Scrivo a brevissima distanza dalla conclusione delle elezioni regionali. Non entro nel merito dell’incredibile capacità di cantar vittoria che tutti i nostri politici hanno, ma non posso
tacere davanti a soluzioni «ruspanti» e alla disgustosa manipolazione della verità, complice tanta stampa che invece di essere la coscienza della politica, ne è la serva. Certamente il dramma dei migranti e la crescente presenza di «stranieri», nella situazione di grave crisi economica e di disoccupazione in cui ci troviamo, tocca corde molto sensibili e può far scattare reazioni nervose,
arrabbiate e anche irrazionali. Ma che dei politici senza senso della storia cavalchino «la pancia» della gente per raccogliere più voti, dimenticandosi delle proprie responsabilità e del significato vero della parola politica, è perlomeno triste. Contesto loro la mancanza di «senso della Storia», quella con la «S» maiuscola, quella che mostra come il popolo (o popoli?) italiano sia frutto di innumerevoli migrazioni. E il pio Enea da Troia non è stato neppure il primo dei migranti che hanno fatto grande l’Italia. Essa ci insegna anche che siamo stati migranti per necessità fino a meno di un secolo fa (e lo siamo ancora oggi), in cerca di un futuro migliore contribuendo con qualche decina di milioni di «stranieri» alla prosperità di Europa, America e Australia. Abbiamo
provato anche ad allargarci in Africa, e in alcuni posti abbiamo pure fatto delle cose belle, ma ci hanno sbattuti fuori perché volevamo starci da padroni… La Storia poi documenta che il dramma dell’Africa, il macello in Siria, il caos decennale dell’Iraq e Afghanistan – tra le cause prime delle presenti ondate migratorie – non sono nati per caso, per autocombustione. I nostri governi e il nostro sistema economico hanno delle precise responsabilità.
Se poi la Storia si alleasse con la sociologia, ci farebbe capire come ci sia un legame indissolubile di causa ed effetto tra il nostro stile di vita e il bisogno sempre crescente di forza lavoro a basso costo di migranti/schiavi/sfruttati. Le scienze economiche, poi, ci spiegherebbero come il capitalismo liberista sia ormai fuori dal controllo della politica e dei governi nazionali e come usi senza pietà sia noi, popoli del «ricco» mondo occidentale, che quelli poveri e impoveriti del Sud, e non solo ci usi, ma ci metta gli uni contro gli altri in una guerra tra sfruttati in cui solo pochi guadagnano.
Scrivere questo non significa che non si debbano mettere in atto le dovute azioni della giustizia nei confronti di stranieri che rubano,
imbrogliano, sono organizzati in mafie per controllare prostituzione, droga, gioco d’azzardo e traffico di persone, vandalizzano proprietà private o pubbliche, o importunano, anche con violenza, gli anziani davanti alle chiese. Né legittima chi tra i forestieri pensa di essere al di fuori o al di sopra di ogni legge e senza responsabilità sociali. E neppure l’inerzia e/o corruzione di certe autorità pubbliche o di chi specula sul business dei migranti e dei rom.
Queste sono cose che un cristiano dovrebbe sapere per non lasciarsi ingannare dal «panciaruspismo» di chi, imitando nefasti predecessori illustri, invece di affrontare le cause dei problemi, va a caccia di colpevoli. Nerone docet. I cristiani non dovrebbero mai dimenticarlo. Come non dovrebbero mai dimenticare queste parole: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 10,19; cfr 23,9; Deut 24,19-22; ecc.). Da sempre i forestieri, migranti o stranieri hanno sofferto per mano degli stanziali, di chi si ritiene padrone di una certa terra. Da sempre sono stati visti come una minaccia. Non si spiegherebbe altrimenti l’insistenza della Bibbia nel mettere forestieri, orfani e vedove sullo stesso livello, come le categorie di persone più indifese e violentate e, quindi, le più amate da Dio che si identifica con loro fino al punto di mettere la loro protezione e difesa addirittura al di sopra del culto.
Due principi forti devono essere nel Dna del Cristiano: su questa terra siamo tutti forestieri e nomadi e ogni uomo è figlio o figlia, fratello o sorella nella grande famiglia di Dio. Se dimentichiamo questo mettiamo in gioco il nostro stesso essere uomini. «Pensare con la pancia» non è fare di tutto perché la propria pancia sia piena e mettere se stessi e i propri interessi al centro. Piuttosto è pensare come una madre che porta il figlio nel suo grembo: il biblico «sentire con le viscere» o avere misericordia. Misericordia: è il vedere/conoscere/agire alla maniera di Dio. Misericordia: l’esaltazione dell’io che si realizza nel noi. Misericordia: l’uomo che si comporta da Dio. A partire
dalla «pancia».
Gigi Anataloni