50 anni di Catrimani (1965-2015):
Yanomami e Missionari della Consolata.
In questa Prima parte:
Introduzione di Stefano Camerlengo
I TESTIMONI
Testimonianza di Giuglielmo Damioli
Vai alla Seconda parte: I Testimoni:
Un brasiliano tra gli Yanomami, Laurindo Lazzaretti | Incontro con Carlo Zaquini
Vai alla Terza parte: SCHEDE
Dati e informazioni sugli Yanomami | Il mondo Yanomami | Cronologia essenziale | Breve glossario Yanomami
Vai alla Quarta parte: INCONTRO O SCONTRO
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Video: “Vennero come amici: 50 anni di Missione a Catrimani tra gli Yanomami”,
realizzato da Yuri Lavecchia e da Daniele Romeo.
Eccezionale testimonianza sui 50 anni dei Missionari della Consolata a Catrimani.
Introduzione
Una storia che deve continuare
di Stefano Camerlengo
Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.
Come missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato.
Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.
Dialogo senza pregiudizio – Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro giornie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione.
Uno stile rispettoso – È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno.
Presenza, denuncia, annuncio – Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come – ad esempio – la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.
Tanti, ma non abbastanza – Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.
Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.
Il dovere «etico» di rimanere – Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.
Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così.
Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.
Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui.
Stefano Camerlengo
Yanomami e napëpë
Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.
Boa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo.
Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura.
«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lontano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita – proseguiva il prelato – e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».
Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato-selvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.
«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.
Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per cambiare gli indios – hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6.
La missione in riva al Catrimani, sullo sfondo la maloca Yanomami.
Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.
Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9.
Nelle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata – fisica e culturale – dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat.
Note
(1) Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è andato al riposo eterno nel settembre 2014.
(3) Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritoo alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5) Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65.
(6) Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7) Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968
(8) Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9) Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.
La maloca
I TESTIMONI
La cappella non è al centro
Cinquant’anni fa – era l’ottobre del 1965 – i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.
Da bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano?Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popolato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo. Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America.
Damioli Guglielmo che rimase venti anni al Catrimani.
Brandendo la croce e la spada
Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù… sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritoo alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati – Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli – di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.
«Il Dio dei bianchi è cattivo»
Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «… il Dio dei bianchi è cattivo».
Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria. Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.
Non ricordo i testi biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «…e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi…».
Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigante-fiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo.
Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani – dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del Cimi) fino a noi – battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentirneri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.
Una breccia mortale: «napë pë mohoti»
Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto… Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti…».
Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yanomami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.
A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquillizzato gli indios, salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell’equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.
I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.
Sciamano che cura un malato.
Autodifesa: terra, lingua, identità
Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata».
La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.
Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribù attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»).
In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni… La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio.
L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.
Guglielmo Damioli
(Hewësi Par+ki)
I nostri primi cinquant’anni
In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.
Padre Corrado Dalmonego.
Esotici, strani, misteriosi
Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria.
Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina – allora superiore generale dell’Istituto – aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos – bravos significa selvaggi […]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami – che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni – seguivano le tracce lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.
Secondo: questo trovarsi – seppure segnato da concezioni molto diverse – ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che – nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione – il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte – in una notte di pioggia – a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.
Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.
Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.
Padre Bindo Meldolesi in un viaggio dei primi anna Sessanta.
Invasori e missionari
Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette – per la esiguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli – a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa.
Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» – le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti – come unica possibile forma di azione evangelizzatrice.
La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente.
Ancora padre Bindo Meldolesi sul fiume Catrimani.
La prossimità nel quotidiano
La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che – all’inizio della presenza missionaria, come oggi – anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comunità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute.
In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.
Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci – soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale – sono molto apprezzate da loro.
Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)
Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.
Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare foendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro).
Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentirneri nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà.
Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato.
Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.
Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre più pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.
Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome – per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente – o festeggiano una nascita.
Padre Silvano Sabatini che ha dedicato la vita alla causa degli Yanomami.
Il segreto sta nella condivisione
Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando – quando accolti – in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione:
– togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti – fra spine, zone allagate, liane – per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo;
– imparando un’altra lingua – che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria – per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;
– cercando di conoscere – condotti dalle nostre guide – la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio – anche se trascendente – ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto;
– apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana – alle volte… troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di manioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;
– imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita.
È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari – fragili messaggeri – scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte.
Suor Florënça Lindey Águida
Avvicinarsi e rimanere
Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che – essendo voi religiosi e conoscendo Dio – Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, così come sono stati creati i non-indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».
Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per… altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante».
Note
(1) Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3) Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4) Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5) Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42, luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.
a cura di Paolo Moiola