i successivi acquisti di
attrezzature. Il capitale sarebbe stato in beni non liquidi, loro avrebbero
sviluppato un maggior attaccamento al progetto e non avrebbero avuto contanti
che non sapevano dove conservare senza che mariti e figli li vedessero e li chiedessero».
L’unico vero fallimento «cattivo» è quello che si ripete,
conclude Admitting Failure. E il britannico Overseas Development
Institute (Odi), che è entrato nel dibattito sugli «Obiettivi Sostenibili
del Millennio» con uno studio dal titolo Adattare lo sviluppo, sembra
essere d’accordo: «Non bisogna aver paura di provare, fallire e riprovare», si
legge nel documento. Secondo l’Odi, che si rivolge ai governi, a chi fa le
riforme nei paesi in via di sviluppo, ai donatori inteazionali e alle Ong, i
fallimenti sono spesso dovuti al fatto che ci si concentra più su modelli
ideali che sui problemi concreti. Ad esempio, l’Uganda ha ottime leggi su
gestione dei fondi pubblici e lotta alla corruzione ma poi, nella pratica, le
leggi sono applicate pochissimo. Bisogna allora chiedersi prima di tutto che
cosa è fattibile e che cosa no in contesti politici difficili come quelli dei
paesi in via di sviluppo e sostenere i cambiamenti che nascono dentro questi
contesti per iniziativa dei diretti interessati: politici, società civile,
comunità e imprese locali.
Una tesi non dissimile era emersa chiaramente anche al
convegno «Africa, continente in cammino», organizzato dai missionari e
missionarie Comboniani nel marzo scorso: «Deve essere l’Africa a salvare
l’Africa», si era detto in quell’occasione. Il ruolo di chi fa sviluppo – non
solo in Africa – è quello di favorire, non dirigere (o peggio, ostacolare), il
cambiamento.
Chiara Giovetti
Chiara Giovetti