Le intercettazioni
telefoniche e ambientali sono come le radiografie per un medico:
indispensabili. Se si vuole accertare la verità, non si può rinunciare a questo
strumento investigativo, fissando però qualche «paletto» che salvaguardi gli
altri diritti coinvolti e bilanci gli interessi in gioco.
Di sicurezza si fa un gran parlare, nel nostro paese, e con
toni sempre forti. In campagna elettorale esagitati. Ma la propaganda e le
strumentalizzazioni possono spingere a scelte illogiche e incoerenti. Penso a
chi per tutelare la sicurezza invoca persino l’impiego dell’esercito nelle
strade. Penso a chi vorrebbe che la flotta respingesse in Libia i disgraziati
in cerca di sopravvivenza (scriviamo queste righe nei giorni dell’ultimo,
gigantesco naufragio). Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre
città con ronde di salute pubblica. E sono spesso le medesime persone che,
mentre strepitano di «tolleranza zero», non si preoccupano più di tanto dei
tentativi – ciclicamente ricorrenti – di smantellare i veri bastioni della
sicurezza, che sono le intercettazioni telefoniche e ambientali.
I vari tentativi di restringere il campo di operatività delle
intercettazioni che hanno costellato la storia del nostro paese negli ultimi
anni, avrebbero infatti ostacolato o condannato a esiti infausti le indagini su
delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e
più solido baluardo. Il segreto della efficacia delle intercettazioni sta nel
fatto che esse sono vere e proprie «radiografie giudiziarie» che consentono di
vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Ma
a certuni non piacciono perché sarebbero troppo «invasive». Facendo un
parallelo fra sicurezza sanitaria e sicurezza sociale, essere contro le
intercettazioni equivale a pretendere che i medici rinunzino a radiografie,
tac, risonanze magnetiche e simili perché – pur essendo utilissime – sono
appunto invasive. Meglio tornare alla medicina tradizionale, battere con le
nocche sulla schiena del paziente facendogli dire trentatrè… Se mai qualcosa di
simile dovesse accadere, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma
tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, potrebbe
accettare che si giochi con la sua pelle. Così come nessuno dovrebbe mai
accettare che si giochi con la sua sicurezza sociale comprimendo la possibilità
di ricorrere a quelle speciali «radiografie» che sono le intercettazioni.
Per fortuna questi tentativi «riduzionisti» sono stati per
lo più respinti. Almeno fino a oggi. E così possiamo tuttora constatare come
l’esperienza di un qualunque ufficio giudiziario inquirente o giudicante
quotidianamente offra un elenco interminabile di casi risolti grazie alle
intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono
individuati, o persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a
questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali.
Personaggi e
cittadini comuni
Per altro, il problema delle intercettazioni e della loro
disciplina sta tornando prepotentemente di attualità sotto un diverso profilo,
quello dell’utilizzo processuale ed extraprocessuale delle conversazioni
registrate. Questo problema, che periodicamente viene riproposto, acquista
speciale intensità quando emergono vicende che riguardano personaggi di una
certa notorietà, soggetti «forti» che hanno voce politica e/o mediatica. In
questi casi, infatti, scatta regolarmente – con significativa tempistica – la
richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti
o temono di finire sulle prime pagine dei giornali. Preoccupazione più che
comprensibile, ma non c’è populismo nel sottolineare come analoga sensibilità
quasi mai si riscontra quando sono in gioco gli interessi di «semplici»
cittadini comuni. Vero è che da sempre gli «arcana imperii» segnano le
barriere con cui il potere cerca di
proteggere le sue deviazioni. Poiché le
intercettazioni violano queste barriere e mettono a nudo il potere, ben si
spiega l’ostilità pregiudiziale di certa politica per gli incisivi controlli
che le intercettazioni consentono e per la divulgazione dei loro contenuti. Ma
questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare siluri sotto la linea
di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri cittadini.
Comunque la si pensi di questa «reattività» selettiva, è un
dato di fatto che le intercettazioni – strumento investigativo irrinunciabile –
pongono però complessi problemi di bilanciamento fra i diversi interessi in
gioco. Vale a dire: l’esigenza di accertare la verità, cioè la colpevolezza o
l’innocenza degli indagati, che può entrare in conflitto con il diritto alla
riservatezza dei soggetti intercettati; il diritto-dovere dei media di
informare; il diritto del cittadino di conoscere le vicende di interesse
pubblico; e infine anche il cosiddetto controllo sociale sulla amministrazione
della giustizia, il diritto cioè dei cittadini di verificare il funzionamento
della macchina giudiziaria. Il giusto equilibrio fra questi interessi non è
facile da trovare, ma va cercato senza sacrificarne nessuno, essendo tutti di
rilevanza costituzionale.
L’informazione e le
intercettazioni
In questi ultimi anni l’informazione ha avuto un ruolo
decisivo per far conoscere e, quindi, per contrastare meglio alcuni gravi
scandali avvenuti nel nostro paese. Basta ricordare le cronache cosiddette di Tangentopoli, Mafiopoli, Bancopoli, Furbettopoli,
Calciopoli, Vallettopoli e via seguitando. O
elencare i principali «scandali finanziari» italiani: dalla vicenda Sindona, ai
fondi neri di grandi imprese italiane (petrolieri e non solo), ai casi
Eni-Petromin, Banco Ambrosiano e Ior, alle trame della P2, ai retroscena del
lodo Mondadori, all’Enimont madre di tutte le tangenti, al crollo di Ferruzzi e
Montedison, alle traversie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, fino ai
crack Cirio e Parmalat e alle scalate bancarie, per arrivare ai giorni nostri
con Expo, Mose e Mafia capitale.
Se non ci fosse stata una informazione attenta (basata
anche su un’ ampia divulgazione delle intercettazioni), come per fortuna invece
c’è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto subire delle
ripercussioni negative. Dunque, il ruolo che l’informazione ha avuto in questi
casi deve costituire un punto di partenza. E se questo ruolo viene cancellato o
gravemente impedito, sono guai. Guai irreparabili, se del processo – mentre è
in corso – non si potesse raccontare più nulla (o quasi). E se, per raccontare
finalmente qualcosa, si dovesse aspettare la fine del processo stesso, una fine
che a causa del pessimo funzionamento della nostra giustizia arriva (se non
interviene la prescrizione che tutto cancella, cfr. MC 4/2015) con
ritardi biblici. Premesso ciò, si comprendono le preoccupazioni che solleva
l’intenzione proclamata dal presidente del Consiglio (per altro senza che sia
stato ancora presentato un qualche progetto scritto) circa la riforma delle
intercettazioni, posto che tra gli orientamenti che si fanno trapelare ve ne
sarebbero di drasticamente ispirati alla riduzione della pubblicabilità delle
intercettazioni, con gravi pene (persino il carcere) per i giornalisti e gli
editori che non rispettassero il divieto.
Accade spesso che si registrino conversazioni non
rilevanti per l’accertamento della verità ovvero relative a fatti e soggetti
del tutto estranei al processo. In linea di principio si è di solito d’accordo
nel ritenere che tali registrazioni non devono essere utilizzabili all’interno
del processo e neppure pubblicate all’esterno. Resta però il problema di
definire la «rilevanza» delle registrazioni tutte le volte che essa assuma
contorni sfumati e non sia possibile ancorarla a parametri univoci. Problema
che si pone soprattutto in presenza di «reti relazionali» articolate che
coinvolgano più soggetti (con posizioni diversificate, anche penalmente
irrilevanti), quando questa rete nel suo complesso possa incidere sulla prova
del reato indagato alla luce della sua tipologia (ad esempio, mafia e
corruzione, che tipicamente si nutrono di un intreccio di relazioni ricercate e
stabilite allo scopo di apparire in un certo modo, così da facilitare il giro
d’affari e l’accettazione nei salotti buoni).
Sciolto questo nodo, fissati i paletti necessari per
delimitare il perimetro delle conversazioni intercettate non utilizzabili nel
processo (in quanto relative a fatti o soggetti estranei), rimane soltanto il
materiale che è utile, necessario per l’accertamento della verità. All’interno
di questo perimetro, comprimere più di tanto la libertà di informazione
(costituzionalmente garantita) mi sembra pericoloso, perché rischieremmo di non
conoscere tempestivamente fatti gravi che i cittadini hanno il diritto di
conoscere. Di più: si impedirebbe anche alle autorità di controllo e al potere
politico che voglia ben funzionare di intervenire per frenare o raddrizzare le
storture segnalate. In altre parole, comprimere oltre i limiti suddetti il
diritto/dovere di informazione rischia di far prevalere l’«Italia delle impunità»
sull’«Italia delle regole». Con pregiudizio diretto per i cittadini onesti.
Grande fratello e
sperpero di denaro?
Si è soliti dire (e a forza di ripeterlo si finisce per
crederci) che la magistratura italiana avrebbe creato un «grande fratello» che
tiene sotto controllo (o scacco) milioni di cittadini, sperperando una quantità
incredibile di denaro pubblico. I dati della Procura di Torino parlano un
linguaggio tutt’affatto diverso. Le rilevazioni statistiche evidenziano che il
numero delle indagini (fascicoli) in cui è stato utilizzato lo strumento delle
intercettazioni telefoniche è in media di circa 300 all’anno, a fronte di un
introito medio dell’intero ufficio di Procura di 170.000 (noti e ignoti)
fascicoli all’anno. In percentuale, di tutte le indagini svolte dalla Procura
di Torino, quelle condotte anche attraverso l’utilizzazione di intercettazioni
telefoniche restano sotto lo 0,5%.
Per quanto riguarda la spesa, dal 2003 essa ha subito un
decremento costante. È giusto tuttavia continuare a pretendere un certo self restraint dei
magistrati sul numero delle intercettazioni, ma non è certo colpa dei
magistrati se il crimine (specie quello organizzato) ha la diffusione che ha
nel nostro paese, e se, per fronteggiarlo, gli strumenti principe sono i
collaboratori di giustizia e le intercettazioni.
Infine, va ricordato che, in Italia, tutte le
intercettazioni sono disposte e si svolgono sotto il controllo della
magistratura. In altri paesi quelle disposte dalla magistratura sono in
percentuale ridottissima rispetto ad altri organismi pubblici (si pensi alla
statunitense National Security
Agency e al caso Edward Snowden), mentre si sta
estendendo enormemente la raccolta massiva di intercettazioni telefoniche e di
dati internet soprattutto sul versante della lotta al terrorismo
internazionale. Ora, non v’è dubbio che il terrorismo vada combattuto senza
riserve, ma la risposta non può essere soltanto «militare». La sicurezza è un
bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e
dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che tuttavia non può essere
esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che i diritti diventino ostaggio della
sicurezza. Se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità,
allo sviluppo umano, ecco che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e
inefficaci. Un circolo vizioso che occorre rompere. Anche perché esso rischia
di preparare e introdurre nuovi poteri. Magari così assoluti da costituire – al
di là delle intenzioni – un pericolo per le libertà e la democrazia, nel
momento stesso in cui si avviano azioni finalizzate a tutelare proprio libertà
e democrazia.
Gian Carlo
Caselli
Tag: sicurezza, intercettazioni, diritti, giustizia
Gin Carlo caselli