L’Incontro (Nohimayou) – Due testimoni
Seconda Parte: continua la testimonianza dei missionari che sono stati o sono ancora a Catrimani:
Laurindo Lorenzatti e Carlo Zaquini
Vai alla Prima parte
Introduzione di Stefano Camerlengo | Presentazione di Paolo Moiola | I TESTIMONI: Testimonianza di Guglielmo Damioli | La voce di Corrado Dalmonego
In questa Seconda parte: I Testimoni
- Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti
- Incontro con Carlo Zaquini
Vai alla Terza parte: SCHEDE
Dati e informazioni sugli Yanomami| Il mondo Yanomami| Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami| Bibliografia
Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Dieci anni tra gli Yanomami
Circondati dal mondo
Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative. Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti, fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per dieci intensissimi anni.
Prima dell’arrivo a Roraima il mio contatto con i popoli indigeni era stato minimo1. Porto con me un’immagine dell’infanzia in cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il mio stato di nascita) passavano per la strada in gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né capivo che la loro terra era stata invasa e presa in mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da 1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe).
A favore della vita
L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo di conversione che mi ricordò l’esperienza della caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco, guarire e infine vedere le cose con occhi diversi, con un altro cuore e con motivazioni molto più profonde che non fossero soltanto quelle emotive. Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha colpito durante i dieci anni – dal 2001 al 2011 – trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da quelli che avevo vissuto fino ad allora.
Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la maggior parte di loro italiani, rimasti per molti anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche – all’interno della chiesa e dell’istituto – per un impegno più a favore della vita che della dottrina e della evangelizzazione.
Primo missionario brasiliano a rimanere così a lungo tra gli?Yanomami di quella missione, con una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne ricorderò qualcuna.
Catrimani, centro di resistenza
Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare. Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di resistenza alle invasioni e di critica alle politiche poste in essere dalle autorità brasiliane.
Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni. Attraverso questi programmi la missione venne «invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa per cose che non competevano loro o per le quali non erano preparati. I missionari stavano lì per la formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami. Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si tornavano a brevi intervalli. L’equipe missionaria era vista come «manodopera a basso costo», e ovviamente questo causò molti conflitti, malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario.
Il denaro e le sue conseguenze
Al primo incontro a cui partecipai alla missione rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati preparati in microscopia e come agenti di salute e che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più svolto questi servizi. Molto era stato investito nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista una remunerazione per questi giovani e in seguito essi avrebbero lavorato con un contratto formale. Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi nelle mani di questi giovani produssero furono (sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse, tabacco, sale, …); non era (è) più necessario essere un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano più di andare in città con gli stessi pantaloncini rossi, di serie, foiti dalla missione. Ora volevano comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali.
Strade, alcol e lavoro schiavo
Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un tratto di strada che dalla missione proseguiva per 110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano per uno scambio e un accompagnamento. Con l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena.
Le «cose» come fattore disgregante
Al centro della missione c’era una piccola casa che per lungo tempo servì come luogo di scambio con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati dagli Yanomami erano scambiati con manufatti dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica per la comunità influenzando i comportamenti di missionari e indigeni. La nuova conformazione della équipe della missione, la diminuzione dei progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio di comprare cose che non erano nelle opzioni della missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto.
Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria.
Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri programmi del governo, in futuro i cambiamenti potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi.
Attrazioni fatali?
Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri urbani, chiedono di studiare e laurearsi.
La politica economica del paese sta costringendo allo spopolamento delle zone intee per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti.
Laurindo Lazzaretti
Note
(1) Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, La biodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015.
(2) Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone.
(3) Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su una popolazione di circa 900 persone.
Incontro con Carlo Zacquini
«Io sono Hokosi»
Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali.
Incontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista. Siamo in gennaio, piena estate a Roraima, e le giornate nella casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia di immagini e documenti, mi racconta i primi anni della presenza dei missionari a Catrimani.
Anni Cinquanta: i primi viaggi
«Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a realizzare una piccola piantagione con a fianco una tettornia di foglie di palma. Qui coltivava alcune piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per poi tornare a Boa Vista».
«Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo».
«Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare».
Requisito essenziale: una pista di atterraggio
Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica autornironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni».
Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2.
«Quando arrivai a Catrimani – racconta fratel Carlo – padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali».
La lingua yanomae
«Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto».
«Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato».
«Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama… chama!».
«Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo provvedere la carne per i lavoratori e per quelli che venivano con me. Praticavo la caccia con la carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma era molto difficile senza barca. A dire il vero gli Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete, scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora».
Indios, «caboclos», «civilizados»
«Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si rese conto che veniva usato dal potere locale e cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni coraggiose insieme a noi».
«A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios: erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche capo di vestiario e a volte parlavano un po’ di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in maniera chiara in difesa della causa indigena».
«I civilizados facevano apparire il mondo indigeno come un’isola fortunata dove tutti stavano bene. In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados erano invitati a fare da padrini di battesimo. La cosa era andata avanti per generazioni e una parte degli indios si era abituata e difendeva gli invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera per la definizione del territorio, una parte di loro era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere nella loro terra, dicevano che andando via loro avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto che in passato non avevano mai avuto bisogno del riso. Soltanto col tempo esso era diventato una necessità».
La devastante corsa all’oro
«Quel che andava per la maggiore, a Roraima, erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un prezzo più conveniente sia perché furono scoperti molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro furono facilitati da un programma finanziato dal governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões. Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero».
«Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami totalmente in balia di questi cercatori che provocarono livelli di mortalità altissima a causa delle malattie da loro portate. Fu un genocidio».
«Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate e fecero ripartire le attività di appoggio cercando di utilizzare uno schema diverso perché la realtà era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano capito, erano molto pericolosi per loro».
Anno 2015: ancora invasioni
Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di una protezione più teorica che reale. «Ancora nel 2015 – conclude con evidente rammarico fratel Carlo3 – centinaia o forse migliaia di cercatori d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminare l’acqua con il mercurio, a causare epidemie e danni irreparabili alla cultura yanomami».
Daniele Romeo
Note
(1) Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013.
(2) Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC, luglio-agosto 1966.
(3) La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia.
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a cura di Paolo Moiola