Incontro con padre Franco Gioda
In mezzo a loro ho
sentito Dio.
Una vita spesa tra Italia
e Mozambico. Una quotidianità di riflessione profonda e lavoro sul campo. Senza
mai sottrarsi alle responsabilità. Un dialogo costante con Dio e con lo Spirito.
Questo è padre Franco Gioda, «giovane» missionario.
Lo incontro nel corridoio della redazione. È un po’ dimagrito, quasi «rimpicciolito».
Ma il suo viso è radioso. Per poco non lo riconosco. «Sono padre Franco».
Franco Gioda ha 76 anni e quattro anni fa è «ri-partito»
per il Mozambico, paese nel quale ha passato tutta la sua storia missionaria. «Ho
fatto un po’ di tutto» spiega. Nel 2010 era a Martina Franca, dopo aver servito
sei anni come superiore Regionale in Italia: «Ma sentivo che dovevo ancora
andare in Africa. Ho scritto ai superiori la mia disponibilità, chiedendo loro:
posso ancora lavorare in missione? Mi hanno detto di sì.
Sono andato a Maputo, come responsabile della comunità.
Poi è diventato vescovo Ignazio Saure, un giovane (mozambicano, ndr) che io avevo
seguito nel suo cammino per entrare nell’Istituto. E il superiore mi ha detto:
vai a fare comunità con lui».
Così Franco si ritrova a Tete, capitale dell’omonima
provincia, lembo di terra che si incunea tra Zimbabwe e Malawi, fino allo
Zambia. «Perché i portoghesi (colonizzatori, ndr) volevano
collegarsi all’Angola, e fare un passaggio tra i due oceani, ma gli inglesi
glielo hanno impedito» spiega il missionario.
Prima missione
Ma facciamo un passo indietro. Ordinato nel
1963 padre Gioda serve alcuni anni in Italia. Nel 1968, all’età di 30 anni
parte per la prima volta in missione: destinazione Mozambico. «Era ancora il
tempo coloniale, ma si preparava l’indipendenza. C’erano molte tensioni sociali
e anche ecclesiali. Eravamo all’indomani del Concilio Vaticano II, e anche se
noi giovani missionari avevamo una formazione preconciliare, ne sentivamo gli
echi. In particolare non accettavamo l’impostazione ecclesiale che c’era. I
padri Bianchi vennero via per protesta. Anche noi eravamo nel movimento». Ma
dopo appena due anni, padre Franco è richiamato in Italia e lui chiede di stare
di più. Gli concedono ancora un anno. «In Mozambico ero con padre Prandelli, 28
anni, una specie di genio, molto impegnato dalla parte degli africani». Anche
Prandelli deve rientrare, ma incontra una mina sul suo cammino: «Questa morte
mi ha segnato per la vita».
Dopo nove anni in Italia come formatore,
Franco torna in Mozambico. Il contesto politico e sociale è totalmente
cambiato. Siamo in piena guerra civile. È l’esperienza più dura che foggia il
missionario nel fisico e nello spirito. «Fui destinato nel Niassa (Nord del
Mozambico, ndr). Andavo in bicicletta da una comunità
all’altra. Ogni due – tre giorni c’era un attacco armato con molti morti. E io
seppellivo cadaveri. Quindi è arrivato padre Giuseppe Frizzi, e abbiamo fatto
una bella comunità tra Maúa, Marrupa, Maiaca, Nipepe. Poi mi hanno eletto
superiore regionale a Maputo e lo sono stato per sei anni. Eravamo in tempo di
guerra, tempi difficili».
All’inizio degli anni 2000 padre Franco
viene richiamato in Italia, dove è eletto superiore regionale (2002-2008), fino
all’ultima ripartenza.
«A Tete ci siamo resi conto che nelle zone
di Maravia e Zumbo (località all’estremo Ovest, alla frontiera con Zambia e
Zimbabwe, ndr) era senza sacerdoti da decenni».
Proprio a Zumbo i missionari della Consolata
avevano iniziato in Mozambico, nel lontano 1926. «È una zona molto isolata, a
550 Km da Tete e le strade sono pessime. Nel frattempo l’Istituto stava
passando ai diocesani le missioni di Mecanhelas e Massinga, potevamo quindi
investire nuove energie. Coinvolsi anche il superiore generale, padre Stefano
Camerlengo, che fece una visita fino a Zumbo. “Qui sareste troppo lontani da
tutto” ci disse. Per questo motivo si scelse Fingoè, a metà strada». Così
inizia la realizzazione del sogno di «aprire» o «riaprire» una missione in
un’area vasta e bisognosa, e storicamente legata alla Consolata.
«Andando in visita ho detto alla gente:
siamo disposti a venire qui, a condizione che voi ci facciate una capanna.
C’era già una chiesa. Ha aperto la strada il gruppo dei novizi della Consolata
di Maputo, che ci hanno introdotti. Poi sono arrivati i padri Edoardo Reyes
Prada, colombiano e Hyacinth Mwalongo della Tanzania a integrare la comunità.
Padre Sandro Faedi, un altro veterano del
Mozambico, è invece venuto dall’Italia a mettere a posto i conti della diocesi».
Che missione ha in testa padre Gioda? «Ho
cercato di spiegare alla popolazione che non saremmo andati a costruire una
missione, ma vivere una missione, saremmo stati fratelli di fede, che aiutano
altri fratelli ad andare avanti e cercano, a loro volta, di farsi aiutare. Allo
scopo di camminare insieme, il più possibile». Padre Franco non la interpreta
come missione classica.
«Per attuare questo progetto, prima cosa è
rendersi conto dove vive la gente», mi dice mentre estrae da una cartellina una
rudimentale ma efficace mappatura di tutte le comunità fatta da lui stesso, con
le distanze, i nomi, le strade. Pare non se ne separi mai. E continua: «Poi
occorre andare a vedere. Non possiamo chiamare la gente alla missione, dobbiamo
andare là da loro, nelle comunità». Prima cosa dunque la presenza dei
missionari in mezzo alla gente.
«Ho toccato con mano la presenza di Dio –
racconta con l’entusiasmo di un giovane missionario. L’ultimo sacerdote era
andato via da quella zona nel 1971. Era un missionario spagnolo, viveva a
Ukanha, una missione a 70 km da Fingoé. Era stato un ottimo animatore. Ma fu
costretto a lasciare tutto a causa della guerra. Dopo la sua partenza, la gente
ha continuato ad andare in chiesa la domenica, aggrappandosi a quello che
aveva. C’era qualche catechista, ma molti erano morti o si erano rifugiati in
Zambia. Qualche volta da Tete andava un prete. Ho trovato fede. Ovvero comunità
non molto organizzate, ma vive, che la domenica si uniscono a pregare. Un
impegno di servizio. Per questo dico che sento lo Spirito in queste comunità.
Il nostro dovere è quello di essere presenti, ma dappertutto, anche in quei
villaggi che magari non hanno mai visto un prete. Con la mia mappatura ho
trovato 108 comunità.
Il primo verbo missionario è “andare” il
secondo è “incarnarsi” vivere con la gente. Io non posso perché non so neppure
la lingua, e a 76 anni non la imparo. Il portoghese lo parla solo qualcuno.
Chiedo al Signore la grazia di essere uno che apre la strada». In tutta la zona
sono presenti cinque lingue, la dominante è il chichewa parlato anche in
Zambia, Malawi.
Il progetto dei missionari prevede la
realizzazione di alcuni centri di formazione per laici. «Non c’era nessuna
struttura. Abbiamo iniziato con leggere insieme il catechismo. Si è pensato a
centri di formazione rurale, provvisori. E la gente viene. L’anno scorso sono
passati 90 animatori a formarsi per due settimane. E queste attività
continuano.
Sono mandati dalla comunità, con un po’ di
cibo, che noi integriamo. Qualcuno ha una piccola esperienza da catechista, ma
tutti hanno molta buona volontà».
Padre Franco è riuscito a portare un gruppo
di giovani di Vittorio Veneto e anche una coppia in viaggio di nozze. «Io vi
offro la possibilità di camminare con i missionari. Venite, facciamo la vita
insieme. Si dorme in chiesa o nelle capanne. Con il sacco a pelo su una stuoia.
Si mangia quello che ti offrono. Sono rimasti a bocca aperta».
I missionari vogliono attivare sei centri di
formazione di questo tipo, arrivando fino a Zumbo.
«Sono i fedeli che fanno questi centri, non
siamo noi con la forza dei nostri soldi, dell’organizzazione, o la nostra
personalità. Siamo fratelli di fede che offrono quello che hanno ricevuto. Ci
dicono come vogliono fare le costruzioni. Realizzateli come volete. Io
partecipo, vi pago le lamiere per il tetto e il cemento. Ma voi fate i mattoni
e poi costruite».
Per ora i membri delle comunità stanno
costruendo la casa per gli animatori e quella per i padri. In seguito faranno
le grosse tettornie circolari sotto le quali si tengono le formazioni.
«Anche a questi incontri di formazione ho
visto la presenza dello Spirito. Questa gente che crede, a che cosa? Crede alla
mia parola, ma io non so neppure parlare nella loro lingua. Vediamo che lo
Spirito agisce, li fa crescere, li fa impegnare.
Molte comunità adesso hanno i catecumeni che
fanno due o tre anni di percorso. Io sto vedendo Dio, in mezzo a quella gente.
Dio che ha conservato questi cristiani, e poi ci sono nuovi ingressi nella
comunità».
Padre Gioda racconta cosa vuol dire «andare
verso gli altri» nel suo contesto: «Una volta sono andato a visitare una
comunità in cui non eravamo mai stati e non si era mai visto un missionario. Si
tratta di Finzi, a 140 km da Fingoè verso il lago (l’enorme invaso artificiale
creato dalla diga di Cabora o Cahora Bassa sullo Zambesi, ndr). Mi ha portato un ragazzo in moto, che è l’unico mezzo per arrivarci.
Verso sera, salendo sul monte di Finzi, sentivamo i tamburi in lontananza. Era
la comunità che ci attendeva. Ho detto al mio autista di andare avanti, che io
sarei arrivato a piedi. Così, nella semi oscurità, senza una torcia, mi sono
perso. L’unico orientamento erano i tamburi: pensavo e pregavo. Poi lui mi è
venuto a cercare e siamo rimasti una settimana nella comunità. Intoo ce ne
sono altre sette, alcune distanti anche 90 km, che non ho ancora visitato. Per
arrivare sono sette ore di moto su una strada orribile. Ma la schiena, per
fortuna non ne ha risentito».
Nell’idea dei missionari di Fingoè, i centri
di formazione dovrebbero diventare quattro o cinque nuove missioni, ognuna
riferimento di circa 20 comunità, distanti una dall’altra anche 70 km. Distanze
che valgono il quadruplo, a causa delle condizioni difficili.
«Ringrazio Dio perché ho ancora la forza,
alla mia età. Io mi sento giovane, come avessi 40 anni» chiosa quasi pudico
padre Franco. Si può ripartire a qualsiasi età? «Sempre, basta avere fede. Non
si tratta tanto di amare Dio, ma piuttosto lasciarsi amare e condurre dal
Signore. Questa è la nostra forza.
Sono convinto, e più vado avanti lo vedo,
che se uno crede sul serio in Cristo, allora gli dà la vita, e dà anche la vita
per il prossimo. Lui ti dà la vita e tu la offri al prossimo. Il che vuole dire
che ti assicura la forza per fare le cose».
«C’è come un Big Bang iniziale: Dio mi dà lo
slancio iniziale e mi manda nel mondo carico del suo amore. Attenzione: questo
slancio mi porta verso il prossimo. E più mi avvicino al prossimo, con le
difficoltà, le miserie, più ho bisogno di andare a rifocillarmi da Dio. Allora
ritorno a Lui. Più vado a Dio e più sento necessità di fare comunione con il
prossimo. È il binomio: contemplazione – azione. Inoltre il pendolo, con
l’attrito tende a fermarsi, ma l’amore di Dio, non è solo iniziale, continua ad
alimentare l’oscillazione».
Ricorda padre Franco: «Paolo VI diceva che
dobbiamo avere una “disciplina spirituale”. Ovvero: non andare avanti a caso.
Io conosco le mie fragilità, le difficoltà della vita, allora ho bisogno di
darmi un orientamento. Più conosco la miseria umana e più ho bisogno di Dio
perché io non posso dare soluzioni, solo lui può.
Allora è necessario leggere e riflettere,
per ricaricarsi. Significa rivedere la storia, quello che ci capita alla luce
di Dio».
Come abbiamo visto, in Mozambico, a causa
dell’estensione del territorio, molte località non possono essere visitate da
sacerdoti, se non occasionalmente. Il ruolo dei laici è dunque fondamentale.
«Il futuro lì sono i laici. Ma anche qui in
Italia. Tra 10 anni i preti saranno sempre meno. Un parroco che fa 5
parrocchie, come fa? Corre. Occorre abituare la gente a coinvolgersi di più.
L’incontro con Dio si ha anche attraverso la Parola. È come avere due polmoni:
eucarestia e Bibbia. Se non c’è la prima, si respira con un polmone. Si vive lo
stesso! Formiamo animatori responsabili con la catechesi per avere comunità
aggrappate alla Parola di Dio. Se poi viene l’eucaristia tanto meglio, ma chissà
come sarà un domani».
«Chiediamoci: chi è che accompagna questa
gente? Io prete, che vado là ogni due, tre mesi, per pochi giorni, e non so la
loro lingua? O sono loro che sono lì? La quotidianità della luce di Dio è
trasmessa attraverso gli animatori. Sarà così anche in Italia domani».
Ma non sempre è facile avere un ruolo come
laici nella chiesa: «Ci sono molte resistenze, da parte del clero e da parte
della gente. Il clero dice: la gente non è preparata. È vero, ma neanche noi
sacerdoti siamo preparati, abbiamo clericalizzato tutto».
La missione ci aiuta a leggere la realtà.
Perché anche qui c’è questa situazione, un po’ più camuffata.
In Italia iniziamo ad avere diversi
missionari africani come parroci delle. «È vero. Ma sarebbe più logico che ci
fosse un padre di famiglia preparato che va lì e spiega, poi incarichiamo
qualcuno che ci dia l’eucarestia. Questo aspetto dei laici ha un’importanza
estrema».
In Italia i giovani disertano le chiese.
Come interessarli alla missione? «Credo che il mondo di oggi manchi di una
cosa: interiorità. Si è frastornati da tutto. C’è bisogno di un po’ di
silenzio. Ma non di solitudine, altrimenti ci si ammazza. Un silenzio che
diventi riflessione, ci porti a dare delle risposte personali a certi segni che
dovremmo vedere».
«Noi stessi dobbiamo dare dei segni. In
tempo di guerra mi è capitato di passare la notte a seppellire morti tagliati a
pezzi. Il mattino dopo, la gente diceva, perché lo fai? Adesso non siamo più
capaci a creare delle inquietudini con la nostra dimensione di fede. Vuol dire,
creare interrogativi. Perché a 76 anni parti ancora?
Ma stai qui, c’è lavoro. Se riesco
a dare una risposta a questi “perché” mi metto in cammino.
Invece cerchiamo di sistemarci. Ma se ci si
ferma o ci si addormenta o si imputridisce. Accetti passivamente tutto, non
crei più punti interrogativi, inquietudini appunto, non crei più ricerca».
«Il problema non è tanto quello di dare
soluzioni – continua il missionario – quelle le darà la storia, ovvero Dio. Non
sarai tu. Se tu vivi il Vangelo sul serio, attorno a te qualcosa si muoverà,
qualcuno “inquieto”, forse per imitarti, forse per liberarsi dal torpore del “tutti
fanno così”. Al contrario, questo cercare di sistemarsi, può creare in alcuni
una ribellione radicale, come i giovani che seguono l’Isis, perché devono dare
un senso. Ma ricordati, facciamo più con la presenza che con la parola.
Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita».
Marco Bello
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Marco Bello