L’Incontro (Nohimayou) – 4 problemi e commenti
Opinioni degli amici
Sommario
Vai alla Prima parte
Introduzione di Stefano Camerlengo | Presentazione di Paolo Moiola | I TESTIMONI: Testimonianza di Giuglielmo Damioli | La voce di Corrado Dalmonego
Vai alla Seconda parte: I Testimoni
Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini
Vai alla Terza parte: SCHEDE
Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami
In questa Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO
- La parola agli Yanomami
- Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria
- Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo
- Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
La parola agli Yanomami
Testimonianza di K. YANOMAMI
(morto in marzo 2014, a circa 75 anni). Stralcio della deposizione raccolta e registrata, a gennaio 2013, presso la comunità di Waroma (regione Missione Catrimani).
«Ci presero con loro» «[Poco dopo la fondazione della Missione Catrimani] padre Giovanni Calleri disse proprio così: “Voi, altri bianchi, non dovete più venire qui, non dovete risalire il fiume. No! Io ho già preso sotto la mia protezione gli Yanomami”. […]
Che cosa passava per la testa dei padri, quando sono arrivati? Padre Calleri diceva così: “Molto bene, io sono venuto a cercarvi, per prender con me voi Yanomami”. […]
I padri hanno preso con sé noi Yanomami, perciò hanno detto: “È bene che vi prendiamo con noi […]: noi vi cureremo, vi difenderemo dai garimpeiros, quando questi arriveranno per stabilirsi”. Così, quando hanno iniziato a costruire la strada [BR 210] loro sono rimasti qui».
Testimonianza di ALEXANDRE?YANOMAMI
(di circa 55 anni) Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, a gennaio 2015, presso la comunità di Hawarixa (regione Missione Catrimani).
«Ma lui fu ucciso»
«Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del Catrimani] e raggiunse le altre comunità dei nostri avi. In seguito, lo raggiunsero altri e chiamò molti abitanti di questa regione. [Padre Calleri] vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari [un tipo di cinghiale] per lisciare l’arco, […] l’utensile di denti di aguti [un roditore] legato al braccio. […]
Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”. In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli antenati: le donne cuocevano la focaccia di mandioca sulle pietre, grattuggiavano i tuberi di mandioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema, spremevano la polpa di mandioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò: li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui” e i nostri genitori andarono ad aprire la pista di atterraggio. […] Venendo da tutte le comunità, gli Yanomami, insieme, costruirono questa pista. In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i coltellacci che aveva portato con sé da Manaus.
I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri: tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui. Ma lui fu ucciso».
L’epidemia di morbillo
«Questo qui [indicando fratel Carlo Zacquini] era un papà. Aiutò i nostri anziani. Loro piangevano di dolore, ma li soccorse. Molti furono curati. Vedendo che le persone venivano curate, [i nostri anziani] lo chiamarono di xapuri [sciamano/curatore] bianco.
Dissero: “Lui è xapuri bianco, per questo guariamo, recuperiamo la salute”. […]
Nel 1977, quando i nostri genitori morivano nei pressi del fiume Hwaia u, corse insieme alla mamma Claudia (Andujar, fotografa svizzera molto conosciuta per il suo lavoro tra gli Yanomami, ndr), per soccorrerci durante l’epidemia di morbillo. Questi due accorsero per darci ausilio, mentre noi e altri Yanomami ammalati, qui [nell’alto corso del fiume] stavamo correndo [cercando soccorso alla Missione Catrimani]. […]
In quel tempo, quando il morbillo aveva già ucciso molti ed era calata l’intensità dell’epidemia, questi due arrivarono. Ci raggiunsero nella comunità ormai spopolata. Portarono vaccini e medicine contro il morbillo, con i quali – noi che eravamo sopravvissuti – fummo curati e ci ristabilimmo.
A causa di questa situazione [di grave sofferenza degli Yanomami], Claudia e Carlo Zacquini, cominciarono la lotta per la [demarcazione della] terra indigena. Iniziarono questa nuova lotta perché volevano prendersi cura di noi. […] I missionari della Consolata ci aiutarono realmente. Padre Giovanni [Saffirio] corse al Posto indigeno della Funai [Fondazione Nazionale dell’Indio] al Watorik? [Demini], per richiedere il soccorso di un elicottero. […]
Loro hanno inviato [più di una] proposta [di demarcazione] al governo [brasiliano]. [Affermando:] “Il popolo Yanomami è importante”. […] Tutto questo perché potessimo vivere in salute, [continuare a] realizzare le nostre feste reahu, fare le nostre piantagioni, crescere [allevare] i nostri figli».
Testimonianza di PEDRO?YANOMAMI
(di circa 80 anni, comunità di Maamapi)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, in gennaio 2015, presso la comunità di Maamapi (regione Missione Catrimani).
«Noi due moriremo insieme»
«Fratel [Carlo Zacquini] andava a caccia con me, in quella direzione. Noi cacciavamo là tapiri e scimmie. Adesso è anziano. Io sono divenuto anziano, e lui, come me.
[Rivolgendosi a Fratel Carlo che da qualche anno vive a Boa Vista:] Fratello tu tornerai? Vieni di nuovo a visitarci alla Missione. Vieni ad abitare qui di nuovo. Moriremo insieme. Noi due moriremo insieme. [Gli altri Yanomami] realizzeranno il rituale con le nostre ceneri. Se seppelliranno il tuo corpo, tu [in questo passaggio] soffrirai: i bianchi sono irresponsabili, non sanno le cose. Solo se sarà realizzato qui il rituale delle ceneri, andrà tutto a buon fine.
Io ho pensato che sarà bene così per noi, perciò ti chiamo: ritorna qui.
[Fra qualche settimana,] quando realizzeremo la festa reahu, nella mia comunità, visitaci di nuovo. Anche se anziano, danzerai nella mia casa. Noi due anziani danzeremo. Io non vedo più le persone e le cose con i miei occhi, ma ancora posso camminare. Invece, i tuoi occhi scorgono ancora chiaramente: solo io sono immerso in una grande oscurità.
Sento molta nostalgia. Tu hai cacciato e pescato per alimentarmi, perciò ti ricordo, ti conservo nel cuore. Se io avessi occhi buoni, ti visiterei varie volte a Boa Vista, dopo aver volato con l’aereo. Domanderei: “Tu stai bene?”. Questo è ciò che penso».
(a cura di Corrado Dalmonego)
Indigeni e mondo dei bianchi / 1
Esiste una strada per la convivenza?
La storia della Missione Catrimani può contribuire a gettare luce sulle vicende più recenti relative alla conquista dell’Amazzonia e sul modello di convivenza possibile tra indigeni e mondo dei bianchi.
Ci ricorda, ad esempio, che i protagonisti dell’epopea della conquista furono uomini che inseguivano promesse ingannevoli, come quella contenuta nello slogan «terra senza gente, per gente senza terra!», dietro alla bandiera illusoria di un progresso che non sarebbe mai stato per loro. È a questi avventurieri che inizialmente si associarono i missionari per realizzare la propria opera in terra amazzonica, ovvero portare il Vangelo a popoli allora considerati selvaggi e senza Dio.
Benché il suo territorio fosse stato raggiunto dalla «Commissione nazionale per l’ispezione delle frontiere» già nel 1927, nei primi anni ‘60, quando il desbravamento (colonizzazione) del Brasile centrale era già stato completato, Roraima ospitava ancora indios non contattati come i Vaikà (nome dispregiativo dato agli Yanam, sottogruppo yanomami).
I missionari della Consolata, catapultati in quell’ambiente ostile e sconosciuto, non avevano altra scelta se non quella di mettersi al seguito degli «invasori»: come il cacciatore di pelli Joãozinho, che risalendo il rio Ajaraní, aveva «scoperto» gli Yanam e i raccoglitori di gomma che invitarono padre Bindo Meldolesi ad accompagnarli in un viaggio sul rio Catrimani dove avevano individuato gruppi di indios.
Già nella spedizione successiva al Catrimani, organizzata dallo stesso Meldolesi e da padre Calleri nel 1965, i missionari rinunciarono ad appoggiarsi a intermediari «bianchi». Individuata la sede per la missione, i due padri iniziarono a preparare la pista di atterraggio, che sarebbe stata inaugurata nel 1967 con un volo dell’aereo della Diocesi di Roraima, avvenimento documentato fotograficamente da padre Silvano Sabatini, al tempo amministratore della Consolata in Brasile.
In pochi anni, tra il ‘65 e il ‘68, i missionari della Consolata, anche grazie al nuovo metodo di approccio stimolato dal Concilio Vaticano II che li portò alla costituzione della prima equipe diocesana di pastorale indigena del Brasile, la Commissione Pro-Indio (Coprind), passarono dall’idea di integrazione a quella di avvicinamento graduale degli indios alla società bianca, incarnata dal progetto di «pacificazione» dei Waimiri Atroari. Nello stesso periodo, la Coprind elaborò anche un primo progetto di demarcazione di riserve indigene nell’area yanomami, che preludeva a quello di creazione del Parco Yanomami presentato dalla Ong Ccpy nel 1978 e poi ufficialmente approvato nel 1992.
Per Sabatini, allora presidente della Coprind, quello fu il momento d’oro della Consolata a Roraima: la Missione Catrimani venne ampliata con l’invio di due giovani missionari, fratel Carlo Zacquini e padre Giovanni Saffirio e la Commissione avviò una collaborazione proficua con i vertici della Funai, il nuovo organo indigenista appena creato, che però sarebbe durata poco. La realizzazione della Perimetrale Nord, nel 1971, inaugurò l’invasione massiccia del territorio yanomami, aprendo la strada ai cercatori d’oro. L’ambiguità della Funai che soccorreva i superstiti senza cercare di impedire l’invasione (come poi avrebbe fatto nel caso dei Waimiri-Atroari), sfociò in uno scontro aperto con la missione che durò vari anni. Malgrado le pressioni e le minacce della nuova presidenza della Funai, retta per più di un decennio dai militari, l’equipe del Catrimani rimase a fianco degli indios, stimolando il mantenimento delle istituzioni culturali indigene come la maloca e la pratica dello sciamanesimo, tanto che la Conferenza nazionale dei vescovi definì quella di Catrimani come «esperienza missionaria profetica» del Brasile.
Nella storia della Missione Catrimani, padre Silvano Sabatini è stato un protagonista, pur non essendo stato uno specialista di cultura yanomami. Sin dai primi contatti con gli indios, le sue intuizioni sono state segnate da una grande libertà di pensiero e dalla capacità di sospendere il giudizio anche di fronte a pratiche facilmente condannabili – secondo il nostro sistema di valori – come l’infanticidio o la guerra, giungendo a conclusioni radicali e illuminanti per il modo in cui il missionario dovrebbe approcciare contesti culturali altri: «Non ha senso battezzare l’indio fuori dalla comunità… Il missionario deve “essere Cristo” invece di nominarlo…».
Sabatini si è spinto anche oltre. Avventurandosi nel territorio caro agli antropologi, egli ha riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dai leader indigeni (come Gabriel Macuxi e Davi Yanomami) come «mediatori dell’alterità», in quanto figure «di confine» in grado di tradurre la nostra cultura all’interno del proprio gruppo e di operare una rielaborazione della cultura indigena il più possibile rispondente alle esigenze dell’immaginario occidentale dominante, per renderla intellegibile all’esterno e «attuale», garantendole così il diritto di continuare a esistere. E ancora, Silvano Sabatini e la Missione Catrimani hanno dimostrato come solo la piena legittimazione dei valori delle culture altre possa oggi dare nuovo senso non solo alla pratica missionaria ma, più in generale, alla nostra stessa cultura occidentale, che ha bisogno, questa sì, di una «nuova evangelizzazione» se vuole gettare le basi per una convivenza pacifica con l’Altro.
Sopravvivranno alle contaminazioni?
C’è qualcosa di inevitabile nella distruzione delle società tribali? Quello che sta accadendo oggi nei territori Yanomami dell’Amazzonia brasiliana – furto delle terre, estrazione indiscriminata di minerali pregiati, sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e della biodiversità – fa sorgere questa domanda. I governi brasiliani e gli amministratori locali di Roraima hanno sempre spiegato (e giustificato) questa situazione come una conseguenza secondaria dello sviluppo e del progresso.
Quando, nel gennaio 2015, sono arrivato a Roraima e a Boa Vista, avevo una sorta di pregiudizio che considerava l’estinzione degli Yanomami come una condizione tragica ma inevitabile.
In effetti, una lotta impari sta portando gli Yanomami a modificare rapidamente la loro esistenza, passando da un isolamento millenario a indossare i nostri abiti, acquistare telefoni di ultima generazione, guardare la tv satellitare nel mezzo alla foresta. Si tratta di un processo di implosione e di «evoluzione sociale» – inconsapevole, incontrollato e forse oscuramente «pilotato»-, che sta modificando e distruggendo tradizioni e abitudini di vita.
La terra è da sempre il cuore del conflitto e dello sterminio del popolo yanomami che, fino a qualche generazione fa, conosceva la nostra esistenza solo grazie ai contatti con i missionari. Uno di loro, tra i pochi superstiti di una generazione probabilmente eroica, è fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata. Da quasi 50 anni Carlo vive a contatto con la realtà indigena e per questo era la miglior guida possibile nell’area del Catrimani. Lungo i percorsi fluviali, durante gli spostamenti tra i villaggi e durante le serate trascorse insieme sotto la tettornia della missione, ho ascoltato dalla sua voce racconti emozionanti di anni vissuti tra gli indigeni, dai primi contatti fino alla costruzione e allo sviluppo della missione. Attraverso i suoi racconti ho ripercorso la storia degli ultimi anni degli indios del Catrimani, le leggende, gli aneddoti, le tradizioni, le difficoltà incontrate e i momenti difficili. Fratel Carlo rappresenta un parte importante della memoria storica degli ultimi decenni del popolo yanomami del Brasile. Un testimone vivente la cui esistenza è stata dedicata alla causa indigena. Parte del lavoro suo e di altri missionari è raccolto e custodito in maniera precaria a Boa Vista. Due piccole stanze – soggette alle intemperie e sotto la minaccia costante dell’umidità e delle termiti – raccolgono anni di immagini, giornali, carteggi, libri, testimonianze, oggetti della cultura yanomami. Un patrimonio inestimabile che, con fatica, fratel Carlo cerca di difendere, preservare e accrescere. Nella speranza che possa diventare un giorno un punto di riferimento per gli indigeni, i giovani missionari, gli studiosi, i ricercatori e la gente comune.
Il mio timore di una lenta contaminazione degli Yanomami ha trovato riscontri concreti durante la mia pur breve permanenza tra loro: operatori dei punti di salute disinteressati alla causa, strutture di supporto e personale inadeguato. Tuttavia, l’aver visto le loro vite integrate con i ritmi della foresta e fatte di straordinaria umanità, mi ha anche aperto la strada verso una più ampia visione del futuro: lottare per la causa Yanomami dando supporto a quanti di loro, attraverso il principio di autodeterminazione e autodocumentazione, si stanno attivando per sensibilizzare altri Yanomami e per cercare di essere preparati ad affrontare le sfide portate dall’invasione occidentale.
Di certo, sono molte le domande senza risposta. Cosa sarà degli Yanomami (come di molti altri popoli indigeni del mondo) in un futuro nemmeno tanto lontano? Cosa possiamo fare noi per contribuire alla loro lotta? Quanti sono a conoscenza della loro esistenza, dei drammi e dei pericoli per la loro stessa sopravvivenza? Da ultimo, cosa sarà delle testimonianze e dei materiali raccolti e custoditi dai missionari?
Il Comitato Roraima (Co.Ro.)
«Nada se compara a Catrimani»
Un medico torinese e un gruppo di volontari, innamorati della realtà indigena brasiliana, hanno fondato un comitato che da anni opera per appoggiare indigeni e missionari.
Durante l’anno Santo del 2000, con la mia famiglia e alcuni amici decidemmo di andare in Brasile, nello stato di Roraima, alla ricerca di padre Silvano Sabatini, un amico missionario che da un po’ di tempo non dava più notizie. Era infatti nascosto perché minacciato di morte, da quando, due anni prima, era uscito il suo libro Massacre, con nomi e testimonianze precise che inchiodavano gli autori del massacro della spedizione in cui fu ucciso padre Calleri (esponenti militari, compagnie minerarie, sette nordamericane).
«Padres ladroes e viados»
Giunti a Boa Vista, capitale di Roraima, subito respirammo il pesante clima di persecuzione nei confronti della Chiesa. La città era tappezzata di manifesti del governo di Roraima e di associazioni di commercianti e agricoltori che attaccavano i missionari per la loro lotta in difesa degli indios: «Una diocesi deve catechizzare e non interessarsi delle terre indigene!»; «La diocesi è nociva alla società di Roraima». Sui muri vistose scritte: «Padres ladroes e viados!», «Padres corruptos!»
Al mattino seguente i missionari ci svegliarono dicendo che c’’era la possibilità per una persona di raggiungere con un piccolo aereo la missione Yanomami di Catrimani, in foresta, dove gli indios avrebbero tenuto una riunione sui problemi sanitari. Ma le speranze appena accese si spensero presto: la piccola pista di atterraggio di Catrimani era allagata e tale sarebbe rimasta per tutta la settimana. Catrimani divenne per noi un mito, una sorta di irraggiungibile Eldorado: tanto più che Carlos, il simpatico factotum della missione, che con un fuoristrada ci accompagnava nei nostri spostamenti, continuava a martellarci, di fronte al nostro stupore per la bellezza della savana o dei grandi fiumi, che comunque «Nada se compara a Catrimani», «Nulla è paragonabile a Catrimani».
Il mio contatto con Catrimani avvenne l’anno dopo, accompagnato da fratel Carlo Zacquini: portavo con me due giornalisti di Famiglia Cristiana perché documentassero le vessazioni a cui gli Yanomami erano (e sono) sottoposti.
Restammo conquistati dall’affetto con cui fratel Carlo, uno dei primi missionari che avevano «scoperto» gli Yanomami, era accolto dagli indigeni, che facevano a gara per abbracciarlo, stringerlo a sé con le lacrime agli occhi per la gioia e la riconoscenza. Fratel Carlo aveva vissuto con gli Yanomami lunghi periodi in solitudine, indio tra gli indios, incurante dei pericoli, del clima umidissimo, di scorpioni, serpenti, giaguari e dei terribili «piun» (le micidiali piccolissime zanzare), della fame, delle malattie (quante volte ha avuto la malaria, e alcune volte anche il coma malarico).
E davvero constatai che «nada se compara a Catrimani». Nulla è paragonabile per il fascino della foresta amazzonica, la bellezza del fiume Catrimani, i meravigliosi pappagalli multicolori che volteggiavano attorno alla missione, l’imponente tucano, i voraci piranha pescati dagli indigeni insieme agli enormi «pesce gatto», l’anaconda, fortunatamente «piccola», che aveva dilaniato la gamba di un giovane yanomami, le cui ferite riuscii a suturare alla meglio poco prima della mia partenza, i canti degli uccelli, le urla delle scimmie.
«Nada se compara a Catrimani» per l’incontro con gli indigeni, che ci accolsero con calore misto a curiosità, e che per noi organizzarono una festa con canti e danze, e l’immancabile frullato di banane. Il sonno della prima notte fu interrotto da urla disperate di uno Yanomami che gridava: «È morto mio figlio! È morto mio figlio!». Quando accorremmo, scoprimmo che gli era morto… il cane, considerato però come un membro della famiglia. In quei giorni ricordo i bambini che si affollavano intorno a me perché fischiettavo bene, cosa che loro non sanno fare. E ancora la paura di quando, uscito con un gruppo di indios a caccia nella foresta, mi attardai un attimo per fare una fotografia e mi ritrovai sperduto tra alberi altissimi, assolutamente incapace di orientarmi: mi misi allora a gridare e altre grida indigene mi indicarono il cammino. Rammento gli sciamani che prima che sorga l’alba, nel tepore dei fuochi della maloca, raccontano i miti della tribù e ricordano a tutti che, se gli Yanomami smettessero di sostenere con la loro preghiera la volta del cielo, questa si schianterebbe sulla terra. La giovane mamma yanomami affetta da mastite che rifiutava la terapia antibiotica da me proposta, perché voleva una mastectomia, confusa notizia arrivatale chissà come dal mondo dei bianchi. E la pazienza di fratel Carlo che si accovacciò accanto a lei (all’uso indigeno), abbracciandola e convincendola, attraverso un lungo colloquio, ad accettare la mia cura, che risolse poi il problema con due sole iniezioni intramuscolo.
Nascita e attività del Co.Ro.
Dopo il viaggio del 2000, dall’indignazione per l’etnocidio in atto e dall’ammirazione per il lavoro dei missionari, nacque il Co.Ro. Onlus, Comitato Roraima di solidarietà con i popoli indigeni del Brasile. Oltre a interventi per altre popolazioni indigene di Roraima (Macuxi, Wapichana, Tuarepang, tra le principali), per la missione di Catrimani il Comitato ha reso possibili numerosi progetti come: la ristrutturazione delle strutture adibite ad accoglienza, ambulatorio e scuola; la foitura di barche per raggiungere le maloche più distanti lungo il fiume Catrimani; l’impianto di pannelli solari che oggi foiscono energia per le attività sanitarie ed educative; la formazione degli agenti indigeni di sanità; la organizzazione di incontri formativi per i leaders delle 24 comunità che afferiscono alla missione; la preparazione di incontri dei tuxaua (capi) per partecipare ad eventi inteazionali in difesa degli indios e sulla possibilità di un’agricoltura ecologica e sostenibile; il mantenimento di un prezioso collaboratore laico, indispensabile motorista, meccanico, carpentiere; il progetto di documentazione audiovisiva sulla storia della missione e sulle sfide affrontate dagli Yanomami. Infine, una curiosità. Non poche difficoltà sorsero tra noi quando ci fu proposto di sostenere un corso di formazione per gli sciamani. Alla fine le perplessità furono superate: i missionari ci aiutarono a comprendere che gli sciamani erano (e sono) insostituibili custodi della tradizione e della spiritualità yanomami.
Catrimani: una missione estrema, con missionari che incarnano concretamente una Chiesa che sta con gli ultimi o, come dice papa Francesco, «con gli scarti, alla periferia del mondo».
Carlo Miglietta
Normal
0
14
false
false
false
IT
X-NONE
X-NONE
/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin-top:0cm;
mso-para-margin-right:0cm;
mso-para-margin-bottom:8.0pt;
mso-para-margin-left:0cm;
line-height:107%;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:11.0pt;
mso-ascii-
mso-ascii-theme-
mso-hansi-
mso-hansi-theme-}
a cura di Paolo Moiola