La «mia» Irene

23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani.
Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.



Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.

Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.

La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.

Con personale del campo, dott. Elliot al centro

La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.

È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.

È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.

L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.

Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.

Gigi Anataloni

Suor Irene Stefani, suor Cristina Moresco, crocerossine al campo di Voi nel 1916, con padre Benedetto Pietro (con bicicletta) e il dottor Tisbone e il suo assistente nell’ospedale da campo per i carriers a Voi, nel 1916

Cenni biografici

La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.

Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.

Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.

Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.

Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).

Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)

Tomba originale di suor (beata) Irene Stefani

Tomba suor Irene nella chiesa del Mathari

Continua




Amico

 

A ssomigliano all’indemoniato di Gerasa posseduto dalla Legione (Mc
5,1-20) questo nostro mondo e l’uomo che lo abita: sembra che non riescano a
fare a meno di dimorare nei sepolcri e di gridare continuamente sui monti,
percuotendosi con pietre notte e giorno. Sembrano assillati da una moltitudine
di demoni, ciascuno dei quali ha il suo modo di manifestarsi, le sue personali
strategie persecutorie, ciascuno dei quali parla la propria lingua. Assillati
anche dai molti che, stringendoli in ceppi e catene, intraprendono tentativi
per «ridurli» alla normalità, per impedire loro di nuocere, per eliminare l’imperfezione
dall’umanità.

Il
Vangelo racconta di come Gesù liberi l’indemoniato mandando la Legione in una
mandria di porci, e di come questi si lancino dal dirupo nel mare di Galilea.
Lo stesso mare nel quale, qualche ora prima, i discepoli di Gesù avevano temuto
di inabissarsi, e avevano urlato al Maestro: «Non t’importa che moriamo?».

Il
mare di Galilea è simbolo, tra le altre cose, dell’inconscio abitato da demoni,
della contorta e conturbante natura dell’uomo che fa paura.

Pure
questa c’è tra le paure spezzate dal dono delle lingue a Pentecoste (At
2,1-11). Non solo il dono di parlare gli idiomi dei popoli, ma anche quello di
comprendere le lingue dei demoni che scuotono i singoli, le comunità, il mondo
intero, e di saper rispondere loro.

Saper affrontare la traversata
del mare senza lasciarci ingoiare dalla gola rapace dei demoni che ci lacerano,
e che lacerano la società, è un altro dei doni ricevuti. La vita accolta e
sposata per ciò che è, e non quella abbandonata o in via di perfezionamento, è
la rivelazione bella che ci viene fatta dal rombo dello Spirito.

E le lingue di fuoco vivo che
illuminano i volti dei discepoli, trasformano gli spauriti amici di Gesù in
apostoli.

Da amico
Buona Pentecoste,
buona festa delle lingue.
Luca Lorusso

Luca Lorusso




La laicità che allarga le opportunità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 28

Oggi l’Italia è un
paese multiculturale e multireligioso, molto diverso da quello che esisteva
soltanto alcuni decenni fa. Benché il diritto alla libertà religiosa sia
sancito dalla Costituzione, nel mosaico legislativo italiano mancano ancora
diversi tasselli. Uno fra tanti, ad esempio, è quello dell’intesa con l’Islam.
In attesa di una legge generale che, anno dopo anno, diventa sempre più ineludibile.

 


L’opinione comune è che in Italia non
esistano veri problemi all’esercizio della libertà religiosa. Essa, del resto, è
tra i diritti più tutelati. Ne parla la Costituzione, direttamente in ben
cinque articoli (3, 7, 8, 19 e 20) e indirettamente in altri quattro (2, 17, 18
e 21). La Corte costituzionale è stata chiamata in molte occasioni a garantie
il rispetto.

Perché dunque occuparsene?

Come emerge dalle interviste
pubblicate nei numeri precedenti di MC (si vedano i n. 1/2, 3 e 4 del 2015, ndr.),
la questione non è affatto risolta. C’è, sì, quanto prevede la Costituzione, ma
i suoi principi non sono ancora attuati del tutto e per tutti.

È tuttora in vigore la legge del ’29,
promulgata dunque durante il fascismo, che definiva la Chiesa cattolica come
religione dello stato riservando alle altre confessioni religiose la condizione
di «culti ammessi». Superato il fascismo e approvata la Costituzione
repubblicana, questa legge non era più sostenibile. La Carta fondamentale dello
stato riconosce infatti ai cittadini piena uguaglianza di fronte alla legge,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali (art. 3). Tuttavia sono occorsi diversi anni per
arrivare alla revisione del concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato
italiano che, nel 1984, ha reso possibile superare ogni prospettiva
confessionale, eliminando appunto il principio del Cattolicesimo come religione
dello Stato.

Il ruolo del Concilio

Si è giunti a tanto anche grazie al
Concilio Vaticano II, che ha una grande importanza per quanto riguarda la
libertà religiosa. In esso, infatti, la Chiesa ha proclamato «il diritto della
persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di
religione» (Dignitatis Humanae), ha rilanciato l’ecumenismo, dichiarando
come uno dei principali compiti «promuovere il ristabilimento dell’unità tra
tutti i cristiani» (Unitatis Redintegratio) e promosso il dialogo
interreligioso (dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le
religioni non cristiane).

Grazie al Concilio si è diffusa nella
Chiesa italiana una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa che ha
permesso, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di iniziare il cammino
della revisione concordataria concluso poi nel 1984 con la stipula del nuovo
concordato con lo stato italiano.

Il mosaico incompleto delle
intese

Sull’onda di
questo risultato si è aperta la «stagione delle intese», dando così attuazione
all’art. 8 della Costituzione, che le prevede ma che era rimasto fino ad allora
disatteso. Le intese, secondo la Costituzione, hanno il compito di
regolamentare i rapporti reciproci tra lo stato e le varie confessioni
religiose. La prima è stata siglata con i Valdesi proprio nel 1984. Negli anni
successivi sono state raggiunte intese con altre 11 confessioni. Dieci sono
state poi recepite nell’ordinamento giuridico italiano da apposite leggi,
necessarie per renderle pienamente operanti. Per una, quella con i Testimoni di
Geova, l’approvazione per legge non è ancora avvenuta.

In Italia,
insomma, si sta procedendo molto pragmaticamente per regolamentare la libertà
religiosa, costruendo una sorta di mosaico, di cui ogni nuova intesa
rappresenta un tassello, che tuttavia non è ancora concluso. Si tratta di
un’opera notevole e preziosa per rispondere alla geografia religiosa del nostro
paese, profondamente mutata nel corso del tempo anche per effetto dei flussi
migratori. Oggi infatti l’Italia è un paese multiculturale e multireligioso,
molto diverso da quello che esisteva soltanto alcuni decenni fa. Rimangono
aperti tuttavia problemi notevoli. Con l’Islam, ad esempio, non è ancora stato
possibile raggiungere alcuna intesa, soprattutto perché risulta difficile
individuare interlocutori in grado di rappresentare l’intera comunità islamica.
Si può comprendere quanto sia manchevole e fonte di problemi questa situazione
se si pensa che la questione non sta nel «concedere diritti» (che esistono già,
in quanto, appunto, sanciti dalla Costituzione e dalle leggi), ma
nell’integrare pienamente anche questa religione nell’ordinamento
costituzionale e giuridico del nostro paese: il che significa riconoscee i diritti
– tra cui quello ai luoghi di culto, spesso messo in discussione o addirittura
negato nei fatti ricorrendo a espedienti e cavilli: come non dimenticare la «guerra
delle moschee» che si è avuta negli anni scorsi in diverse città? – ma anche
definie i doveri verso la comunità nazionale in cui essa vive.

Tentativi a vuoto

Molti problemi sarebbero risolti se
si arrivasse ad approvare una legge generale che sostituisca definitivamente
quella del 1929.

È dal 1990 che il parlamento prova a
realizzarla, senza riuscirci: cosa che sorprende ancora di più se si comparano
tra loro i vari disegni di legge via via presentati dalle maggioranze che in
questi 25 anni si sono alternate in Parlamento. Essi, infatti, non sono molto
diversi tra loro nelle questioni fondamentali.

Perché allora un tale ritardo? Quasi
tutti riconoscono che una legge generale sulla libertà religiosa è necessaria.
L’ultimo tentativo per approvarla è stato compiuto nella XVI legislatura con la
«proposta Zaccaria» (vedi Mc aprile 2015, ndr.). Nella seduta del 24
luglio 2007 essa è stata «sepolta» sotto una montagna di emendamenti e si è
arenata, senza riuscire ad arrivare al voto.

Il motivo principale è stato il
rifiuto di molti del riferimento, contenuto nell’articolo 1, alla laicità dello
stato, così come definita dalla Costituzione, quale fondamento della legge che
si presentava al Parlamento. Nella Commissione affari costituzionali di
Montecitorio sono risuonate parole di sorpresa e commenti sdegnati, soprattutto
dai banchi del centrodestra. Qualcuno ha sostenuto che parlare di laicità come
fondamento della legge fosse in contrasto con la Costituzione e col principio
della libertà religiosa, qualcun altro ha affermato che fosse «pleonastico e provocatorio»
il parlarne in una proposta di legge che riguardava scelte da assumere «sul
versante della religione», altri ancora che stabilire «un principio di laicità
al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello stato» costituisse «uno
strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica
costituzionale».

È evidente che si è trattato di
fraintendimenti del concetto di laicità e anche di scarsa conoscenza del
significato che essa ha nella Costituzione del nostro paese. Anche questo può
aiutare a capire come mai il parlamento non riesca ad approvare una legge
generale sulla libertà religiosa.

L’imprescindibile concetto
di laicità della Stato

Non è possibile che una legge
riguardante questa materia prescinda dal principio della laicità dello Stato,
cioè dal fatto che esso non si identifica, né ha una posizione di favore, nei
confronti di alcuna religione. Lo stato è neutrale nei confronti della
religione, e proprio per questo può e deve assicurare agli individui e ai
gruppi la libertà di professare il proprio credo (o di non credere) e garantire
che non subiscano per questo motivo alcuna discriminazione.

La Corte costituzionale, con una
sentenza molto importante (n. 203 del 12 aprile 1989), ha chiarito la portata e
il significato della laicità secondo l’ordinamento italiano. Proprio
riferendosi al nuovo Concordato del 1984, essa ha sostenuto che laicità non
significa indifferenza dello stato dinanzi alle religioni. Al contrario,
costituisce la garanzia che esso, in un regime di pluralismo confessionale e
culturale, intervenga a salvaguardare la libertà di religione di tutti. Ma la
parte forse più significativa della sentenza sta nel riconoscimento che il
nuovo Concordato realizza pienamente la laicità prevista dalla Costituzione.
Infatti il dibattutissimo articolo 7, che attribuisce alla Chiesa cattolica una
condizione del tutto particolare, definita appunto da un concordato, appartiene
alle disposizioni che danno sostanza al principio della laicità dello Stato.

Insomma, è importante rilevare che la
laicità definita dalla Costituzione italiana non stabilisce la separazione
rigida tra lo stato e le religioni come fanno, sia pure con modalità molto
diverse tra loro, quella degli Stati Uniti d’America e della Francia. Per lo
stato italiano la secolarizzazione crescente della società non riduce
l’incidenza della religione o l’esigenza di religiosità delle persone. Il
principio di laicità, inoltre, riconosce l’eguale dignità delle diverse fedi
religiose, andando oltre il semplice principio della tolleranza. E questa è
l’architrave di una effettiva garanzia della libertà religiosa. Ma, e questo è
altrettanto importante, la stessa sentenza riconosce che la pari dignità di
tutte le confessioni convive, per ragioni storiche e culturali che l’ordinamento
costituzionale permette di riconoscere, con uno speciale regime a vantaggio del
cattolicesimo. È una situazione presente anche in altri paesi europei. A una
disciplina di natura generale della religione si affianca una disciplina
speciale.

Per un verso, insomma, si fanno leggi
valide per tutte le religioni, per un altro si ammette un regime bilaterale che
regola, sulla base del concordato, la condizione giuridica del cattolicesimo.
La laicità dello stato italiano, dunque, ha un carattere intermedio rispetto ai
modelli statunitense e francese. Si tratta di una «laicità aperta», in base
alla quale viene garantita la separazione dello stato dalle chiese, ma non
dalla religione. Viene riconosciuta la libertà religiosa e l’eguaglianza di
tutte le confessioni religiose ma anche il «patrimonio storico» del
cattolicesimo. Lo stato non fa propri i principi appartenenti alla sfera
religiosa, rendendoli obbligatori e vincolanti per i suoi cittadini, ma
contemporaneamente garantisce un’apertura dello spazio pubblico ai valori
religiosi. Si tratta, in altri termini, di un atteggiamento che, nei confronti
del fenomeno religioso, affida allo stato il compito non solo di evitare
discriminazioni e di tutelare il pluralismo, ma anche di allargare le
opportunità. La neutralità dello stato si identifica con il rispetto per
l’eguale dignità di tutte le credenze religiose e, naturalmente, anche della
mancanza di ogni credenza.

Riferirsi al «principio di laicità»
nel definire una legge sulla libertà religiosa non deve dunque costituire un
ostacolo alla sua approvazione.

Una necessità reale e
impellente

Risulta chiaro, comunque, che ancora
molto resta da fare. Una regolamentazione tuttavia è indispensabile. Infatti
l’esigenza di assicurare la libertà religiosa si presenta in molteplici
situazioni che fanno parte della vita ordinaria delle persone, come
l’alimentazione, la sepoltura, il matrimonio, l’educazione scolastica, il
lavoro, il ricovero nei luoghi di cura. Ma vanno regolamentati anche il rispetto
delle festività religiose, la disponibilità e la tutela degli edifici di culto,
il libero esercizio dell’attività dei ministri di culto, l’assistenza
spirituale ai carcerati, i rapporti con le pubbliche amministrazioni,
l’appartenenza alle forze armate. Non si tratta di questioni formali o
astratte. Per darvi risposta si può procedere «pragmaticamente» seguendo la
strada delle intese. Ma si deve essere consapevoli che il risultato sarà
ottenuto pienamente solo quando il «mosaico» sarà completato, cioè quando si
arriverà a un quadro legislativo generale delle condizioni che rendono
effettiva la libertà religiosa, eliminando ogni discriminazione in questo
ambito. È una necessità reale e impellente, che sarà soddisfatta solo se
governo e parlamento riusciranno finalmente a superare il limite da più parti
evidenziato, della mancanza nella storia recente del nostro paese di una
consapevole e organica politica ecclesiastica.

Paolo Bertezzolo

Tags: patti lateranensi, concordato, concilio vaticano II, laicità della stato, legge, libertà religiosa, intese

Paolo Bertezzolo




Cibo: bisogno di tutti, monopolio di pochi

Un pugno di
multinazionali controlla il 70% dei semi. E quattro gestiscono il 90% della
distribuzione di alimenti. Sono loro che decidono cosa mangiamo. Le risorse per
produrre cibo – terra, acqua, capitali – sono sempre più appannaggio di pochi.

 

All’Expo di
Milano, ci sono tutti: Capi di stato, governi, istituzioni inteazionali,
imprese e organizzazioni della società civile. Davanti a milioni di visitatori
ammaliati, discutono di questioni alimentari e si sforzano di dimostrare, con
le parole e con la pratica, come si può nutrire il pianeta, rigenerando la
vita.

Di
fronte a tanta energia positiva, a tanto impegno e competenze, viene spontaneo
chiedersi perché non ci si è pensato prima, perché bisognava organizzare
un’esposizione universale per trattare di un tema che è al centro della
sopravvivenza umana?

Era
proprio necessario organizzare un evento così grande, con investimenti così
ingenti e con gli strascichi di malversazioni che lo hanno accompagnato, specie
all’inizio, quando i controlli non erano stati ancora attivati? Non ci si
poteva sedere attorno a un tavolo e trovare le soluzioni? Non sarebbe stato
meglio mettere in pratica le raccomandazioni e i piani di azione che negli anni
le agenzie dell’Onu specializzate, la Fao, il Programma alimentare mondiale e
Ifad, hanno messo a punto in decine di conferenze, ricerche e documenti?

Da
tempo si poteva agire per sottrarre alla fame 840 milioni di persone che ancora
ne soffrono, e salvare dalla malnutrizione i 161 milioni di bambini che ne sono
colpiti.

Semplicemente perché viviamo in un mondo complesso
e sbagliato dove chi è povero e debole non riesce a far sentire la sua voce, né
a influenzare le scelte politiche ed economiche.

Per
questo ci voleva l’Expo, perché le persone comuni, i consumatori, i giovani
capissero e dicessero: basta, facciamo qualcosa!

Perché
fosse chiaro quello che il Mahatma Gandhi intuiva quasi cento anni fa: «La
terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, non l’avidità di
pochi».

Tutti
gli abitanti del pianeta potrebbero ricevere una nutrizione sufficiente e di
qualità se ci fosse un po’ di giustizia in più, se si mettesse un freno al
monopolio delle risorse necessarie per produrre e distribuire il cibo: terra,
acqua, capitali.

Oggi
queste risorse sono concentrate nelle mani di poche grandi imprese: sette
multinazionali controllano il 70 per cento del mercato dei semi, dieci si
spartiscono le foiture di pesticidi, nel mercato dei cereali 9 transazioni su
10 sono controllate da quattro corporations. I grandi marchi che dominano la distribuzione sono una
decina: Nestlè, Kraft, Unilever, Pepsi, Mars, Danone, Kellodg’s, General Mill,
Coca Cola.

Sono
loro che decidono cosa dobbiamo mangiare: cibo sano che ci mantiene in salute o
cibo spazzatura che aumenta il rischio di malattie.

Sempre
loro indirizzano la ricerca scientifica nel settore alimentare, per la quale è
più profittevole studiare ortaggi a lenta maturazione per rifornire le tavole
del mondo ricco piuttosto che piante resistenti alla siccità per nutrire le
popolazioni dell’Africa saheliana.

Sono
le grandi imprese dell’agroindustria che, per garantirsi i profitti futuri, si
accaparrano le terre e le fonti d’acqua comprandole da governi irresponsabili e
corrotti in paesi dove i poveri sono sempre di più e contano sempre meno.

Queste
imprese sono venute all’Expo di Milano a mostrare le loro strabilianti
innovazioni e le loro merci evolute con l’obiettivo di tenere alta la propria
reputazione. Sanno, infatti, che la riprovazione pubblica e la condanna morale
danneggiano i buoni affari.

Fortunatamente
la denuncia delle loro responsabilità non rimane più circoscritta a pochi
ostinati, a livello politico e tra i cittadini si sta diffondendo l’idea che il
loro comportamento va tenuto sotto controllo.

L’Ocse
e l’Onu hanno promosso le «Linee guida» per le imprese in materia di ambiente e
impatto sociale. L’anno scorso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ha approvato un’importante risoluzione per la quale si arriverà ad
adottare uno strumento legalmente vincolante, che potrà sanzionare le imprese
colpevoli di violazioni dei diritti umani.

Alcune
Ong hanno attivato sistemi di monitoraggio in numerosi paesi del mondo ed
esiste una piattaforma creata dal Center for Business and Human Rights, un ente
non profit che ha sede a New York, consultabile dai consumatori per valutare le
politiche e la condotta delle imprese dal punto di vista sociale e ambientale.

Come
visitatori e come organizzazioni sociali siamo presenti a Expo anche per
questo, per dire alle grandi imprese che il loro gioco non ci piace e che
vogliamo cambiare le regole.

Sabina Siniscalchi




Roma e i migranti / 2

Nella prima puntata
di questo reportage abbiamo raccontato delle origini dell’accoglienza nella
capitale, della situazione dei migranti dal punto di vista sanitario e di
baraccopoli e occupazioni, introducendo il tema dei rifugiati. Riprendiamo da
qui, allargando la prospettiva anche alla condizione dei Rom.

 


«È impossibile essere precisi sul numero totale di rifugiati che
attualmente vivono a Roma: le stime dicono fra le otto e le diecimila unità». A
parlare è Berardino Guarino, responsabile dei progetti della Fondazione Centro
Astalli. «I percorsi che richiedenti asilo e rifugiati seguono per trovare un
posto dove stare sono tipicamente quattro: in primo luogo, ci sono i 2.500
posti gestiti congiuntamente da Comune e Servizio di Protezione dei richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), che hanno liste d’attesa di due o tre mesi e un tempo
di permanenza limitato. A questo primo canale si affiancano poi il circuito
degli eventuali amici e parenti, i posti messi in campo direttamente dalle
Prefetture e, infine, gli insediamenti informali, come gli stabili occupati e
le baraccopoli». In totale, gli abitanti di questi ultimi sono stimati in circa
sei-settemila, dislocati nei quattro grossi edifici come il Selam Palace (vedi
articolo precedente, ndr) e in diverse altre realtà di dimensioni più
piccole. La stragrande maggioranza degli occupanti sono migranti, quasi tutti
in possesso di permesso di soggiorno.

L’associazione Centro Astalli – sede italiana del
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, di cui la Fondazione è la «sorella»
impegnata nel campo della formazione e sensibilizzazione – gestisce una
pluralità di attività fra le quali la mensa, che distribuisce circa ottomila
pasti al mese, i centri di accoglienza, che ospitano annualmente circa duecento
persone, il centro notturno, il cui dormitorio ha ricevuto nel 2013 oltre
duecento persone, e l’ambulatorio, con più di duemila accessi l’anno. «Anche
l’accettazione, presso la sede di Via degli Astalli, ha un’importanza
fondamentale: per presentare domanda d’asilo, i migranti devono infatti
dimostrare di essere reperibili e nel 2013 sono stati oltre seimila i
richiedenti asilo e rifugiati che si sono domiciliati da noi».

Oltre al Centro Astalli, in città sono attivi
nell’accoglienza ai migranti forzati altre organizzazioni fra cui la Caritas,
la Comunità di Sant’Egidio, l’Arci. Il cornordinamento cittadino, prosegue
Guarino, è buono, ma se la situazione rimane problematica sia nella fase
dell’accoglienza che in quelle successive è perché «a monte, l’Italia non ha
mai avuto un piano per l’integrazione. Abbiamo integrato cinque milioni di
stranieri a prescindere dallo stato». E gli errori non si limitano a questo: è
stato un errore firmare la convenzione di Dublino, è un errore pensare che
Triton, l’operazione dell’agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex
subentrata lo scorso novembre alla missione italiana Mare Nostrum, sia la
soluzione. «Nei primi due mesi del 2015 sono sbarcati tremila migranti in più
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Dovrebbe riflettere su questo
chi diceva che Mare Nostrum era un incentivo alle partenze in quanto missione
di salvataggio e non, come Triton, di protezione dei confini».

L’Europa ci lascia da soli a gestire l’emergenza? «Sì»,
conclude Guarino, «ci lascia soli nel senso che su diritti umani e immigrazione
non v’è certamente lo stesso cornordinamento che vediamo per le politiche
economiche. Inoltre, gli stati europei con gli standard di accoglienza più
elevati, come la Germania, temono che i paesi con meno coscienza civile non
rispettino gli impegni eventualmente presi in sede europea», facendo a scaricabarile
per non accollarsi i costi della gestione dei flussi migratori. La Germania
alla fine del 2013 ospitava circa trecentomila fra rifugiati e richiedenti
asilo a fronte dei nostri novantamila e aveva 126 mila nuove richieste d’asilo
contro le 26 mila in Italia.

La
popolazione romanì: Rom e Sinti a Roma

In Via Anicia, a due passi dalla Basilica di Santa
Cecilia in Trastevere, una ventina di persone aspetta fuori dalla porta del
Centro «Genti di Pace» della Comunità di Sant’Egidio. Un centinaio sono invece
già all’interno del centro: sono Rom e Sinti di tutte le età. Ogni venerdì
arrivano dai campi per parlare con i consulenti per l’orientamento
amministrativo e legale o per fare una visita medica presso l’ambulatorio.
Altri sono in attesa di usare le docce, di ricevere provviste alimentari, di
ritirare la loro biancheria lavata e asciugata nella lavanderia del Centro o di
prendere un indumento dagli scaffali della sala dove, impilati e divisi per
tipo, sono sistemati i capi frutto delle raccolte di vestiti usati. «Si
registrano all’accettazione», spiega Paolo Ciani, il responsabile delle attività
di Sant’Egidio con i Rom e i Sinti, «ricevono gratuitamente la tessera del
centro e da quel momento possono accedere ai servizi». Grazie anche alla
registrazione, il Centro è diventato un osservatorio sui nuovi arrivi: i più
recenti sono quelli delle comunità bulgare, da circa cinque anni a questa
parte, mentre le prime presenze delle comunità rumene risalgono al decennio fra
il 1990 e il duemila, precedute di vent’anni dai Rom della ex Jugoslavia.

«Fra campi autorizzati e campi spontanei», precisa
Ciani, «vivono a Roma fra le sei e le settemila persone». Circa il doppio del
totale dei rom e sinti in città – gli altri vivono nelle case  – e più o meno un sesto del dato nazionale,
che stima in quarantamila gli abitanti dei campi. L’assegnazione delle case
popolari a questi rom è stata, fino a tre anni fa, impraticabile: il punteggio
nelle graduatorie per chi richiede l’alloggio aumenta infatti per chi ha subito
sfratti e vive in emergenza abitativa, ma lo sgombero non era parificato allo
sfratto né i campi erano considerati luoghi a emergenza abitativa. Ora i
criteri per le graduatorie sono cambiati e il tempo dirà se lo saranno anche i
risultati.

I Rom della ex Jugoslavia sono il gruppo che più di tutti
ha vissuto in ghetti ai margini della città: molti sono nati qui, figli o
nipoti di persone che lasciarono la Jugoslavia durante la guerra e che non
hanno poi acquisito la cittadinanza di uno dei paesi nati dalla dissoluzione
del paese balcanico. «Vivono perciò in un limbo giuridico nel quale sono
apolidi de facto ma non de jure e non possono chiedere per i
propri figli il riconoscimento della nazionalità italiana».

Ma anche per chi ha una situazione giuridica meno
complicata l’uscita dalla condizione di marginalità è difficile. Uno dei banchi
di prova è quello della scuola. È «sintomatico di come lo stato ha trattato
queste comunità. Ci sono stati diversi passaggi: nel primo, le istituzioni non
erano sicure nemmeno del fatto che fosse opportuno scolarizzare i bambini rom e
i dubbi nascevano a volte da pregiudizi culturali “al contrario”, cioè di
malintesa difesa della cultura rom da quella gagé (non rom). Poi è
cominciato un percorso in cui si chiedeva alle famiglie almeno di iscrivere i
figli a scuola e dopo di iscriverli e mandarli almeno qualche volta. E a questa
sequela di “almeno” si è affiancato l’uso della scuola come “merce di scambio”
fra Rom e istituzioni: mando i miei figli a scuola se mi dai un campo
attrezzato, non ti caccio dal campo se mandi i bambini a scuola».

A questo poi poteva aggiungersi un problema legato a una
presa in carico che non coinvolgeva abbastanza le famiglie: i bambini
diventavano quasi figli delle associazioni per l’assistenza ai Rom, che si
occupavano di andare ai ricevimenti con gli insegnanti e di ritirare le pagelle
mentre i genitori stavano al campo, completamente deresponsabilizzati.

Ma senza scuola non si fanno progressi. «In questi
decenni di lavoro con i Rom abbiamo visto che dove si è riusciti a scolarizzare
una generazione, questa poi a sua volta ha mandato a scuola i propri figli e si
è innescato un circolo virtuoso». Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine
sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti della Commissione diritti umani del
Senato, pubblicata a febbraio 2011, a Roma sono circa 2.200 i bambini rom
iscritti a scuola: la maggioranza, ma i dati cambiano di parecchio a seconda
che i bambini vivano o meno in campi attrezzati e raggiunti da interventi
sociali.

Quanto al modo di procurarsi denaro, gli operatori non
si stancano di ripetere che il ricorso al furto o ad altre attività criminali
interessa gruppi minoritari e diminuisce all’aumentare dell’inclusione sociale.
In una città come Roma, dove il clan dei Casamonica – Rom italiani di antico
insediamento – è nota per attività quali usura, rapine, estorsioni,
sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e stupefacenti specialmente
nel settore Est della Capitale, è difficile evitare che chi ne legge le «gesta»
nelle cronache locali faccia poi l’equazione: zingaro uguale criminale. «Eppure»,
riprende Ciani «se ora chiedessimo ai rom qui al Centro che cosa ne pensano dei
Casamonica, molti non capirebbero nemmeno di chi stiamo parlando».

La popolazione romanì cerca di garantirsi la
sussistenza con diversi mezzi: secondo il quadro delineato da Sant’Egidio,
all’elemosina ricorrono più che altro quelli arrivati di recente. Ci sono poi i
cosiddetti rovistatori, quelli che cercano nei cassonetti dell’immondizia,
attività che crea una serie di problemi: innanzitutto, contribuisce a
diffondere la percezione che i Rom sporcano la città. Poi c’è la questione di
come e dove rivendere quanto raccolto e il timore del proliferare di mercatini
informali. Infine c’è chi la mette in termini di danno al decoro urbano, «come
se il fatto che sia brutto vedere qualcuno che rovista nell’immondizia»,
puntualizza ancora Ciani, «fosse più importante che capire perché lo sta
facendo o evitare che sia costretto a farlo». A Roma l’idea del decoro urbano
appare peraltro un po’ contraddittoria, considerando che legare una bicicletta
alla staccionata di un parco pubblico rischia di attirare l’attenzione della
polizia municipale mentre macchine in doppia fila e motorini sui marciapiedi
hanno maggiori probabilità di passare in cavalleria, quasi fossero un male
necessario.

La frase dell’assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma, Francesca Danese, circa la possibilità di impiegare i Rom nella
raccolta dei rifiuti ha scatenato lo scorso febbraio una tempesta di polemiche.
Secondo Paolo Ciani, la frase dell’assessore è stata recepita dai media e dal
mondo politico nel peggiore dei modi: «È ovvio che un Comune non può demandare
la differenziata ai rom. Ma ragionare su un possibile inserimento lavorativo
che valorizzi le competenze specifiche delle persone non è certo sbagliato».

E le competenze non si fermano al riciclo: la raccolta e
la lavorazione dei metalli è da sempre un altro campo nel quale i rom sono
piuttosto esperti. In diversi casi hanno aperto partite Iva e svolgono
l’attività in modo non meno regolare di altri. Hanno anche gli stessi
grattacapi dei colleghi gagé per via delle direttive Ue sulla
tracciabilità dei metalli: se i documenti non sono in ordine, i commercianti si
vedono il camion sequestrato e l’attività sospesa. Quanto ai famigerati roghi
alla diossina che si alzano dai campi e che esasperano gli abitanti dei
quartieri circostanti, in alcuni casi sono fuochi per bruciare l’immondizia, in
altri un modo per separare il rame dagli altri materiali. «E allora perché non
pensare a creare foi appositi e in regola con le normative, costruendoli
grazie a una colletta a cui partecipino i Rom stessi, piuttosto che impedire e
reprimere un lavoro, come quello della raccolta del metallo, ben avviato,
remunerativo e utile?». Ma, come Mafia Capitale ha dimostrato, l’anarchia e gli
sgomberi senza ricollocazione, che poi creavano altri insediamenti informali
pochi chilometri più in là o che foivano nuovi «clienti» ai campi gestiti
dalla cupola romana, facevano comodo a chi lucrava sulle situazioni
emergenziali, vere o presunte.

I contraccolpi dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo per ora
non si sono avvertiti nel concreto dell’accoglienza e della gestione del
disagio, fatta eccezione per il ritardo nel piano per l’emergenza freddo
dell’inverno scorso. Ma i contraccolpi culturali sono stati pesanti:
soprattutto per il diffondersi dell’idea che non vale la pena di spendere
denari per migranti e rom, perché tanto finiscono «mangiati» dalle associazioni
che campano sul business dei poveri. Queste spesso finiscono tutte nello stesso
calderone, anche chi lavora seriamente. Per quanto riguarda i rom in
particolare, conclude il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, Mafia
Capitale ha anche fatto aumentare il disprezzo verso i gagé: fanno
affari sulla nostra pelle, dicono i Rom, con una generalizzazione eguale e
contraria a quella applicata a loro. E così crescono anche «il vittimismo a cui
tanti rom finiscono per abbandonarsi e la rassegnazione, che investe sia la
popolazione romanì che le istituzioni che con essa si rapportano».

È già buio, un altro autobus raccoglie il suo carico di
umanità per portarlo dalle arcate di travertino del Teatro di Marcello ai
casermoni della Magliana. Sull’autobus, tutti fanno smorfie e si tengono il
naso fra due dita per non respirare l’odore acre che ammorba l’aria. Un ragazzo
con lunghe ciocche bionde di capelli infeltriti è nell’ultimo sedile, con la
fronte pallida posata sullo schienale davanti, forse svenuto. L’orlo slabbrato
dei pantaloni lascia vedere i piedi scalzi, sudici. «Non si può vivere così»,
dice un uomo non più giovane con accento dell’Est Europa seduto accanto alla
moglie, «bisogna lavarsi! Vedi?, oggi sono stato a Via Anicia, ho vestiti
puliti, io, ho fatto la doccia».

Roma trova tanti modi per dirti che sotto alla crosta
fragile della grande bellezza i ruoli si invertono in un attimo, e quasi niente
è quello che sembra.

Chiara Giovetti

Tags: Migranti, Roma, Rom e Sinti, Rifugiati, Centro Astalli

Chiara Giovetti




in realtà, l’Africa non esiste

Diario di un giovane
da Isiro /2

Il servizio al centro
nutrizionale, i viaggi in piena foresta, gl’incredibili itinerari a piedi, in
bici o moto, il Natale con 30°, i giochi con i bimbi, le serate attorno al
fuoco contemplando volti, balli, stelle. La riscoperta dell’essenziale. La sorpresa di
un’Africa inattesa. Seguiamo Tommaso nella sua esperienza missionaria.

 


2 Novembre 2014

Sono partito per Neisu. In lingua locale «neisu»
significa «cuore». In effetti, siamo nel cuore della foresta equatoriale. Il
viaggio Isiro-Neisu (30 km) è stato in pieno stile africano: Defender piena di
persone, io e altri due nel bagagliaio. Siamo in foresta, e il posto è
bellissimo. Vicini alla missione ci sono l’ospedale e la grande chiesa.
Inoltre, ad accogliermi ci sono dei meravigliosi muffin alla banana e dei
biscottini deliziosi alla soia: dolci veri dopo due mesi. E la cosa bellissima è
che li producono qui in casa anche per il centro nutrizionale dell’ospedale. È
già in programma che imparerò a farli.

Qui sono nel «regno» di padre Rinaldo Do, un vero
vulcano. Con lui le cose da fare non mancano mai. Bisogna stare attenti a farsi
vedere in giro perché ti trova sempre un lavoro. Ha un grande carisma, e la
gente gli vuole veramente bene.

In parrocchia, il sabato pomeriggio, ci sono le prove
della corale e gli incontri dei gruppi. Mi son buttato in mezzo a quel traffico
di gente, e sono stato con i bambini e i giovani. Dato che anche qua la frase
di presentazione è «donne moi de l’argent» («dammi dei soldi»), mi sono
inventato che «argent» in italiano significa botte, così dopo i primi
scappellotti sulla testa e le annesse risate, hanno smesso di chiedere.

Dovete sapere che la missione, oltre ad avere in carico
l’ospedale e la parrocchia, si occupa di altri 83 villaggi-cappelle sparsi
nella foresta. La più lontana è a 70 km. Quindi i padri, a tuo, partono in
moto o in bici e stanno via dei giorni.

Qui s’impara una cosa, cioè che la felicità è la nostra
condizione naturale. Se ti domandano: perché sei felice? La risposta è: perché
no? Il mio stare bene non dipende dal fatto che il mondo va bene, ma piuttosto è
il mondo che va bene perché io mi sento bene. La felicità è dentro di noi, non
viene da fuori, quindi nessuna situazione o persona può rubarcela. Che storia quest’Africa.

6 Novembre 2014

Neisu, Neisu, quanto mi regali! Qui si vive tra la gente,
dove si vede la vera vita dell’Africa. Sono andato vicino alla missione, dove
si produce olio di palma. Dovete immaginarvi un grosso palo in cui è inserito
un pezzo di ferro, e le persone lo spingono facendolo girare. Per lo sforzo
fisico enorme la quantità di olio estratto è davvero poca. Con il lavoro di un
intero pomeriggio di tre persone (senza contare il tempo speso a raccogliere i
semi della palma) si produce una tanica di olio che viene venduta a 6mila
franchi (circa sei euro): una miseria. Eppure qui è così, si lotta per sfamare
la famiglia e cercare di mandare a scuola qualche figlio.

Ah, la scuola: Isiro in confronto è un paradiso. Insieme
a padre Rinaldo sono andato in bici a visitae diverse. Ci sono ragazzi che
per andare e tornare dalla scuola fanno 14 km a piedi. E, tornati a casa di
sera, devono ancora lavorare e studiare. Per aiutarli, padre Rinaldo sta
lanciando un progetto per acquistare biciclette da rivendere a un prezzo
accessibile. Inoltre in foresta ho visto «classi» di ragazzi dentro una mezza
capanna con una lavagna e senza i banchi. C’è veramente da pensare alla fortuna
del nostro sistema scolastico. Inoltre, a causa della retta qualcuno deve
sospendere la scuola. Potete immaginare i problemi che ciò comporta.

Molto toccante la visita giornaliera ai malati
dell’ospedale.

Infine mi diverto a passare i pomeriggi con i bambini
fuori dalla parrocchia. Pensate, oggi ho insegnato «bandiera genovese».

Sabato partirò in bicicletta per andare in un villaggio a
otto km di distanza, e passerò la notte fuori, ma questo è niente in confronto
al resto: lunedì partirò con padre Rinaldo in moto per raggiungere dei villaggi
a 60 km da qui. Passeremo circa dieci giorni in foresta, senza contatti e
vivendo come e con la gente, mangiando quello che ci offriranno. Questa sarà
sicuramente la più grande prova di adattamento all’essenzialità che farò nella
mia vita.

9 Novembre 2014

Partiamo con due bellissime bici. Qui in Africa ho
imparato una certa prudenza, e mi porto dietro un kit di sopravvivenza
consistente (meglio chiamarlo armadio, per la quantità di cose). Il percorso su
sentirneri sterrati nel mezzo della foresta è meraviglioso, anche se
faticosissimo per il fango, le buche e le continue salite e discese, oltre che
per il sole cocente.

«Sfrecciando» come un bradipo vedo le capanne della gente
che vive in foresta, sento le grida dei bambini che, a ogni curva ci incitano,
manco fosse il traguardo della «nove colli», osservo la potenza della natura in
tutto il suo splendore e il sudore della gente per guadagnarsi da vivere. Sì,
ho smesso subito di pensare alla mia fatica, non appena mi sono ricordato che
ci sono lavoratori (molti ragazzi) che trasportano sulla bici 25, 50 kg di
roba, e per molti chilometri di più.

Dopo 40 minuti, arriviamo in un villaggio su un
bellissimo e grande spazio. Siamo subito accolti alla grande e ci viene
affidata la camera: una stanzetta di fango con un tetto di frasche.

La vita del piccolo villaggio è molto semplice e
accogliente, sotto la paillote (una specie di capanna dove si accolgono
i visitatori) si radunano i bimbi e alcuni adulti, e stiamo lì a parlare. Per
passare il tempo, improvviso un gioco simile a Pictionary, disegnando con un
bastoncino sulla terra. Verso le 18 ceniamo. Del buonissimo mais arrostito,
l’immancabile riso, e il mitico pondù (foglie di manioca pestate e cotte
con pasta di arachidi). La quantità di cibo è esagerata, così, dopo aver
mangiato un po’, lasciamo lì, sapendo che sarà la cena della famiglia della
capanna accanto. Nel frattempo arriva il capo catechista di quella zona, ci
sistemiamo di nuovo sotto la paillote mentre cala un buio pesto. Stanno
arrivando bambini e giovani dalle cappelle dei villaggi vicini per passare la
notte e la messa del giorno dopo insieme. Viene acceso un grande fuoco in uno
spiazzo libero e incominciano canti e balli con tutta la gente: una meraviglia.
A una certa ora andiamo a «dormire». Inizia a piovere forte, la pioggia dentro
la cameretta di fango e foglie si sente fortissimo, e mi chiedo come faccia a
non entrare l’acqua. Ma non è finita: i bambini dormono quasi all’aperto, e per
loro è come un campeggio. Quindi voci, canti, grida e schiamazzi continuano per
tutta la notte. A parte la stanchezza, apprezzo molto l’esperienza della
nottata all’africana. Dopo la colazione inizia la messa. Una corale potente
viene accompagnata da tamburi e uno xilofono gigante di bambù. Durante
l’offertorio vengono portati dei doni (per lo più cibo), tra cui una simpatica
gallinella viva, tutta legata. Il pranzo è nuovamente molto abbondante.
Assaggio un po’ di tutto, ma l’appetito mi passa sapendo che quel cibo poi
sfamerà altre persone, e che io potrò mangiare più tardi. I cinque kg di
bagaglio si rivelano utili perché medico una ragazza che si è scottata con
dell’acqua bollente. Si fa l’ora di tornare a casa. Questa volta con me viaggia
un’amica che, quando prendo delle buche si lamenta ammonendomi: è la gallina.

20 Novembre 2014
Makpulu, foresta equatoriale.

Dopo il viaggio in moto, insaccato come un salame tra i
bagagli e padre Rinaldo, in mezzo a foreste e villaggi su sentirneri scassati,
siamo arrivati in una bella capanna con tanto di tetto in lamiera. Da Makpulu
ci siamo spostati a visitare, in bici, altri sei villaggi. E quindi un giorno sì
e uno no eravamo a dormire, mangiare, dire messa, in un posto diverso. In un
caso, dopo avere raggiunto un villaggio in bici, il giorno dopo ne abbiamo
raggiunto un altro con due ore di cammino a piedi in mezzo alla foresta e a
corsi d’acqua, con la scorta di abitanti del luogo armati di machete.

La fatica per raggiungere i villaggi è sempre stata
ampiamente ripagata dalla folla di gente che ci ha accolto con canti e danze.
Inoltre l’adattamento alle condizioni di vita della gente, per noi impensabili,
è stato molto semplice, una volta compreso che quello che per me è scomodo, è
vita normalissima per altri.

Quante mani strette. Mani piccole e grandi, malate e
sane, giovani e vecchie, morbide e dure, felici e tristi, pulite e sporche. Qui
il saluto più importante è la stretta di mano. C’è il modo normale di darla e
ce n’è un altro che esprime grande gioia. All’inizio non avevo compreso questa
differenza. Quando l’ho colta non potete capire com’è cambiato tutto. Mi sono
sentito accolto e a casa. La loro semplicità nel prepararci i letti, l’acqua
per lavarci e i pasti con grandissima cura, mi hanno fatto capire che per far
sentire bene una persona non c’entra cosa si offre, ma il modo in cui lo si fa.

Credo che non scorderò facilmente questi giorni: i bans
insegnati, le canzoni imparate, quei cieli nottui con un’infinità di stelle.
E il fuoco, grande e forte, attorno al quale, al calare del buio, si radunano
bambini, giovani e vecchi, le mani battono sui tamburi e si scatenano le danze
in cerchio, cantando a squarciagola, con un ritmo travolgente, che ti spinge a
smettere di cercare di capire i passi che non conosci, e a seguire il ritmo
della musica e basta. La gioia intorno a quel fuoco non si può descrivere.
Sarebbe come guardare un tramonto in foto: puoi dire che è bello, ma non vivi
le emozioni, non sai se l’aria era calda o se c’era il vento.

Sono cambiato in questi giorni? Ovviamente sì, non puoi
rimanere uguale. Non sono quelle immagini prive di compassione che passano in
tv mentre si è a tavola o sul divano. Tutto questo c’è davvero, e il minimo da
fare è non essere indifferenti e rileggere la propria vita alla luce di ciò.

30 Novembre 2014
Tornato a Isiro da una settimana. Tornato a casa.

Lunedì sarà l’anniversario dei 50 anni dal martirio della
beata
Anuarite, congolese e martirizzata proprio a Isiro, e martedì sono arrivati da
noi sei vescovi. Al loro arrivo, con quattro giorni di anticipo, in casa è
iniziato il putiferio, e io, oltre a preparare le stanze, mi sono messo a fare
un chilo di ravioli. Gli africani non apprezzano molto i cibi stranieri,
infatti ne hanno mangiati pochi, ma non vi preoccupate: li ho finiti io.

In questi giorni abbiamo anche salutato due diaconi che
partivano per essere ordinati sacerdoti nei loro paesi, ed è partito Jeremy.
Questo significa che io sono, di punto in bianco, diventato il responsabile
dell’orto. E così mi sono accorto che la stagione delle piogge mi manca da
morire. Adesso bisogna annaffiare l’orto mattina e sera, il che richiede un’ora
e mezza ogni volta. Ora capisco l’importanza delle piogge, soprattutto per la
gente che, durante la secca, non ha l’acqua.

Insieme ai vescovi è arrivato un esercito di suore che ci
hanno letteralmente invaso la casa. Ma non è finita: ieri sono arrivati anche
il cardinale e il nunzio apostolico del Congo, accompagnati da quattro guardie
del corpo. Dovete sapere che qui in Congo la chiesa si è esposta molto
opponendosi alla modificazione della Costituzione, per impedire che il
presidente rinnovasse ancora il mandato. Quindi il cardinale potrebbe
addirittura essere bersaglio di un attentato.

In tutto questo tran tran, il grande Ivo è stato dietro a
tutto. Il prossimo martire del Congo, se va avanti così, sarà lui. In questi
giorni non sono andato quasi mai a Gajen per dare una mano qua in casa. Eh già.
È bello chiamare casa questo posto. Qui c’è anche la mia famiglia africana:
sono un po’ tutti matti, ma siamo una famiglia.

Intanto oggi mi sono accorto che è iniziato l’avvento. Sì,
dico che me ne sono accorto perché, con un sole da spiaggia e 30 gradi, non
sembra di essere a dicembre. Sarà un Natale interessante.

4 Dicembre 2014

Il 50° anniversario del martirio della beata Anuarite,
con 300mila pellegrini che hanno riempito Isiro, non si può dire che sia
passato inosservato. La funzione è incominciata alle 9,00 ed è finita alle
15,00. Era tutto ben organizzato, con tanto di fuochi d’artificio e macchina
delle bolle di sapone durante alcuni canti. Sono anche intervenuti il
governatore e la moglie.In tutto ciò ho ricevuto un bellissimo regalo: mi è
arrivato da Makpulu un arco con delle frecce (forse qualcuna avvelenata) che mi
era stato promesso. Ovviamente mi sono messo subito ad esercitarmi in giardino
per tirare fuori il Robin Hood che è in me, ma devo ancora allenarmi un po’.

Sono ritornato a lavorare al centro Gajen da cui mancavo
da più di un mese. Quante cose sono cambiate. Prima fra tutte i bambini. Non ce
n’è uno di quelli che ho conosciuto, e devo ammettere che mi dispiace non
averli salutati. Ma d’altro canto non posso che essere felice perché, se non ci
sono più, significa che sono guariti. Quindi mi sono ributtato: questa volta c’è
un bel gruppetto di 5-8 anni. Ci sono Jil (Samì) ed Eest (Bibi) che sono due
macchiette: mi parlano tranquillamente in Lingala pensando che io capisca. E
poi c’è John: il nuovo Radis. È un bambino che, a vederlo, non si direbbe
malnutrito, inoltre è iperattivo e corre dappertutto. Inizialmente mi è venuto
incontro per tirarmi una manata, e mi ha lanciato le sue ciabatte. Ma poi mi si
è buttato addosso a braccia aperte perché lo abbracciassi. Oggi mentre
distribuivamo il pranzo ho controllato che i bambini mangiassero, quando sono
arrivato da John mi sono messo a ridere per la voracità con cui si metteva il
cibo in bocca: due manate alla volta. Quando si è accorto che lo guardavo, ha
cambiato atteggiamento e, ogni volta, prima di infilarsi due pugni di cibo in
bocca, ne allungava uno verso di me come a dire: «Questo prendilo te». Ogni
volta gli ho dovuto dire «Yo» (tu), perché mangiasse.

Ho visto un film un po’ cruento che tratta del traffico e
della guerra per i diamanti in Africa, «Blood Diamonds». Mi ha fatto
impressione: vedere tutta quella crudeltà e sofferenza, e vedere nei volti
degli attori i volti di bambini, giovani, persone che ora conosco, e
immaginarli in quelle situazioni, mi ha veramente scosso. Pensare a come i
paesi più ricchi abbiamo sfruttato l’ignoranza e le risorse di questi popoli, e
lo fanno tuttora, provocando guerre e morte, mi fa venire la nausea.

20 Dicembre 2014

Al centro nutrizionale la responsabile è andata in
congedo per un mese e quindi sono diventato io il responsabile di tutto.

La «banda bassotti» (un gruppo di bimbi) del centro mi ha
preso in simpatia e non mi molla un secondo. Per quanto riguarda l’orto, è
ancora tutto vivo.

Qui è difficile crederlo, ma siamo sotto Natale. Sentire
padre Tarcisio, mio vicino di stanza, che ascolta ad alto volume i canti
natalizi e allo stesso tempo sentire un sole che spacca le pietre con i suoi 30°
gradi è abbastanza scioccante.

24 Dicembre 2014

Ci rinuncio, qui è proprio impossibile calarsi nello
spirito natalizio italiano. Eppure non potevo ricevere regalo più bello:
l’essenza del Natale. Al centro Gajen c’è un papà vedovo (l’unico papà tra sole
mamme), che accompagna la sua figlioletta di meno di un anno. Dovreste vedere
come si prende cura di lei e con quale amore: ecco questo esprime il Natale più
di mille pacchetti regalo, alberelli, panettoni ecc.

Al centro c’è anche Eritiè (membro della banda bassotti),
che viene sempre da solo, senza genitori. Durante il pranzo non mangiava,
allora mi sono avvicinato e gli ho chiesto come mai: lui semplicemente non
aveva le posate, e aspettava che qualcun altro finisse perché gliele prestasse.

Allora vi faccio questo augurio per Natale: che possiate
accorgervi di chi vi è accanto e «non ha le posate».

Eyenga ya mbotama elamu! Buon Natale di cuore!

7 Gennaio 2015

Dopo aver passato il capodanno in mezzo alla foresta di
Neisu, siamo tornati a Isiro alla vita di «tutti i giorni». Dopo quattro mesi,
grazie all’incontro con alcune persone, mi sono accorto che stavo per cadere
nell’abitudine di fare le cose invece che viverle, allora ho aggiustato il
tiro.

A Gajen non vado più in bici: a piedi posso passare in
mezzo alle case della gente incontrandola, parlandoci e conoscendola. In questa
nuova «pastorale della vicinanza», ho iniziato a frequentare il pozzo della
nostra casa: alla sera, tramite il motore, viene pompata l’acqua per la gente,
allora ho conosciuto i nostri vicini. La banda bassotti si è ingrandita. Oltre
a Samì, Bibì ed Eritiè si sono aggiunti Felì, Nada, Jojo, Petro, Emmanuel, Pico
e Paco. Questi ultimi due sono gemelli. Un giorno ho chiesto alla mamma i loro
nomi francesi, dato che quelli in Lingala non li avevo capiti, e lei mi ha
detto che non li avevano. Allora io, per scherzare, le ho suggerito di
chiamarli Pinco e Panco: come nel gioco del telefono senza fili hanno capito
Pico e Paco, e da quel momento li chiamano tutti così.

La vera stagione secca è arrivata. Un caldo intenso di
giorno, e di notte un bel freddo da stare ben coperti con la felpa. Stamattina,
parlando con Jojo (bambino di 9 anni) proprio del freddo, mi ha chiesto se di
notte dormivo in casa. Io gli ho risposto di sì (ovvio no?). Allora lui mi ha
detto che di notte dorme «libanda» (fuori).

Un bel regalo di buon anno è stato Antornine, un giovane di
27 anni che studia all’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza: Antornine ha
chiesto un aiuto economico dato che l’università è molto cara, Ivo glielo ha
dato in cambio di lavoro, e così ho un aiutante per l’orto.

Sempre nell’ottica della pastorale della vicinanza, tra
una zappata e una vangata, gli ho fatto un po’ di domande per conoscerlo. Viene
da un villaggio a 450 km da Isiro, ed è qui con sua sorella maggiore che ha una
figlia. La bambina di 8 anni va a scuola, ma in più prepara da mangiare e
sistema la casa per la mamma e lo zio.

16 Gennaio 2015

Durante la stagione secca le strade sono fatte di polvere
rossiccia che aspetta solo un bel venticello (frequente) o qualche moto a tutta
velocità (molto frequente) per riempire l’aria e infilarsi ovunque. La gente
gira con i fazzoletti alla bocca per respirae il meno possibile, e le piante
da verdi sono diventate marroncine.

A Gajen sono partiti Felì e la sorellina Nada. Però sono
rimasti tutti gli altri, con Pico e Paco c’è sempre più intesa e Petro è una
macchinetta che non sta mai zitta. La povertà di Isiro e le sue storie mi
sorprendono sempre: Jimitta è una ragazzina che ci da una mano per vendere
qualche prodotto dell’orto in città, l’altro giorno ci ha detto che era stata
cacciata da scuola perché non aveva i soldi per pagare. Antornine mi racconta che
ha finito di scrivere a mano l’introduzione della sua tesi per farla correggere
dal relatore. Quando sarà tutta corretta la scriverà al computer per stamparla.
Ciascun foglio stampato costa un dollaro.

Mi è capitato di leggere un libro di un giornalista che
ha girato l’Africa: «L’Africa è un continente troppo grande per poterlo
descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È
solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la
sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste».

Tommaso degli Angeli

(2 – continua)


Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, Rd Congo, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




San Romero de las Americas

23 maggio: La beatificazione
di Oscar Romero.

Il 24 marzo 1980, a
San Salvador, viene ucciso l’arcivescovo Oscar Aulfo Romero. La sua voce
contro le ingiustizie e la violenza delle oligarchie era diventata
insopportabile per la dittatura che reggeva il paese centroamericano. Da anni
l’arcivescovo è conosciuto come «San Romero de las Americas». Dal 23 maggio
2015 è beato anche per la Chiesa universale.


El Salvador è il più piccolo paese dell’America Latina, chiamato
per questo El Pulgarcito de América (Il Pollicino d’America); è grande quanto la Sicilia. In questo
piccolo paese, lunedì 24 marzo 1980, verso le ore 18,25, mentre sta celebrando
la Santa Messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar
Aulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su
una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che
nella nazione centroamericana, oppressa da una feroce dittatura militare,
denunciava senza paura violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e
complicità. Si trattava di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche
che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della
civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi era invece
una voce amica e fedele, una difesa contro i soprusi e le prepotenze.

«In odium fidei»

A 35 anni di distanza dalla
sua morte, il 23 maggio 2015, Oscar Aulfo Romero verrà beatificato. Giovedì 8
gennaio 2015 i teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno infatti
riconosciuto che l’arcivescovo di San Salvador è stato assassinato in odium fidei, e dunque viene considerato
un martire dalla Chiesa cattolica. Papa Francesco il 3 febbraio ha poi firmato
il decreto della beatificazione e in seguito è stata scelta la data per la
cerimonia a San Salvador, appunto il 23 maggio. Fino a questo momento, secondo
il Codice di diritto canonico, per proclamare un martire era necessario che gli
assassini fossero atei o di un’altra religione. Ora invece con il
riconoscimento del martirio di Oscar Romero, assassinato da cristiani, il
concetto si allarga perché l’azione in favore della giustizia è ritenuta
connaturata all’annuncio evangelico. L’arcivescovo di San Salvador
dall’indomani dell’assassinio, per il suo popolo e per quanti in America latina
erano impegnati nella promozione della giustizia sociale, era già stato
indicato come «San Romero de las Americas». Oggi finalmente lo è anche per la
Chiesa universale.

Un vescovo educato dal suo
popolo

La lapide posta sulla tomba
di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: «Sentir con la Iglesia» («Pensare con
la Chiesa»). Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo
ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando
fedelmente ancorato alla Chiesa.

Il
Concilio Vaticano II, i documenti di Medellin e il magistero di Paolo VI
l’hanno costretto progressivamente a interrogarsi sulle condizioni di vita
della sua gente, sulle violenze a cui era soggetta. Soprattutto nei tre anni in
cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente
sentito il grido del proprio popolo, oppresso nei diritti fondamentali, e a
questo popolo ha prestato la propria voce, indicandogli la strada della
conversione e della nonviolenza per uscire dal dramma che stava vivendo. Si
schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi,
convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo
affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che
fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata,
indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei
massacri.

Come ha
scritto il cardinal Carlo Maria Martini, Romero è stato dunque «un vescovo
educato dal suo popolo». L’incontro con i «crocifissi» della storia lo ha
condotto all’essenzialità dell’annuncio e ad abbracciare la croce. La sua
scomodità risiedeva nell’adesione piena e fedele al messaggio sociale cristiano
che, con il Concilio, aveva esortato la Chiesa a rivolgersi a tutti, ma con un
occhio di riguardo ai poveri e agli oppressi. Oscar Romero è stato assassinato
non in quanto vescovo, ma per la sua azione a fianco dei poveri e per le sue
ferme denunce della repressione operata dalla giunta militare. Con il
riconoscimento del martirio e la beatificazione si è confermato il fatto che
l’azione di Romero non era di carattere politico, bensì era la necessaria
conseguenza del Vangelo di pace e di giustizia che l’arcivescovo di San
Salvador predicava. La Chiesa ha così chiarito definitivamente che Romero si è
comportato da pastore e non da leader politico. E che, per essere fedele al
proprio ministero, non avrebbe potuto agire diversamente.

A fianco dei poveri e degli
oppressi

In una realtà fortemente
polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri, Oscar Romero è stato
maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo;
con la testimonianza si è esposto in prima persona e si è schierato. Ha parlato
e agito senza odio, cercando di esortare tutti alla conversione. Da una terra
dove scorreva il sangue, dove gli oppositori erano fatti scomparire, dove i
diritti umani erano calpestati, la voce di Romero, libera e autorevole, ha
oltrepassato le frontiere ed è stata sentita in tutto il mondo. Le sue omelie
erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che,
nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in quella minuscola
nazione, e per la presenza di una Chiesa, come quella dell’arcidiocesi di San
Salvador, evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per
questo, violentemente colpita dalle forze militari e dagli squadroni della
morte.

Monsignor Romero è stato
semplicemente fedele alla missione che gli era stata affidata. Quando si è reso
conto delle sofferenze del suo popolo, ne ha avuto compassione e da buon
pastore se ne è fatto carico. È andato consapevolmente incontro alla morte e
non vi si è sottratto: la logica evangelica gli chiedeva questo e lui vi ha
aderito.

Senza mai rassegnarsi alle
ingiustizie

L’arcivescovo di San Salvador
avrebbe potuto fuggire e rifugiarsi all’estero in attesa di tempi migliori,
come da più parti, e dalla stessa Santa Sede, a fronte di minacce sempre più
insistenti, gli era stato proposto. Ha voluto invece restare accanto al proprio
popolo, in attesa della morte che a un certo punto sentiva imminente. È stato
fedele alla missione che gli era stata affidata di guida di una comunità ed è
rimasto accanto ai propri sacerdoti e ai propri fedeli. È stato ucciso perché
non si era rassegnato alle violenze, alle ingiustizie, allo strazio di un paese
devastato. A tutti ha sempre indicato la strada della conversione, dell’amore e
della nonviolenza, sulla scia degli insegnamenti di Paolo VI che invitava a
costruire una «civiltà dell’amore».

Agli inizi di marzo 1983, in
piena guerra civile, Giovanni Paolo II si è recato in El Salvador in visita
pastorale. Per la ferma opposizione delle autorità governative, il programma
non prevedeva la visita alla tomba di Romero, ma il Papa è stato irremovibile
e, dopo aver atteso che si aprisse la cattedrale poiché era stata chiusa dai
militari, ha potuto pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato. È stato
questo un modo per porre fine alle incomprensioni iniziali fra il papa polacco
e l’arcivescovo di San Salvador, che molti in Vaticano hanno a lungo
considerato troppo politicizzato.

Anche il 7 maggio 2000, al
Colosseo, durante la celebrazione per ricordare i «martiri» del XX secolo,
Giovanni Paolo II ha ricordato mons. Romero: «Ricordati, Padre dei poveri e
degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del
Vangelo in America fino al dono della loro vita: pastori zelanti, come
l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, ucciso sull’altare durante la
celebrazione del sacrificio eucaristico, sacerdoti generosi, catechisti e
catechiste coraggiose, religiosi e religiose fedeli alla loro consacrazione,
laici impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della
frateità senza frontiere: essi hanno fatto risplendere la beatitudine degli
affamati e degli assetati della giustizia di Dio. Siano saziati con la visione
del tuo volto e siano per noi testimoni della speranza».

Testimone e martire

Dove
possiamo situare la figura di Romero nella storia della Chiesa del Novecento?
Certamente fra quelle dei testimoni e dei martiri, come è stato fatto nella
chiesa di San Bartolomeo a Roma, all’isola Tiberina, una chiesa voluta da
Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri e testimoni della fede del XX
secolo: qui, nell’icona posta sull’altare maggiore, tra i martiri rappresentati
vi è anche Oscar Aulfo Romero e tra le memorie custodite in un altare
laterale vi è il messale che utilizzava l’arcivescovo di San Salvador.

E come è stato fatto dalla
Chiesa anglicana che, sul frontone della porta ovest dell’abbazia di
Westminster, a Londra, fra le dieci statue di «martiri» del Novecento, ha posto
anche quella di Oscar Romero, situandola tra la statua di Dietrich Bonhoeffer e
quella di Martin Luther King.

E come ora, finalmente, ha
fatto anche la Chiesa cattolica riconoscendo il suo martirio. Riconoscendo che
ci troviamo di fronte a «San Romero de las Americas».

Anselmo Palini

Tags. Oscar Romero, El salvador, martirio, santi, giustizia, poveri e oppressi

Anselmo Palini




I Perdenti 4: Metz Yeghérn, il Grande Male

 

Il 24 aprile
si è commemorato il centenario del genocidio del popolo armeno, un crimine
efferato che la Turchia non ha ancora riconosciuto come una delle pagine più
nere della sua storia, in cui furono steminate e deportate milioni di persone.
Per capire l’origine del Grande Male o Metz Yeghé, come è definito il
genocidio in lingua armena, bisogna risalire al 1877. Dopo una guerra tra la
Russia zarista (sostenuta dall’Impero Austroungarico) e l’Impero Ottomano
(sostenuto dall’Inghilterra), Romania, Montenegro e Serbia divennero
indipendenti, nacque la grande Bulgaria tributaria dell’impero e il territorio
dell’Armenia venne diviso tra le due potenze contendenti. Nel trattato di pace
che ne seguì (pace di Santo Stefano, 3 marzo 1878) venne inserita una clausola
che affidava alla Russia la tutela della minoranza armena, in gran parte
cristiana ortodossa, presente nell’Impero Ottomano. Questa clausola non fu mai
del tutto accettata dalla Sublime Porta (così veniva chiamata la Corte del
Sultano a Kostantiniyye, l’antica Costantinopoli, dal 1923 rinominata
Istanbul) né dagli Ufficiali del Movimento dei Giovani Turchi che di lì a pochi
anni avrebbero preso il potere. Volendo realizzare una nazione etnicamente
omogenea, ogni enclave era vista come possibile testa di ponte delle potenze
straniere ostili che già avevano umiliato l’impero. L’Armenia era vista per
questo come una minaccia permanente. Nacque tra la popolazione turca, e venne
alimentato ad arte dai suoi governanti, un sentimento di ostilità nei confronti
degli armeni che si concretizzò in massacri di innocenti, costringendo i
sopravvissuti a penose migrazioni. Nel nostro colloquio con donna Zorair, icona
immaginaria, vittima di quella persecuzione, cerchiamo di essere fedeli alla
verità storica per ridare dignità a un popolo profondamente umiliato nel corso
della storia.


Zorair,
perché tanto odio da parte dei Turchi nei confronti della tua gente?

Non riusciamo a capire neanche noi. Per
secoli avevamo vissuto all’interno dell’Impero Ottomano in pace, seppur gravati
da tasse extra (la jizya, tassa di protezione) in quanto cristiani.
Tutto sommato eravamo rispettati e ben voluti, anzi ti dirò di più, il nostro millet
(con questo termine la Sublime Porta definiva le varie comunità etnico
religiose che componevano il variegato mondo che faceva riferimento a
Costantinopoli, ndr) era uno di quelli più tenuti in considerazione.

Ma
all’origine di tutto, se non sbaglio, ci fu una guerra tra la Russia zarista e
l’Impero Ottomano.

Sì. Nel 1877 ci fu una vera guerra tra queste
due potenze e l’Impero Ottomano, già considerato il grande malato da tutte le
cancellerie europee, fu sconfitto, umiliato e privato di molti dei suoi
territori. Nel trattato di pace che seguì venne inserita una clausola in cui si
diceva che la Russia zarista diventava «garante e protettrice» delle comunità
cristiane che vivevano all’interno di quel che rimaneva del pur sempre vasto
impero.

In
questo modo, però, ogni comunità cristiana era vista alla stregua di una
possibile testa di ponte delle cosiddette potenze cristiane.

Credo proprio di sì. I Giovani Turchi, il
gruppo di ufficiali che faceva capo a Kemal Ataturk, vedendo profilarsi
all’orizzonte la disgregazione dell’Impero Ottomano e preconizzando una Turchia
basata su un unico popolo, una lingua e una fede, pur dichiarandosi laici,
cominciarono a vedere i cristiani come corpi estranei, potenzialmente
pericolosi, da sorvegliare ed eventualmente da eliminare.

Allora
è per questo che quella che per anni è stata considerata la laicissima Turchia
non ha nessuna comunità cristiana consistente se non piccolissime minoranze?

Certo. Per quanto riguarda la base etnica
della sua popolazione, dopo aver eliminato gli Armeni nel 1915, ha lasciato che
i pochi superstiti si rifugiassero nell’Armenia, stato allora indipendente ma
poi fagocitato nel 1922 nell’Unione Sovietica. Allo stesso tempo ha confinato i
Curdi in zone periferiche definendoli «turchi delle montagne». La tragedia del
nostro popolo è che può definirsi «perdente» per antonomasia, proprio perché,
dopo essere stati incarcerati, deportati, uccisi, siamo stati ignorati dal
resto del mondo per troppo tempo, forse perché le potenze europee non erano
esenti da responsabilità nel causare l’odio turco nei nostri confronti.

Quello
che l’Impero Ottomano non aveva fatto per secoli, l’ideologia Kemalista l’ha
realizzato in pochi anni.

È proprio così. Questa soluzione finale noi
la chiamiamo Metz Yeghe o Grande Male ed è all’origine della diaspora
armena. Ricordo che il mio popolo, oltre che essere stato il primo nella storia
a definirsi «Regno cristiano», è sempre stato illuminato da una cultura
vivacissima che ha trovato nella poesia e nella letteratura uno straordinario veicolo
di coesione nazionale.

Quando
cominciarono i primi soprusi nei vostri confronti?

Nel 1909, dopo che si era affermato il
movimento dei Giovani Turchi. Questi, per paura che la popolazione armena si
alleasse con la Russia zarista, spinsero il governo a emanare delle leggi che
ne restringessero sempre più il campo d’azione, e nella regione della Cilicia
vennero eliminate almeno trentamila persone.

Perché
celebrate la data del genocidio armeno il 24 aprile?

Perché nella notte di quel giorno, nel 1915, vennero
eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e si ufficializzò
l’eliminazione fisica degli armeni dell’Impero Ottomano. In pochi giorni furono
uccisi più di mille intellettuali armeni, scrittori, poeti, giornalisti,
perfino delegati al Parlamento; quindi furono compiuti arresti di massa e si
iniziarono le deportazioni verso l’interno dell’Anatolia con massacri lungo la
strada.

Le
deportazioni inflissero sofferenze e patimenti inenarrabili alla popolazione
armena…

Queste deportazioni furono definite «marce
della morte» e coinvolsero circa un milione e mezzo di persone. Centinaia di
migliaia, in maggioranza donne e bambini, morirono lungo il percorso di fame,
sfinimento e malattie.

La
responsabilità di questi eventi è da imputare solo all’Impero Ottomano?

L’organizzazione e la cura delle deportazioni
furono compiute in massima parte dai militari che facevano riferimento ai
Giovani Turchi, questi a loro volta erano addestrati da ufficiali dell’esercito
tedesco, in virtù di un accordo tra l’Impero Germanico e l’Impero Ottomano.
Miglia di persone inoltre furono massacrate nei loro villaggi o negli
spostamenti che ne seguirono dalle milizie curde e dall’esercito turco.

Negli
anni in cui si compì la tragedia della deportazione e dell’eccidio degli armeni
le Cancellerie Europee non reagirono?

Tutte le legazioni diplomatiche europee non
mancarono di riferire ai rispettivi governi ciò che succedeva nella nostra
terra, ma essi restarono indifferenti all’immane tragedia che si stava
consumando. Queste notizie non influirono minimamente su nessuna delle
Cancellerie europee.

Si
può dire quindi che la brutalità nei vostri confronti messa in atto dai Giovani
Turchi, che arrivò a compiere il primo genocidio del secolo ventesimo, non
provocò nessuna reazione, né politica né militare né diplomatica?

Purtroppo il genocidio perpetrato contro gli
armeni fece scuola. Narrano i biografi di Hitler che, pianificando lo sterminio
degli ebrei, egli si sia lasciato scappare una frase illuminante: «Del genocidio
degli Armeni chi ne parla più ormai?». Erano passati poco più di vent’anni e si
programmava un altro sterminio, l’Olocausto del popolo ebraico.

Il governo turco continua ancora oggi a
rifiutare di riconoscere il genocidio a danno degli Armeni, preferendo la
versione che sia stata una guerra civile aggravata dalla carestia, un fatto
interno all’Impero Ottomano. L’Unione Europea però ha posto il riconoscimento
del genocidio armeno come una delle clausole per l’ammissione della Turchia
all’Ue. La Francia punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Al
contrario la magistratura turca infligge la stessa punizione a coloro che
nominano in pubblico l’esistenza del genocidio armeno, ritenendolo un atto anti
patriottico. Va segnalato che ultimamente la Turchia sembra aver dato prova di
buona volontà riaprendo alcune chiese armene nel Sud del paese, ma non va
sottaciuto però che la gran parte dell’opinione pubblica si oppone tenacemente
a queste misure.


Fare memoria oggi di quei tragici
avvenimenti, ricordare i drammi del passato, non dimenticare i morti innocenti,
è un monito illuminante per tutti noi che non vogliamo più che simili crimini
si compiano nella storia.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Tags: Armeni, genocidio, Grande Male, perdenti

Mario Bandera




Le meraviglie del passato, le sfide del presente

Dal deserto del Nord del Kenya.

Impressioni da un
viaggio indimenticabile nelle missioni del Nord del Kenya, nel Samburu e nel
Marsabit, in cui i missionari della Consolata sono arrivati nel 1952.
Tornato a Maralal
dopo aver visitato Baragoi, South Horr, Sererit e Loyangalani, padre Stefano Camerlengo
ha scritto ai missionari le sue impressioni a caldo. MC le «ha rubate» per
condividerle con tutti i suoi lettori.

 


 

Sono in
visita canonica1 ai missionari del Kenya, un grande paese pieno di storia
per il nostro Istituto. Mentre scrivo, mi trovo in «pellegrinaggio» alle
comunità della diocesi di Mararal e di Marsabit. In queste diocesi tutto parla
ancora di Consolata, visto che noi siamo stati i primi evangelizzatori di
questa terra. Viaggio tra le tribù indigene del Coo d’Africa sempre
minacciate dalla siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. Dalla capitale
della contea Samburu, Maralal, oltre 10 ore di fuoristrada su 250 km di piste
dissestate ci conducono nell’estremo Nord del Kenya, lontano dagli itinerari
battuti dai safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca
il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più
grande lago in un deserto al mondo: una distesa di zaffiro circondata da
altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi
di acacia e grappoli di fiabeschi nkaji (in samburu) o akai (in
turkana), capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono
le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della
leggendaria e ormai morente «Culla dell’Uomo».

È emozionante sentire le gomme del fuoristrada
scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise
in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentirnero di futura gloria. La zona
è riconosciuta «Patrimonio dell’Umanità» dell’Unesco per la sua eccezionale
ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere,
permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno
ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito a gruppi etnici
come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una
dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno
degli ambienti più ostili della terra. Difficile immaginare che in epoche
passate al posto di questo deserto di rocce vulcaniche ci fosse una vegetazione
rigogliosa con zebre ed elefanti, allontanatesi da qui a causa del cambiamento
climatico.

Il
capoluogo della zona è Loyangalani che significa «il luogo degli alberi». Nome
azzeccatissimo. Infatti è come un’oasi nel deserto roccioso con alberi
rigogliosi che crescono attorno a sorgenti di acqua dolce e calda che sgorgano
dal suolo. Mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede
di un consiglio direttivo locale: un grande albero d’acacia alla cui ombra
siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune.
Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno
che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini,
pendenti dal lobo o fissati alla parte superiore dell’orecchio a seconda che
siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando
solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di
appartenenza, si adoano di appariscenti collari multicolori che anticamente
erano fatti di semi, oggi sostituiti da perline e palline di plastica
acquistate a Nairobi. Lo stesso oamento è in voga presso i giovani guerrieri,
i moran, durante il duro e quasi decennale periodo di «servizio militare»
a guardia delle greggi prima di potersi sposare e diventare giovani adulti.
Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più
appariscente: lo mporro, un alto cerchio di legno intarsiato (un tempo)
di schegge di rubino. Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a
tutto: oltre a fae capanne, collari e mini sgabelli portatili, se ne usano i
ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi,
una volta svuotati e fatti seccare, diventano otri (calabash) per
conservare acqua e latte.

Questa zona per noi, missionari della Consolata, è
storica e molto importante.

Molti missionari sono passati e hanno vissuto in questa
terra annunciando il Vangelo. Alcuni sono già nella casa del padre, altri sono
stati anche uccisi qui (padre Michele Stallone nel 1965, padre Luigi Graiff nel
1981). Altri ancora sono presenti continuando uno stile, una presenza. Mentre
ringraziamo di vero cuore tutti questi missionari che hanno donato la loro vita
e continuano a farlo in situazioni materialmente e spiritualmente difficili, mi
vengono spontanei alcuni pensieri che desidero comunicare semplicemente in
questo piccolo tributo alla storia della missione, dove la vita si fa dono,
dove uno offre tutto fino a restare senza niente.

La gente di questa zona del Kenya vive in terre
desertiche e piene di insidie. Nel deserto niente è banale e «normale». L’annuncio
del Vangelo non è un tema facile qui. L’evangelizzazione nasce con la
testimonianza della presenza, dello stare con la gente, più che con le parole.
Prima di tutto c’è la vita vissuta con fede forte. Dai rapporti belli e veri,
può scattare qualcosa che diventa inizio di un cammino di testimonianza e
accoglienza. È normale, non solo per un cristiano, ma anche per un musulmano,
che vive la fede in profondità, trasmettere, irradiare, far sapere, spiegare
quello che prorompe dal suo cuore: vita, servizio, dono di sé, gioia, parola,
che sono testimonianza e annuncio. Gli ambienti e i tempi possono essere facili
o difficili. Possono condizionare i modi di espressione, ma mai annullarli. I
più efficaci, per far sì che lo Spirito di Dio faccia il suo lavoro, sono il
rispetto, la discrezione, l’umiltà, la pazienza, e il sentimento di lasciarsi
condurre da Dio. Si tratta di un lavoro profondo, vitale che richiede tempo e
pazienza. Ecco la pazienza è la prima virtù che si deve imparare per lavorare
in questa terra, per restare presenti e propositivi in mezzo a queste
popolazioni che fanno dei bisogni vitali principali le primarie occupazioni
delle loro giornate e della loro vita.

Caldo
opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare,
vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani cui siamo abituati
sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente
tragga acqua e alimenti è un mistero per noi, che non penseremmo mai di bere
l’acqua salmastra del lago come invece fanno loro. In questo paesaggio riarso
dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita «normale» fatta di gesti
semplici e quotidiani. Non è difficile comprendere come mai la gente del
deserto abbia sviluppato un carattere e un fisico così coriacei. I Samburu e i
Turkana sono gente dura e orgogliosa, inasprita da una vita che non dà molto ma
richiede tutto. Essi popolano fin dai tempi antichi l’intero Nord Est del
Kenya, regione semidesertica morfologicamente più simile al Nord Africa che non
all’Africa subsahariana.

Essere cristiani in questi luoghi è assai complicato.
L’importanza del lavoro missionario che viene svolto tra mille difficoltà ogni
giorno è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo,
testimoniando con le opere concrete i valori in cui crediamo, evitando le
parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare
incomprensioni e risentimento.

Forti del favore che i missionari hanno saputo
costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti quelli che
abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, invitati a entrare nelle
capanne e a sedere al loro fianco.

In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni
sono state realizzate con successo diverse strutture: ospedali e centri
sanitari, scuole anche nei villaggi più remoti, centri di formazione
professionale e religiosa. L’impronta che i nostri missionari, e chi ha
lavorato e lavora insieme a loro, ha lasciato qui è molto forte, e molte
persone incontrate li ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.

Ma non sarebbe giusto parlare di queste terre solo
coniugando ogni verbo al passato. Anche oggi questi missionari, con sempre meno
fondi, lavorano volontariamente in una maniera estremamente «professionale»,
riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Siamo stati testimoni di
drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come
osservatori.
Ciò che è stato realizzato finora è miracoloso. Ma la sabbia del deserto e il
tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora
tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e
costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto. Ai
missionari dico: grazie, coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo

superiore generale
dei Missionari della Consolata

Tags: Missione, evangelizzazione, Nord Kenya, Marsabit, Loyangallani, Samburu, Turkana

__________________

1 La «visita
canonica» è un obbligo che un superiore generale deve adempiere durante il suo
mandato. Ha aspetti formali e ufficiali di verifica di tutte le comunità
locali, dell’economia e attività del gruppo visitato, ma è soprattutto un
avvenimento di giornioso incontro di ogni missionario con il suo superiore e del
superiore con il vissuto dei suoi fratelli missionari. Padre Stefano è stato in
Kenya dall’11 gennaio al 2 marzo 2015, visitando il Samburu dal 2 al 10
febbraio.

Stefano Camerlengo




Incontro con padre Franco Gioda

In mezzo a loro ho
sentito Dio.

Una vita spesa tra Italia
e Mozambico. Una quotidianità di riflessione profonda e lavoro sul campo. Senza
mai sottrarsi alle responsabilità. Un dialogo costante con Dio e con lo Spirito.
Questo è padre Franco Gioda, «giovane» missionario.

 


 

Lo incontro nel corridoio della redazione. È un po’ dimagrito, quasi «rimpicciolito».
Ma il suo viso è radioso. Per poco non lo riconosco. «Sono padre Franco».

Franco Gioda ha 76 anni e quattro anni fa è «ri-partito»
per il Mozambico, paese nel quale ha passato tutta la sua storia missionaria. «Ho
fatto un po’ di tutto» spiega. Nel 2010 era a Martina Franca, dopo aver servito
sei anni come superiore Regionale in Italia: «Ma sentivo che dovevo ancora
andare in Africa. Ho scritto ai superiori la mia disponibilità, chiedendo loro:
posso ancora lavorare in missione? Mi hanno detto di sì.

Sono andato a Maputo, come responsabile della comunità.
Poi è diventato vescovo Ignazio Saure, un giovane (mozambicano, ndr) che io avevo
seguito nel suo cammino per entrare nell’Istituto. E il superiore mi ha detto:
vai a fare comunità con lui».

Così Franco si ritrova a Tete, capitale dell’omonima
provincia, lembo di terra che si incunea tra Zimbabwe e Malawi, fino allo
Zambia. «Perché i portoghesi (colonizzatori, ndr) volevano
collegarsi all’Angola, e fare un passaggio tra i due oceani, ma gli inglesi
glielo hanno impedito» spiega il missionario.


Prima missione

Ma facciamo un passo indietro. Ordinato nel
1963 padre Gioda serve alcuni anni in Italia. Nel 1968, all’età di 30 anni
parte per la prima volta in missione: destinazione Mozambico. «Era ancora il
tempo coloniale, ma si preparava l’indipendenza. C’erano molte tensioni sociali
e anche ecclesiali. Eravamo all’indomani del Concilio Vaticano II, e anche se
noi giovani missionari avevamo una formazione preconciliare, ne sentivamo gli
echi. In particolare non accettavamo l’impostazione ecclesiale che c’era. I
padri Bianchi vennero via per protesta. Anche noi eravamo nel movimento». Ma
dopo appena due anni, padre Franco è richiamato in Italia e lui chiede di stare
di più. Gli concedono ancora un anno. «In Mozambico ero con padre Prandelli, 28
anni, una specie di genio, molto impegnato dalla parte degli africani». Anche
Prandelli deve rientrare, ma incontra una mina sul suo cammino: «Questa morte
mi ha segnato per la vita».

Dopo nove anni in Italia come formatore,
Franco torna in Mozambico. Il contesto politico e sociale è totalmente
cambiato. Siamo in piena guerra civile. È l’esperienza più dura che foggia il
missionario nel fisico e nello spirito. «Fui destinato nel Niassa (Nord del
Mozambico, ndr). Andavo in bicicletta da una comunità
all’altra. Ogni due – tre giorni c’era un attacco armato con molti morti. E io
seppellivo cadaveri. Quindi è arrivato padre Giuseppe Frizzi, e abbiamo fatto
una bella comunità tra Maúa, Marrupa, Maiaca, Nipepe. Poi mi hanno eletto
superiore regionale a Maputo e lo sono stato per sei anni. Eravamo in tempo di
guerra, tempi difficili».

All’inizio degli anni 2000 padre Franco
viene richiamato in Italia, dove è eletto superiore regionale (2002-2008), fino
all’ultima ripartenza.

Missione di frontiera

«A Tete ci siamo resi conto che nelle zone
di Maravia e Zumbo (località all’estremo Ovest, alla frontiera con Zambia e
Zimbabwe, ndr) era senza sacerdoti da decenni».

Proprio a Zumbo i missionari della Consolata
avevano iniziato in Mozambico, nel lontano 1926. «È una zona molto isolata, a
550 Km da Tete e le strade sono pessime. Nel frattempo l’Istituto stava
passando ai diocesani le missioni di Mecanhelas e Massinga, potevamo quindi
investire nuove energie. Coinvolsi anche il superiore generale, padre Stefano
Camerlengo, che fece una visita fino a Zumbo. “Qui sareste troppo lontani da
tutto” ci disse. Per questo motivo si scelse Fingoè, a metà strada». Così
inizia la realizzazione del sogno di «aprire» o «riaprire» una missione in
un’area vasta e bisognosa, e storicamente legata alla Consolata.

Primo: presenza

«Andando in visita ho detto alla gente:
siamo disposti a venire qui, a condizione che voi ci facciate una capanna.
C’era già una chiesa. Ha aperto la strada il gruppo dei novizi della Consolata
di Maputo, che ci hanno introdotti. Poi sono arrivati i padri Edoardo Reyes
Prada, colombiano e Hyacinth Mwalongo della Tanzania a integrare la comunità.

Padre Sandro Faedi, un altro veterano del
Mozambico, è invece venuto dall’Italia a mettere a posto i conti della diocesi».

Che missione ha in testa padre Gioda? «Ho
cercato di spiegare alla popolazione che non saremmo andati a costruire una
missione, ma vivere una missione, saremmo stati fratelli di fede, che aiutano
altri fratelli ad andare avanti e cercano, a loro volta, di farsi aiutare. Allo
scopo di camminare insieme, il più possibile». Padre Franco non la interpreta
come missione classica.

«Per attuare questo progetto, prima cosa è
rendersi conto dove vive la gente», mi dice mentre estrae da una cartellina una
rudimentale ma efficace mappatura di tutte le comunità fatta da lui stesso, con
le distanze, i nomi, le strade. Pare non se ne separi mai. E continua: «Poi
occorre andare a vedere. Non possiamo chiamare la gente alla missione, dobbiamo
andare là da loro, nelle comunità». Prima cosa dunque la presenza dei
missionari in mezzo alla gente.

«Ho toccato con mano la presenza di Dio –
racconta con l’entusiasmo di un giovane missionario. L’ultimo sacerdote era
andato via da quella zona nel 1971. Era un missionario spagnolo, viveva a
Ukanha, una missione a 70 km da Fingoé. Era stato un ottimo animatore. Ma fu
costretto a lasciare tutto a causa della guerra. Dopo la sua partenza, la gente
ha continuato ad andare in chiesa la domenica, aggrappandosi a quello che
aveva. C’era qualche catechista, ma molti erano morti o si erano rifugiati in
Zambia. Qualche volta da Tete andava un prete. Ho trovato fede. Ovvero comunità
non molto organizzate, ma vive, che la domenica si uniscono a pregare. Un
impegno di servizio. Per questo dico che sento lo Spirito in queste comunità.
Il nostro dovere è quello di essere presenti, ma dappertutto, anche in quei
villaggi che magari non hanno mai visto un prete. Con la mia mappatura ho
trovato 108 comunità.

Il primo verbo missionario è “andare” il
secondo è “incarnarsi” vivere con la gente. Io non posso perché non so neppure
la lingua, e a 76 anni non la imparo. Il portoghese lo parla solo qualcuno.
Chiedo al Signore la grazia di essere uno che apre la strada». In tutta la zona
sono presenti cinque lingue, la dominante è il chichewa parlato anche in
Zambia, Malawi.

Secondo: formazione

Il progetto dei missionari prevede la
realizzazione di alcuni centri di formazione per laici. «Non c’era nessuna
struttura. Abbiamo iniziato con leggere insieme il catechismo. Si è pensato a
centri di formazione rurale, provvisori. E la gente viene. L’anno scorso sono
passati 90 animatori a formarsi per due settimane. E queste attività
continuano.

Sono mandati dalla comunità, con un po’ di
cibo, che noi integriamo. Qualcuno ha una piccola esperienza da catechista, ma
tutti hanno molta buona volontà».

Padre Franco è riuscito a portare un gruppo
di giovani di Vittorio Veneto e anche una coppia in viaggio di nozze. «Io vi
offro la possibilità di camminare con i missionari. Venite, facciamo la vita
insieme. Si dorme in chiesa o nelle capanne. Con il sacco a pelo su una stuoia.
Si mangia quello che ti offrono. Sono rimasti a bocca aperta».

Dio in mezzo a loro

I missionari vogliono attivare sei centri di
formazione di questo tipo, arrivando fino a Zumbo.

«Sono i fedeli che fanno questi centri, non
siamo noi con la forza dei nostri soldi, dell’organizzazione, o la nostra
personalità. Siamo fratelli di fede che offrono quello che hanno ricevuto. Ci
dicono come vogliono fare le costruzioni. Realizzateli come volete. Io
partecipo, vi pago le lamiere per il tetto e il cemento. Ma voi fate i mattoni
e poi costruite».

Per ora i membri delle comunità stanno
costruendo la casa per gli animatori e quella per i padri. In seguito faranno
le grosse tettornie circolari sotto le quali si tengono le formazioni.

«Anche a questi incontri di formazione ho
visto la presenza dello Spirito. Questa gente che crede, a che cosa? Crede alla
mia parola, ma io non so neppure parlare nella loro lingua. Vediamo che lo
Spirito agisce, li fa crescere, li fa impegnare.

Molte comunità adesso hanno i catecumeni che
fanno due o tre anni di percorso. Io sto vedendo Dio, in mezzo a quella gente.
Dio che ha conservato questi cristiani, e poi ci sono nuovi ingressi nella
comunità».

Ore e ore in moto

Padre Gioda racconta cosa vuol dire «andare
verso gli altri» nel suo contesto: «Una volta sono andato a visitare una
comunità in cui non eravamo mai stati e non si era mai visto un missionario. Si
tratta di Finzi, a 140 km da Fingoè verso il lago (l’enorme invaso artificiale
creato dalla diga di Cabora o Cahora Bassa sullo Zambesi, ndr). Mi ha portato un ragazzo in moto, che è l’unico mezzo per arrivarci.
Verso sera, salendo sul monte di Finzi, sentivamo i tamburi in lontananza. Era
la comunità che ci attendeva. Ho detto al mio autista di andare avanti, che io
sarei arrivato a piedi. Così, nella semi oscurità, senza una torcia, mi sono
perso. L’unico orientamento erano i tamburi: pensavo e pregavo. Poi lui mi è
venuto a cercare e siamo rimasti una settimana nella comunità. Intoo ce ne
sono altre sette, alcune distanti anche 90 km, che non ho ancora visitato. Per
arrivare sono sette ore di moto su una strada orribile. Ma la schiena, per
fortuna non ne ha risentito».

Nell’idea dei missionari di Fingoè, i centri
di formazione dovrebbero diventare quattro o cinque nuove missioni, ognuna
riferimento di circa 20 comunità, distanti una dall’altra anche 70 km. Distanze
che valgono il quadruplo, a causa delle condizioni difficili.

«Ringrazio Dio perché ho ancora la forza,
alla mia età. Io mi sento giovane, come avessi 40 anni» chiosa quasi pudico
padre Franco. Si può ripartire a qualsiasi età? «Sempre, basta avere fede. Non
si tratta tanto di amare Dio, ma piuttosto lasciarsi amare e condurre dal
Signore. Questa è la nostra forza.

Sono convinto, e più vado avanti lo vedo,
che se uno crede sul serio in Cristo, allora gli dà la vita, e dà anche la vita
per il prossimo. Lui ti dà la vita e tu la offri al prossimo. Il che vuole dire
che ti assicura la forza per fare le cose».

La spiritualità del pendolo

«C’è come un Big Bang iniziale: Dio mi dà lo
slancio iniziale e mi manda nel mondo carico del suo amore. Attenzione: questo
slancio mi porta verso il prossimo. E più mi avvicino al prossimo, con le
difficoltà, le miserie, più ho bisogno di andare a rifocillarmi da Dio. Allora
ritorno a Lui. Più vado a Dio e più sento necessità di fare comunione con il
prossimo. È il binomio: contemplazione – azione. Inoltre il pendolo, con
l’attrito tende a fermarsi, ma l’amore di Dio, non è solo iniziale, continua ad
alimentare l’oscillazione».

Ricorda padre Franco: «Paolo VI diceva che
dobbiamo avere una “disciplina spirituale”. Ovvero: non andare avanti a caso.
Io conosco le mie fragilità, le difficoltà della vita, allora ho bisogno di
darmi un orientamento. Più conosco la miseria umana e più ho bisogno di Dio
perché io non posso dare soluzioni, solo lui può.

Allora è necessario leggere e riflettere,
per ricaricarsi. Significa rivedere la storia, quello che ci capita alla luce
di Dio».

Approccio laicale

Come abbiamo visto, in Mozambico, a causa
dell’estensione del territorio, molte località non possono essere visitate da
sacerdoti, se non occasionalmente. Il ruolo dei laici è dunque fondamentale.

«Il futuro lì sono i laici. Ma anche qui in
Italia. Tra 10 anni i preti saranno sempre meno. Un parroco che fa 5
parrocchie, come fa? Corre. Occorre abituare la gente a coinvolgersi di più.
L’incontro con Dio si ha anche attraverso la Parola. È come avere due polmoni:
eucarestia e Bibbia. Se non c’è la prima, si respira con un polmone. Si vive lo
stesso! Formiamo animatori responsabili con la catechesi per avere comunità
aggrappate alla Parola di Dio. Se poi viene l’eucaristia tanto meglio, ma chissà
come sarà un domani».

«Chiediamoci: chi è che accompagna questa
gente? Io prete, che vado là ogni due, tre mesi, per pochi giorni, e non so la
loro lingua? O sono loro che sono lì? La quotidianità della luce di Dio è
trasmessa attraverso gli animatori. Sarà così anche in Italia domani».

Ma non sempre è facile avere un ruolo come
laici nella chiesa: «Ci sono molte resistenze, da parte del clero e da parte
della gente. Il clero dice: la gente non è preparata. È vero, ma neanche noi
sacerdoti siamo preparati, abbiamo clericalizzato tutto».

La missione ci aiuta a leggere la realtà.
Perché anche qui c’è questa situazione, un po’ più camuffata.

In Italia iniziamo ad avere diversi
missionari africani come parroci delle. «È vero. Ma sarebbe più logico che ci
fosse un padre di famiglia preparato che va lì e spiega, poi incarichiamo
qualcuno che ci dia l’eucarestia. Questo aspetto dei laici ha un’importanza
estrema».

I giovani e la missione

In Italia i giovani disertano le chiese.
Come interessarli alla missione? «Credo che il mondo di oggi manchi di una
cosa: interiorità. Si è frastornati da tutto. C’è bisogno di un po’ di
silenzio. Ma non di solitudine, altrimenti ci si ammazza. Un silenzio che
diventi riflessione, ci porti a dare delle risposte personali a certi segni che
dovremmo vedere».

«Noi stessi dobbiamo dare dei segni. In
tempo di guerra mi è capitato di passare la notte a seppellire morti tagliati a
pezzi. Il mattino dopo, la gente diceva, perché lo fai? Adesso non siamo più
capaci a creare delle inquietudini con la nostra dimensione di fede. Vuol dire,
creare interrogativi. Perché a 76 anni parti ancora?
Ma stai qui, c’è lavoro. Se riesco
a dare una risposta a questi “perché” mi metto in cammino.

Invece cerchiamo di sistemarci. Ma se ci si
ferma o ci si addormenta o si imputridisce. Accetti passivamente tutto, non
crei più punti interrogativi, inquietudini appunto, non crei più ricerca».

Ma come trovare le risposte?

«Il problema non è tanto quello di dare
soluzioni – continua il missionario – quelle le darà la storia, ovvero Dio. Non
sarai tu. Se tu vivi il Vangelo sul serio, attorno a te qualcosa si muoverà,
qualcuno “inquieto”, forse per imitarti, forse per liberarsi dal torpore del “tutti
fanno così”. Al contrario, questo cercare di sistemarsi, può creare in alcuni
una ribellione radicale, come i giovani che seguono l’Isis, perché devono dare
un senso. Ma ricordati, facciamo più con la presenza che con la parola.
Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita».

Marco Bello



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Marco Bello