Impressioni da un
viaggio indimenticabile nelle missioni del Nord del Kenya, nel Samburu e nel
Marsabit, in cui i missionari della Consolata sono arrivati nel 1952. Tornato a Maralal
dopo aver visitato Baragoi, South Horr, Sererit e Loyangalani, padre Stefano Camerlengo
ha scritto ai missionari le sue impressioni a caldo. MC le «ha rubate» per
condividerle con tutti i suoi lettori.
Sono in
visita canonica1 ai missionari del Kenya, un grande paese pieno di storia
per il nostro Istituto. Mentre scrivo, mi trovo in «pellegrinaggio» alle
comunità della diocesi di Mararal e di Marsabit. In queste diocesi tutto parla
ancora di Consolata, visto che noi siamo stati i primi evangelizzatori di
questa terra. Viaggio tra le tribù indigene del Coo d’Africa sempre
minacciate dalla siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. Dalla capitale
della contea Samburu, Maralal, oltre 10 ore di fuoristrada su 250 km di piste
dissestate ci conducono nell’estremo Nord del Kenya, lontano dagli itinerari
battuti dai safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca
il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più
grande lago in un deserto al mondo: una distesa di zaffiro circondata da
altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi
di acacia e grappoli di fiabeschi nkaji (in samburu) o akai (in
turkana), capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono
le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della
leggendaria e ormai morente «Culla dell’Uomo».
È emozionante sentire le gomme del fuoristrada
scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise
in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentirnero di futura gloria. La zona
è riconosciuta «Patrimonio dell’Umanità» dell’Unesco per la sua eccezionale
ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere,
permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno
ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito a gruppi etnici
come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una
dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno
degli ambienti più ostili della terra. Difficile immaginare che in epoche
passate al posto di questo deserto di rocce vulcaniche ci fosse una vegetazione
rigogliosa con zebre ed elefanti, allontanatesi da qui a causa del cambiamento
climatico.
Il
capoluogo della zona è Loyangalani che significa «il luogo degli alberi». Nome
azzeccatissimo. Infatti è come un’oasi nel deserto roccioso con alberi
rigogliosi che crescono attorno a sorgenti di acqua dolce e calda che sgorgano
dal suolo. Mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede
di un consiglio direttivo locale: un grande albero d’acacia alla cui ombra
siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune.
Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno
che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini,
pendenti dal lobo o fissati alla parte superiore dell’orecchio a seconda che
siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando
solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di
appartenenza, si adoano di appariscenti collari multicolori che anticamente
erano fatti di semi, oggi sostituiti da perline e palline di plastica
acquistate a Nairobi. Lo stesso oamento è in voga presso i giovani guerrieri,
i moran, durante il duro e quasi decennale periodo di «servizio militare»
a guardia delle greggi prima di potersi sposare e diventare giovani adulti.
Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più
appariscente: lo mporro, un alto cerchio di legno intarsiato (un tempo)
di schegge di rubino. Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a
tutto: oltre a fae capanne, collari e mini sgabelli portatili, se ne usano i
ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi,
una volta svuotati e fatti seccare, diventano otri (calabash) per
conservare acqua e latte.
Questa zona per noi, missionari della Consolata, è
storica e molto importante.
Molti missionari sono passati e hanno vissuto in questa
terra annunciando il Vangelo. Alcuni sono già nella casa del padre, altri sono
stati anche uccisi qui (padre Michele Stallone nel 1965, padre Luigi Graiff nel
1981). Altri ancora sono presenti continuando uno stile, una presenza. Mentre
ringraziamo di vero cuore tutti questi missionari che hanno donato la loro vita
e continuano a farlo in situazioni materialmente e spiritualmente difficili, mi
vengono spontanei alcuni pensieri che desidero comunicare semplicemente in
questo piccolo tributo alla storia della missione, dove la vita si fa dono,
dove uno offre tutto fino a restare senza niente.
La gente di questa zona del Kenya vive in terre
desertiche e piene di insidie. Nel deserto niente è banale e «normale». L’annuncio
del Vangelo non è un tema facile qui. L’evangelizzazione nasce con la
testimonianza della presenza, dello stare con la gente, più che con le parole.
Prima di tutto c’è la vita vissuta con fede forte. Dai rapporti belli e veri,
può scattare qualcosa che diventa inizio di un cammino di testimonianza e
accoglienza. È normale, non solo per un cristiano, ma anche per un musulmano,
che vive la fede in profondità, trasmettere, irradiare, far sapere, spiegare
quello che prorompe dal suo cuore: vita, servizio, dono di sé, gioia, parola,
che sono testimonianza e annuncio. Gli ambienti e i tempi possono essere facili
o difficili. Possono condizionare i modi di espressione, ma mai annullarli. I
più efficaci, per far sì che lo Spirito di Dio faccia il suo lavoro, sono il
rispetto, la discrezione, l’umiltà, la pazienza, e il sentimento di lasciarsi
condurre da Dio. Si tratta di un lavoro profondo, vitale che richiede tempo e
pazienza. Ecco la pazienza è la prima virtù che si deve imparare per lavorare
in questa terra, per restare presenti e propositivi in mezzo a queste
popolazioni che fanno dei bisogni vitali principali le primarie occupazioni
delle loro giornate e della loro vita.
Caldo
opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare,
vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani cui siamo abituati
sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente
tragga acqua e alimenti è un mistero per noi, che non penseremmo mai di bere
l’acqua salmastra del lago come invece fanno loro. In questo paesaggio riarso
dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita «normale» fatta di gesti
semplici e quotidiani. Non è difficile comprendere come mai la gente del
deserto abbia sviluppato un carattere e un fisico così coriacei. I Samburu e i
Turkana sono gente dura e orgogliosa, inasprita da una vita che non dà molto ma
richiede tutto. Essi popolano fin dai tempi antichi l’intero Nord Est del
Kenya, regione semidesertica morfologicamente più simile al Nord Africa che non
all’Africa subsahariana.
Essere cristiani in questi luoghi è assai complicato.
L’importanza del lavoro missionario che viene svolto tra mille difficoltà ogni
giorno è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo,
testimoniando con le opere concrete i valori in cui crediamo, evitando le
parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare
incomprensioni e risentimento.
Forti del favore che i missionari hanno saputo
costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti quelli che
abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, invitati a entrare nelle
capanne e a sedere al loro fianco.
In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni
sono state realizzate con successo diverse strutture: ospedali e centri
sanitari, scuole anche nei villaggi più remoti, centri di formazione
professionale e religiosa. L’impronta che i nostri missionari, e chi ha
lavorato e lavora insieme a loro, ha lasciato qui è molto forte, e molte
persone incontrate li ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.
Ma non sarebbe giusto parlare di queste terre solo
coniugando ogni verbo al passato. Anche oggi questi missionari, con sempre meno
fondi, lavorano volontariamente in una maniera estremamente «professionale»,
riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Siamo stati testimoni di
drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come
osservatori.
Ciò che è stato realizzato finora è miracoloso. Ma la sabbia del deserto e il
tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora
tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e
costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto. Ai
missionari dico: grazie, coraggio e avanti in Domino!
superiore generale
dei Missionari della Consolata
Tags: Missione, evangelizzazione, Nord Kenya, Marsabit, Loyangallani, Samburu, Turkana
1 La «visita
canonica» è un obbligo che un superiore generale deve adempiere durante il suo
mandato. Ha aspetti formali e ufficiali di verifica di tutte le comunità
locali, dell’economia e attività del gruppo visitato, ma è soprattutto un
avvenimento di giornioso incontro di ogni missionario con il suo superiore e del
superiore con il vissuto dei suoi fratelli missionari. Padre Stefano è stato in
Kenya dall’11 gennaio al 2 marzo 2015, visitando il Samburu dal 2 al 10
febbraio.
Stefano Camerlengo