Nella prima puntata
di questo reportage abbiamo raccontato delle origini dell’accoglienza nella
capitale, della situazione dei migranti dal punto di vista sanitario e di
baraccopoli e occupazioni, introducendo il tema dei rifugiati. Riprendiamo da
qui, allargando la prospettiva anche alla condizione dei Rom.
«È impossibile essere precisi sul numero totale di rifugiati che
attualmente vivono a Roma: le stime dicono fra le otto e le diecimila unità». A
parlare è Berardino Guarino, responsabile dei progetti della Fondazione Centro
Astalli. «I percorsi che richiedenti asilo e rifugiati seguono per trovare un
posto dove stare sono tipicamente quattro: in primo luogo, ci sono i 2.500
posti gestiti congiuntamente da Comune e Servizio di Protezione dei richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), che hanno liste d’attesa di due o tre mesi e un tempo
di permanenza limitato. A questo primo canale si affiancano poi il circuito
degli eventuali amici e parenti, i posti messi in campo direttamente dalle
Prefetture e, infine, gli insediamenti informali, come gli stabili occupati e
le baraccopoli». In totale, gli abitanti di questi ultimi sono stimati in circa
sei-settemila, dislocati nei quattro grossi edifici come il Selam Palace (vedi
articolo precedente, ndr) e in diverse altre realtà di dimensioni più
piccole. La stragrande maggioranza degli occupanti sono migranti, quasi tutti
in possesso di permesso di soggiorno.
L’associazione Centro Astalli – sede italiana del
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, di cui la Fondazione è la «sorella»
impegnata nel campo della formazione e sensibilizzazione – gestisce una
pluralità di attività fra le quali la mensa, che distribuisce circa ottomila
pasti al mese, i centri di accoglienza, che ospitano annualmente circa duecento
persone, il centro notturno, il cui dormitorio ha ricevuto nel 2013 oltre
duecento persone, e l’ambulatorio, con più di duemila accessi l’anno. «Anche
l’accettazione, presso la sede di Via degli Astalli, ha un’importanza
fondamentale: per presentare domanda d’asilo, i migranti devono infatti
dimostrare di essere reperibili e nel 2013 sono stati oltre seimila i
richiedenti asilo e rifugiati che si sono domiciliati da noi».
Oltre al Centro Astalli, in città sono attivi
nell’accoglienza ai migranti forzati altre organizzazioni fra cui la Caritas,
la Comunità di Sant’Egidio, l’Arci. Il cornordinamento cittadino, prosegue
Guarino, è buono, ma se la situazione rimane problematica sia nella fase
dell’accoglienza che in quelle successive è perché «a monte, l’Italia non ha
mai avuto un piano per l’integrazione. Abbiamo integrato cinque milioni di
stranieri a prescindere dallo stato». E gli errori non si limitano a questo: è
stato un errore firmare la convenzione di Dublino, è un errore pensare che
Triton, l’operazione dell’agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex
subentrata lo scorso novembre alla missione italiana Mare Nostrum, sia la
soluzione. «Nei primi due mesi del 2015 sono sbarcati tremila migranti in più
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Dovrebbe riflettere su questo
chi diceva che Mare Nostrum era un incentivo alle partenze in quanto missione
di salvataggio e non, come Triton, di protezione dei confini».
L’Europa ci lascia da soli a gestire l’emergenza? «Sì»,
conclude Guarino, «ci lascia soli nel senso che su diritti umani e immigrazione
non v’è certamente lo stesso cornordinamento che vediamo per le politiche
economiche. Inoltre, gli stati europei con gli standard di accoglienza più
elevati, come la Germania, temono che i paesi con meno coscienza civile non
rispettino gli impegni eventualmente presi in sede europea», facendo a scaricabarile
per non accollarsi i costi della gestione dei flussi migratori. La Germania
alla fine del 2013 ospitava circa trecentomila fra rifugiati e richiedenti
asilo a fronte dei nostri novantamila e aveva 126 mila nuove richieste d’asilo
contro le 26 mila in Italia.
La
popolazione romanì: Rom e Sinti a Roma
In Via Anicia, a due passi dalla Basilica di Santa
Cecilia in Trastevere, una ventina di persone aspetta fuori dalla porta del
Centro «Genti di Pace» della Comunità di Sant’Egidio. Un centinaio sono invece
già all’interno del centro: sono Rom e Sinti di tutte le età. Ogni venerdì
arrivano dai campi per parlare con i consulenti per l’orientamento
amministrativo e legale o per fare una visita medica presso l’ambulatorio.
Altri sono in attesa di usare le docce, di ricevere provviste alimentari, di
ritirare la loro biancheria lavata e asciugata nella lavanderia del Centro o di
prendere un indumento dagli scaffali della sala dove, impilati e divisi per
tipo, sono sistemati i capi frutto delle raccolte di vestiti usati. «Si
registrano all’accettazione», spiega Paolo Ciani, il responsabile delle attività
di Sant’Egidio con i Rom e i Sinti, «ricevono gratuitamente la tessera del
centro e da quel momento possono accedere ai servizi». Grazie anche alla
registrazione, il Centro è diventato un osservatorio sui nuovi arrivi: i più
recenti sono quelli delle comunità bulgare, da circa cinque anni a questa
parte, mentre le prime presenze delle comunità rumene risalgono al decennio fra
il 1990 e il duemila, precedute di vent’anni dai Rom della ex Jugoslavia.
«Fra campi autorizzati e campi spontanei», precisa
Ciani, «vivono a Roma fra le sei e le settemila persone». Circa il doppio del
totale dei rom e sinti in città – gli altri vivono nelle case – e più o meno un sesto del dato nazionale,
che stima in quarantamila gli abitanti dei campi. L’assegnazione delle case
popolari a questi rom è stata, fino a tre anni fa, impraticabile: il punteggio
nelle graduatorie per chi richiede l’alloggio aumenta infatti per chi ha subito
sfratti e vive in emergenza abitativa, ma lo sgombero non era parificato allo
sfratto né i campi erano considerati luoghi a emergenza abitativa. Ora i
criteri per le graduatorie sono cambiati e il tempo dirà se lo saranno anche i
risultati.
I Rom della ex Jugoslavia sono il gruppo che più di tutti
ha vissuto in ghetti ai margini della città: molti sono nati qui, figli o
nipoti di persone che lasciarono la Jugoslavia durante la guerra e che non
hanno poi acquisito la cittadinanza di uno dei paesi nati dalla dissoluzione
del paese balcanico. «Vivono perciò in un limbo giuridico nel quale sono
apolidi de facto ma non de jure e non possono chiedere per i
propri figli il riconoscimento della nazionalità italiana».
Ma anche per chi ha una situazione giuridica meno
complicata l’uscita dalla condizione di marginalità è difficile. Uno dei banchi
di prova è quello della scuola. È «sintomatico di come lo stato ha trattato
queste comunità. Ci sono stati diversi passaggi: nel primo, le istituzioni non
erano sicure nemmeno del fatto che fosse opportuno scolarizzare i bambini rom e
i dubbi nascevano a volte da pregiudizi culturali “al contrario”, cioè di
malintesa difesa della cultura rom da quella gagé (non rom). Poi è
cominciato un percorso in cui si chiedeva alle famiglie almeno di iscrivere i
figli a scuola e dopo di iscriverli e mandarli almeno qualche volta. E a questa
sequela di “almeno” si è affiancato l’uso della scuola come “merce di scambio”
fra Rom e istituzioni: mando i miei figli a scuola se mi dai un campo
attrezzato, non ti caccio dal campo se mandi i bambini a scuola».
A questo poi poteva aggiungersi un problema legato a una
presa in carico che non coinvolgeva abbastanza le famiglie: i bambini
diventavano quasi figli delle associazioni per l’assistenza ai Rom, che si
occupavano di andare ai ricevimenti con gli insegnanti e di ritirare le pagelle
mentre i genitori stavano al campo, completamente deresponsabilizzati.
Ma senza scuola non si fanno progressi. «In questi
decenni di lavoro con i Rom abbiamo visto che dove si è riusciti a scolarizzare
una generazione, questa poi a sua volta ha mandato a scuola i propri figli e si
è innescato un circolo virtuoso». Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine
sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti della Commissione diritti umani del
Senato, pubblicata a febbraio 2011, a Roma sono circa 2.200 i bambini rom
iscritti a scuola: la maggioranza, ma i dati cambiano di parecchio a seconda
che i bambini vivano o meno in campi attrezzati e raggiunti da interventi
sociali.
Quanto al modo di procurarsi denaro, gli operatori non
si stancano di ripetere che il ricorso al furto o ad altre attività criminali
interessa gruppi minoritari e diminuisce all’aumentare dell’inclusione sociale.
In una città come Roma, dove il clan dei Casamonica – Rom italiani di antico
insediamento – è nota per attività quali usura, rapine, estorsioni,
sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e stupefacenti specialmente
nel settore Est della Capitale, è difficile evitare che chi ne legge le «gesta»
nelle cronache locali faccia poi l’equazione: zingaro uguale criminale. «Eppure»,
riprende Ciani «se ora chiedessimo ai rom qui al Centro che cosa ne pensano dei
Casamonica, molti non capirebbero nemmeno di chi stiamo parlando».
La popolazione romanì cerca di garantirsi la
sussistenza con diversi mezzi: secondo il quadro delineato da Sant’Egidio,
all’elemosina ricorrono più che altro quelli arrivati di recente. Ci sono poi i
cosiddetti rovistatori, quelli che cercano nei cassonetti dell’immondizia,
attività che crea una serie di problemi: innanzitutto, contribuisce a
diffondere la percezione che i Rom sporcano la città. Poi c’è la questione di
come e dove rivendere quanto raccolto e il timore del proliferare di mercatini
informali. Infine c’è chi la mette in termini di danno al decoro urbano, «come
se il fatto che sia brutto vedere qualcuno che rovista nell’immondizia»,
puntualizza ancora Ciani, «fosse più importante che capire perché lo sta
facendo o evitare che sia costretto a farlo». A Roma l’idea del decoro urbano
appare peraltro un po’ contraddittoria, considerando che legare una bicicletta
alla staccionata di un parco pubblico rischia di attirare l’attenzione della
polizia municipale mentre macchine in doppia fila e motorini sui marciapiedi
hanno maggiori probabilità di passare in cavalleria, quasi fossero un male
necessario.
La frase dell’assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma, Francesca Danese, circa la possibilità di impiegare i Rom nella
raccolta dei rifiuti ha scatenato lo scorso febbraio una tempesta di polemiche.
Secondo Paolo Ciani, la frase dell’assessore è stata recepita dai media e dal
mondo politico nel peggiore dei modi: «È ovvio che un Comune non può demandare
la differenziata ai rom. Ma ragionare su un possibile inserimento lavorativo
che valorizzi le competenze specifiche delle persone non è certo sbagliato».
E le competenze non si fermano al riciclo: la raccolta e
la lavorazione dei metalli è da sempre un altro campo nel quale i rom sono
piuttosto esperti. In diversi casi hanno aperto partite Iva e svolgono
l’attività in modo non meno regolare di altri. Hanno anche gli stessi
grattacapi dei colleghi gagé per via delle direttive Ue sulla
tracciabilità dei metalli: se i documenti non sono in ordine, i commercianti si
vedono il camion sequestrato e l’attività sospesa. Quanto ai famigerati roghi
alla diossina che si alzano dai campi e che esasperano gli abitanti dei
quartieri circostanti, in alcuni casi sono fuochi per bruciare l’immondizia, in
altri un modo per separare il rame dagli altri materiali. «E allora perché non
pensare a creare foi appositi e in regola con le normative, costruendoli
grazie a una colletta a cui partecipino i Rom stessi, piuttosto che impedire e
reprimere un lavoro, come quello della raccolta del metallo, ben avviato,
remunerativo e utile?». Ma, come Mafia Capitale ha dimostrato, l’anarchia e gli
sgomberi senza ricollocazione, che poi creavano altri insediamenti informali
pochi chilometri più in là o che foivano nuovi «clienti» ai campi gestiti
dalla cupola romana, facevano comodo a chi lucrava sulle situazioni
emergenziali, vere o presunte.
I contraccolpi dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo per ora
non si sono avvertiti nel concreto dell’accoglienza e della gestione del
disagio, fatta eccezione per il ritardo nel piano per l’emergenza freddo
dell’inverno scorso. Ma i contraccolpi culturali sono stati pesanti:
soprattutto per il diffondersi dell’idea che non vale la pena di spendere
denari per migranti e rom, perché tanto finiscono «mangiati» dalle associazioni
che campano sul business dei poveri. Queste spesso finiscono tutte nello stesso
calderone, anche chi lavora seriamente. Per quanto riguarda i rom in
particolare, conclude il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, Mafia
Capitale ha anche fatto aumentare il disprezzo verso i gagé: fanno
affari sulla nostra pelle, dicono i Rom, con una generalizzazione eguale e
contraria a quella applicata a loro. E così crescono anche «il vittimismo a cui
tanti rom finiscono per abbandonarsi e la rassegnazione, che investe sia la
popolazione romanì che le istituzioni che con essa si rapportano».
È già buio, un altro autobus raccoglie il suo carico di
umanità per portarlo dalle arcate di travertino del Teatro di Marcello ai
casermoni della Magliana. Sull’autobus, tutti fanno smorfie e si tengono il
naso fra due dita per non respirare l’odore acre che ammorba l’aria. Un ragazzo
con lunghe ciocche bionde di capelli infeltriti è nell’ultimo sedile, con la
fronte pallida posata sullo schienale davanti, forse svenuto. L’orlo slabbrato
dei pantaloni lascia vedere i piedi scalzi, sudici. «Non si può vivere così»,
dice un uomo non più giovane con accento dell’Est Europa seduto accanto alla
moglie, «bisogna lavarsi! Vedi?, oggi sono stato a Via Anicia, ho vestiti
puliti, io, ho fatto la doccia».
Roma trova tanti modi per dirti che sotto alla crosta
fragile della grande bellezza i ruoli si invertono in un attimo, e quasi niente
è quello che sembra.
Chiara Giovetti
Chiara Giovetti