Brasile. Balli di libertà

Alla festa di Oxossi (San Sebastiano), l’umbanda mostra il suo volto più gioioso.

Vi raccontiamo luoghi, persone e riti. Cercando di capire perché le religioni afrobrasiliane
da molti studiosi sono considerate un patrimonio da difendere.

Floriano (Piauí). Al barrio Tiberão, periferia
della città, arriviamo di notte. I due motociclisti che ci accompagnano
procedono con cautela perché, in questo quartiere, l’illuminazione pubblica è
praticamente inesistente.

È una zona collinosa con stradine sterrate ai cui lati
sono sorte piccole abitazioni. S’intravvedono a malapena, perché le lampadine,
attaccate all’architrave delle porte d’ingresso, sono molto deboli.

Nel barrio ci sono alcuni terreiros, dove, per merito di
Amarelinho (popolarissimo reporter di una radio locale), siamo stati invitati
per assistere a una ricorrenza.

I motociclisti ci fanno scendere nei pressi dell’unica
casetta davanti alla quale c’è animazione. Entriamo nell’abitazione, che
chiamano Tenda Iemanjá, e subito ai nostri occhi si dischiude un mondo fatto di
umanità, suoni e colori. Il luogo è affollatissimo. Chi vuole soltanto
guardare, senza partecipare in prima persona, sta al di qua di un muretto.
Dall’altra parte, è festa.

Questa notte si commemora Oxóssi, orixá della caccia (con
arco e frecce), considerato il protettore della foresta e dei suoi abitanti
originari (caboclos). Dal punto di vista sincretistico, esso è equiparato a
San Sebastiano, il martire cristiano universalmente rappresentato con il corpo
trafitto da frecce.

Attoo al palo centrale, fulcro del terreiro, girano danzando
uomini e soprattutto donne. Le signore indossano camicette rosse e ampie gonne
verdi. Il ritmo è dettato dal suono incessante dei tamburi e dai canti intonati
dal pai-de-santo, un uomo di 38 anni di nome Luis Gonzaga do Nascimento
detto Luizinho. Indossa un mantello verde con maniche rosse. Sulla testa porta
una corona di stoffa, probabilmente in onore di uno dei tanti attributi di Oxóssi:
quello di «re di Ketu» (dal nome di un’antica capitale yoruba, localizzata
nell’attuale Benin).

Senza aprire gli occhi, Luizinho s’interrompe per
presentarci a voce alta. D’altra parte, per noi sarebbe stato difficile passare
inosservati. Guardando i convenuti, un dato infatti sembra trovare conferma:
come il candomblé, anche l’umbanda continua a raccogliere la grande maggioranza
dei propri seguaci tra le persone nere (quasi sempre di bassa estrazione
sociale). I muri del terreiro di Luizinho sono come un libro di storia dell’umbanda e
delle religioni afrobrasiliane in generale. Vi sono disegnati indigeni e
schiavi africani in catene accanto a immagini di Gesù e della Madonna. In uno
stanzino riparato da una tenda trova invece posto un piccolo altare con statue
e immagini.

Mentre da un lato il pai-de-santo intona i canti e dall’altro
quattro suonatori di atabaques e maracas scandiscono il ritmo, al centro della stanza i fedeli
continuano nella loro danza.

In transe

A un certo punto della notte un paio di persone ci
vengono a chiamare e ci dicono di seguirle. Non andiamo lontano. Attraversiamo
semplicemente la stradina per entrare in un altro terreiro, nascosto tra le
abitazioni. È una casa di una sola stanza, piccola e buia. Al fondo della
stessa è posto un altare ingombro di statue di varie dimensioni. Ma per noi
ospiti è il pai-de-santo del luogo l’elemento indimenticabile. Lui si chiama Chicão.
Ha un cappello di paglia in testa, una pipa in mano e una bella faccia d’anziano.

Canta. Parla rapidissimo in una lingua sconosciuta e
comunque diversa dal brasiliano. Chicâo si lascia fotografare. Poi ci fa uscire
dalla stanza e ci porta nel cortile adiacente per mostrarci un riparo in legno
(tronqueira),
grande come la cuccia di un cane. Il pai-de-santo si accovaccia e apre il
lucchetto che lo chiude. All’interno, nonostante la luce sia soltanto quella
delle candele, riconosciamo un paio di statuine di exús, le entità che
assorbono le negatività delle persone.

La tronqueira è dunque considerata un presidio a guardia del terreiro, per tenere lontane
da esso tutte le energie negative.

Il giro guidato non è finito. Una signora del gruppetto
di persone che ci sta accompagnando in questo tour molto insolito ci spiega che
tutti gli abitanti di queste case sono seguaci dell’umbanda e che di terreiros ce ne sono diversi.
Capiamo che ormai non c’è modo di ritirarci senza offendere qualcuno.

Andremo dunque nel terreiro di Zé Reis e poi in quello
di una donna, Rita Maria da Silva.

Troviamo il giovane Zé Reis, camicia verde, cappello e
pipa, seduto accanto al suo altare. E, nell’angolo di fronte, un uomo con un
tamburo lungo e stretto. Anche lui ci accoglie con grande gentilezza, anche lui
ci tiene a cantare davanti a noi.

Quando,
alla fine del nostro percorso, arriviamo alla casa della donna, lei è in
condizione di transe: non c’è modo di
conversare. Corporatura magra e folta chioma di capelli crespi, indossa un
vestito bianco e una lunga sciarpa rossa con alcuni disegni tipici dell’umbanda.
La casa non è un vero terreiro, ma una normale (e
modestissima) abitazione. In un angolo della stanza da letto c’è un altarino
con il consueto puzzle di immagini cristiane
e simbologie della religione afro, il tutto illuminato da una serie di candele.

È qui
che la donna inizia una sorta di danza lenta stringendo tra le mani delle
lunghe frecce. Sempre con gli occhi serrati e parole ripetute come in una
litania. I nostri accompagnatori ci spiegano che la medium incorpora il Caboclo
Sete Flechas, l’«indio dalle sette frecce», ognuna di esse
con una funzione diversa (salute, difesa, spiritualità,…).

Magia nera,
superstizioni, pratiche diaboliche?

Che sia per i rituali particolari o per la tipologia dei
seguaci o ancora per retaggi storici malinterpretati (la schiavitù, in primis),
l’umbanda e le religioni afrobrasiliane in generale sono ancora oggi guardate
con sospetto. O con astio, soprattutto dalle (potenti)  Chiese evangeliche neopentecostali1.

Scrive Alessandra Amaral Soares Nascimento: «Per essere
religioni del transe, del culto degli spiriti e in alcuni casi di sacrifici
animali, esse sono state associate a stereotipi come quelli della “magia nera”,
superstizioni di gente ignorante, pratiche diaboliche»2.

Va ricordato che i culti africani arrivarono nel paese
latinoamericano con gli schiavi durante un lasso di tempo di oltre 300 anni (in
Brasile, la pratica dello schiavismo durò – almeno ufficialmente – dal 1559 al
1888).

Come ricorda Alessandra Amaral, «lo schiavo doveva essere
battezzato entro un massimo di cinque anni dal suo arrivo in Brasile». Si
trattava in sostanza dell’applicazione pratica del principio «Cuius regio, eius religio»,
ovvero dell’obbligo per lo schiavo di conformarsi alla religione del padrone.

Le religioni afrobrasiliane si svilupparono dunque come
forma di «resistenza» alle imposizioni dei padroni bianchi e come affermazione
della propria identità. L’umbanda – nata soltanto nel 1908 – ne è un’evoluzione
alla luce dell’orgoglio derivante dall’«essere brasiliano», vale a dire un mix
di bianco, nero e indigeno.

Secondo Reginaldo Prandi, altro studioso e specialista in
religioni afrobrasiliane, «silenziosamente, oggi assistiamo a un vero massacro
delle religioni afrobrasiliane». Un fatto molto grave, spiega il professore
dell’Università di San Paolo, perché il loro contributo «alle più diverse aree
della cultura brasiliana è ricchissimo»3.

A parte le considerazioni degli studiosi, vale la pena di
ricordare le parole di Gilberto Gil, uno dei più noti musicisti brasiliani, che
in una strofa di una sua canzone scrive: «Quando i popoli dell’Africa
arrivarono qui / non avevano la libertà di religione. / Adottarono il Senhor do
Bonfim / sia per resistenza, che per resa»4.

Accoglienza

Con gli occhi e la testa ancora pieni di sensazioni,
torniamo alla Tenda Iemanjá di Luizinho, dove la festa in onore di Oxóssi vive
un momento di pausa. Le persone stanno recuperando le energie consumate
mangiando banane, angurie e meloni.

Noi ne approfittiamo per ringraziare il pai-de-santo e le persone
presenti per la cordialità e simpatia con cui ci hanno accolti. Tra non molto i
tamburi ricominceranno a dare il ritmo ai canti e alle danze.

Paolo Moiola*
 
Note:

(1) Della Comissão de Combate à Intolerância Religiosa (http://ccir.org.br) non fanno parte esponenti
neopentecostali.

(2) Alessandra
Amaral Soares Nascimento, Candomblé e
umbanda: praticas religiosas da identitade negra no Brasil, in «Revista brasileira de Sociologia da Emocão» 9 (27),
dicembre 2010.

(3) Reginaldo
Prandi, O Brasil com axé:
candomblé e umbanda no mercado religioso, in «Estudos
Avançados» 18 (52), 2004.

(4) Testuale: «Quando
os povos d’África chegaram aqui / Não tinham liberdade de religião / Adotaram
Senhor do Bonfim: / Tanto resistência, quanto rendição». La Igreja de Nosso Senhor do Bonfim è la più famosa chiesa di Salvador Bahia, in Brasile.

Paolo Moiola