Cuba e l’attesa per
il dopo «bloqueo» / 2
Sull’isola caraibica
i cartelloni stradali non pubblicizzano prodotti di consumo, ma eroi della
rivoluzione. Abituata a vivere con poco, la maggioranza dei cubani attende il
cambiamento. Difficile capire come il prevedibile miglioramento economico trasformerà
i ritmi (rilassati) della loro attuale
esistenza.
Varadero. Mentre sono seduto al bar del mio hotel a sfogliare
lo stradario, il barman mi chiede dove sono diretto. Gli rispondo che
all’indomani partirò alla volta del Sud e, in particolare, per la zona di
Cardenas e Matanzas. Mi suggerisce di parlare con Yandri, una delle
responsabili dell’hotel che, come molti altri, proviene da Cardenas. Pare sia
la persona più adatta con cui scambiare qualche battuta e ricevere indicazioni.
La cerco alla reception, ma è impegnata. Mi dà
appuntamento al bar, a fine serata. Quando la incontro mi offre dell’ottimo rum
e s’informa sul mio lavoro. Non nega le sue origini ma per lei, che parla un
quasi perfetto inglese e vive a contatto più con europei e nordamericani che
con cubani, è un po’ imbarazzante parlare di Cardenas. Yandri si considera una
privilegiata a poter gestire un hotel nell’area ricca di Cuba. Al contrario –
spiega la donna -, la sua città di origine mi mostrerà proprio quegli aspetti
di povertà e vita quotidiana che intendo documentare.
Trascorriamo
la serata a parlare e bere. A un tratto della conversazione, probabilmente per
la stanchezza, la fiducia che le ispiro o semplicemente a causa di un sorso in
più di rum, Yandri decide di lasciarsi andare iniziando a parlare della sua
famiglia e della sua vita, ma soprattutto di come, grazie ai suoi studi e a suo
marito, membro Abakuá, sia riuscita a emergere e a lasciare Cardenas.
Ho sentito parlare di Abakuá molti anni fa, attraverso
alcune letture sul popolo nigeriano. A memoria ricordo che non si tratta
soltanto di una religione, ma di una società segreta mutualistica, a carattere
religioso, che da molti è stata paragonata alla nostra massoneria. Adesso il
mio pensiero e la mia curiosità si accendono su quella parola «di troppo»
sfuggita a Yandri. Timidamente, le chiedo di approfondire l’argomento. La donna
non si tira indietro, ma suggerisce di allontanarci dal bar e di fare una
passeggiata in riva al mare, lontani da occhi e orecchie indiscrete.
Mi confida che è la prima volta che parla a uno
straniero di quel mondo. Sottovoce racconta che gli Abakuá sono una setta
segreta che pratica culti magici, è a partecipazione esclusivamente maschile e
la sua solidità si fonda sulla riservatezza e sull’esclusione delle donne dal
potere. Ancora oggi gli anziani di Cardenas raccontano come questa associazione
sia stata fondata nel Sud della Nigeria da una donna il cui potere era così
forte che tutti gli abitanti del paese si consideravano suoi schiavi.
L’atmosfera, il rumore delle onde e il cielo stellato
della notte cubana creano lo scenario perfetto per questo racconto
affascinante, da mille e una notte. Mi sento come mio figlio quando, a casa a
Torino, durante le sere invernali, ascolta fiabe e aneddoti della tradizione
africana: leggende e credenze di un patrimonio culturale e antropologico che a
Cuba ha trovato ospitalità. Una società segreta che mantiene ancora le
componenti di un universo religioso e musicale, fatto di magia, danze e
simboli, fedeli al modello africano, a parte qualche influenza simbolica di
carattere cristiano. La società Abakuá, come ancora oggi accade nella costa
africana, possiede un proprio linguaggio codificato per i rituali praticati, e
a Cuba il livello di stima all’interno dell’organizzazione si fonda sul grado
di conoscenza di questa lingua antica.
Sono incantato e affascinato da quello che Yandri mi sta
descrivendo con chiarezza, ma allo stesso tempo con un’accorta assenza di
dettagli e riferimenti come impongono le millenarie regole della società.
Purtroppo è notte fonda ormai e all’indomani dovrò alzarmi all’alba per
riprendere il mio cammino.
La ringrazio per la fiducia che ha riposto in me e
l’opportunità che mi ha dato di poter godere del suo racconto. Prima di
lasciarci brindando con l’ultimo bicchiere di rum, mi scrive il numero di
cellulare di suo marito, dicendomi che avrei potuto chiamarlo una volta a
Cardenas qualora avessi avuto bisogno di supporto e indicazioni pratiche
durante le mie riprese.
Dopo
pochissime ore di riposo, al mattino presto mi rimetto in viaggio. Percorrendo
le strade cubane nemmeno all’occhio più distratto sfugge un particolare. Una
delle caratteristiche uniche di Cuba è l’assenza di cartelli pubblicitari di
quell’immaginario a cui in Occidente siamo abituati: effetti speciali,
automobili elettriche e tablet di
ultima generazione. Qui i volti sui cartelloni pubblicitari non sono quelli di
modelle famose. Sono raffigurati epici disegni e gigantografie di Che Guevara e
slogan di propaganda politica che inneggiano ai valori e ai trionfi della
Rivoluzione o ricordano gli effetti deleteri dell’embargo. I pochi chilometri
dell’autopista che mi porta verso Cardenas sono rovinati e spesso pieni di
buche. Mi fanno compagnia decine di Cadillac, Chevrolet, Buick, Dodge rumorose
e scoppiettanti ed enormi autobus turistici che trasportano masse di persone
verso la più famosa e rinomata Trinidad, situata quasi sulla costa Sud
dell’isola.
Mi
rendo conto molto presto che sto per entrare in una dimensione di Cuba
totalmente diversa da quella vista finora. Incrocio e sorpasso carretti e
carrozze trainate da buoi e cavalli. Mezzi di trasporto d’altri tempi che si
fanno sempre più numerosi man mano che mi addentro nei piccoli centri abitati
ma che presto diventano la normalità nelle stradine intee dove, sempre più
spesso, mi ritrovo a dare la precedenza a un cavallo piuttosto che a
un’automobile. Cardenas sorge a soli dieci chilometri a Sud di Varadero ed è la
città dormitorio della maggior parte della forza lavoro della costa. Lontana
dai riflettori del turismo, essa offre uno spaccato della vita cubana, oltre a
cultura e storia, testimoniate da edifici coloniali ormai fatiscenti.
Sul ciglio delle
strade
Parcheggio
l’auto in quello che è il centro della vita sociale della cittadina, Parque Colón,
la piazza dove sorgono la cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione, in
perfetto stile coloniale, e il monumento a Cristobál Colón. È la prima statua
eretta a Cuba in memoria di Cristoforo Colombo nel 1862. Celebri e scolpite
nella memoria storica degli abitanti di Cardenas le parole che il genovese pronunciò
appena sbarcato a Cuba: «Non ho mai visto paese più bello». La città non
nasconde il suo stato di decadenza, le sue strade sono malmesse, piene di
rifiuti e attraversate, anche qui come a La Habana, da rivoli d’acqua di ogni
genere. Tuttavia è sufficiente percorrere l’Avenida de Céspedes per assaporare
il vero spirito cubano, quello fatto di musica, sorrisi e felicità a dispetto
del poco che un’economia stanca e impoverita offre agli abitanti dell’isola. A
Cardenas uno straniero è abbastanza raro da avvistare e per questo attira molto
presto l’attenzione degli abitanti che vivono le loro giornate sul ciglio delle
strade. Insomma, non passo inosservato. Anche qui il rituale dell’approccio è
lo stesso: «Sigari? Ron? Chica?».
Sono
tutti molto disponibili a farsi fotografare e ognuno mi racconta un pezzo della
propria esistenza. Pillole di vita dal ritmo lento o forse rassegnato, lontano
anni luce dalla nostra realtà fatta di stress, inutili lotte contro il tempo,
insoddisfazione e consumismo esasperato. Enrique, giovane molto curato ed
elegante, dice di essere un «benefattore» per le turiste canadesi. Aleida, con
i suoi due piccoli figli vestiti di niente, racconta il suo sogno di andare in
Italia come sua cugina. Yisel, dietro al suo banchetto di verdure, mi chiede di
trovare un marito italiano per la sua giovane e bella figliola che timidamente,
imbarazzata per le parole della madre, mi fissa seduta su un gradino poco
distante. Lucrecia, donna di circa 75 anni, dai lineamenti delicati e memori di
un’antica bellezza, è vedova e vive da sola. Mi invita a entrare in casa
offrendomi da bere e mi racconta di sua figlia che abita in Germania. Vive di
stenti in attesa del ritorno a Cuba dei suoi nipoti, ma dimostra piglio, dignità
e tutto il proprio orgoglio cubano mentre mi parla. Mi fissa con le lacrime
agli occhi e il suo sguardo profondo sembra trasmettermi in pochi attimi tutta
l’essenza del suo popolo.
Un futuro di
nostalgia?
Sono molto rari i visitatori tentati di spendere qualche
ora a Cardenas, Matanzas, Colico. È difficile che qualcuno scenda dall’autobus
per lasciarsi trasportare dal fascino del silenzio e della desolazione che
pervade le viuzze di paesini dimenticati e quasi disabitati come San Miguel de
los Baños, lontano dal frastuono delle città più famose e della costa.
È qui
che resiste l’ultimo baluardo dello spirito cubano. I turisti occidentali sono
figli e schiavi del marketing superficiale e artefatto dei tour operator:
spiagge, sole, relax e finzione perdendo di vista il senso della storia, della
cultura, del viaggio, della scoperta. È soltanto in queste zone isolate e
sperdute che si ha la possibilità di entrare in contatto con il passato di Cuba
e con la gente al tempo dei fratelli Castro.
Dopo
la stretta di mano e gli accordi tra i presidenti Raúl e Obama (Città di
Panama, 10-11 aprile 2015), tra qualche anno (non molto lontano, credo), questa
Cuba probabilmente cambierà o scomparirà del tutto, magari sotto i colpi delle
multinazionali ormai alle porte.
reportage di Daniele Romeo è stata pubblicata sul numero di maggio 2015.
Daniele Romeo