Perché lo avete fatto?

La testimonianza di un sopravvissuto a S-21


«Perché lo avete fatto?»

Il pittore Vann Nath, morto nel 2011, è stato
rinchiuso nella prigione S-21. L’intervistatore è stato talmente colpito dalla
sua storia che gli ha dedicato un romanzo, S-21. Nella prigione di Pol Pot.

 

S-21 era
il nome di una ex scuola di Phnom Penh convertita in prigione dai Khmer Rossi.
Il suo direttore era Kaing Guek Eav, conosciuto
come Duch. In essa, principalmente tra
il 1976 e il 1978, vennero reclusi gli oppositori del regime di Pol Pot.

Vann Nath, pittore, è stato uno dei pochi prigionieri
sopravvissuti alla S-21. Quella che segue è un’intervista concessa poco prima
della sua morte, avvenuta nel 2011, in una galleria che esponeva i suoi quadri,
osservati dagli sguardi attoniti dei visitatori: «Comprendo la loro incredulità,
ma tutto ciò che ho dipinto è accaduto veramente», ha esclamato d’un tratto
Nath mentre mi accompagnava nella stanza in cui viveva e lavorava. Dal 1979,
anno in cui era stato liberato dall’incubo, Nath ha dedicato la sua vita a
testimoniare la sua esperienza nella S-21.

Quando e perché è stato arrestato?

«Sono stato arrestato alla fine del 1977,
ufficialmente per aver offeso l’Angkar (l’organizzazione politica dei Khmer Rossi, ndr). Ricordo che, per settimane intere, ho cercato di
ripercorrere ogni parola, ogni mio gesto per risalire all’attimo in cui è stato
deciso il mio arresto. Ma non sono riuscito a individuarlo. Ero un artista e
questo bastava per essere catalogato come nemico».

Delle 196 prigioni esistenti in Kampuchea Democratica, la S-21 è stata
la più «letale». Chi vi entrava poteva uscie solo morto. Che cosa l’ha
salvata?

«Mi ha salvato Pol Pot!» – dice ridendo -. «Sì, è vero,
Pol Pot mi ha salvato. Duch aveva notato la mia abilità artistica e Nuon Chea (numero 2 nella scala gerarchica dei Khmer Rossi, ndr) gli aveva commissionato un monumento plastico
raffigurante Pol Pot in marcia davanti a un gruppo di rivoluzionari. Avrebbe
dovuto essere costruito al posto del Wat Phnom (un tempio buddista, ndr).
Nel frattempo dovevo dipingere ritratti di Pol Pot».

Ha mai incontrato Pol Pot?
«Mai. L’ho visto solo in fotografia».
Il regime di vita è sempre stato brutale?

«No, verso la fine del 1978 il regime si fece
improvvisamente più rilassato e non c’erano quasi più torture. Anche le guardie
si mostravano più gentili. Penso che il regime avvertisse l’imminenza della
guerra con il Vietnam e cercava appoggi all’estero».

Dopo la sua liberazione ha dipinto quadri che raffiguravano scene di
vita quotidiana all’interno della prigione. È stato testimone diretto di tutto
ciò che ha rappresentato?

«La maggior parte le ho viste direttamente: i prigionieri
sdraiati e incatenati, quelli stremati e affamati, le unghie strappate durante
gli interrogatori, i morsi dei serpenti o degli scorpioni, le scosse
elettriche. Sentivo le urla di dolore, i pianti dei neonati e delle loro madri.
Vedevo i prigionieri caricati sui camion e portati a Choeung Ek. I camion
tornavano vuoti e tutti capivamo che fine avremmo fatto. Altre, invece, mi sono
state raccontate da altri sopravvissuti, come il dipinto del khmer rosso che
uccide un neonato sbattendolo contro un albero».

Pensa di essere stato obiettivo nelle sue rappresentazioni o ha in
qualche modo esagerato?

«È una domanda che continuo a farmi ed è un peccato che
nessun giornalista, fino a oggi me lo abbia chiesto. Sono stato “onesto”? Non
so. Per ciò che ho visto posso dire di sì».

Ha mai incontrato i suoi carcerieri?

«Sì. Ho incontrato Him Huy. Ha detto che se non avesse
fatto quello che gli era stato ordinato di fare, sarebbe lui stesso stato
ucciso. Ma ricordo che nei suoi occhi non vedevo alcuna pietà per i prigionieri
da lui torturati».

Recentemente è iniziato il processo ai dirigenti superstiti di
Kampuchea Democratica. Che effetto le ha fatto vedere Duch, il direttore della
S-21, alla sbarra?

«Non ho provato odio, voglia di rivalsa. Voglio solo
capire quale sia stato il meccanismo che ha prodotto tale regime, tale fobia
del nemico. Voglio capire. Non voglio vendetta. Penso di avere diritto a una
spiegazione. Non mi interessa neppure che vengano condannati. Fosse per me li
lascerei liberi a patto che ci diano delle spiegazioni. Perché è stato fatto
tutto questo? Solo così potremmo evitare il ripetersi di questi drammi. Voglio
che le future generazioni siano immuni da questi pericoli. Ma servono risposte.
Se il processo si limita solo a condannare, allora è tutto inutile».

Piergiorgio
Pescali

 

Piergiorgio Pescali

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