in realtà, l’Africa non esiste
Diario di un giovane
da Isiro /2
Il servizio al centro
nutrizionale, i viaggi in piena foresta, gl’incredibili itinerari a piedi, in
bici o moto, il Natale con 30°, i giochi con i bimbi, le serate attorno al
fuoco contemplando volti, balli, stelle. La riscoperta dell’essenziale. La sorpresa di
un’Africa inattesa. Seguiamo Tommaso nella sua esperienza missionaria.
Sono partito per Neisu. In lingua locale «neisu»
significa «cuore». In effetti, siamo nel cuore della foresta equatoriale. Il
viaggio Isiro-Neisu (30 km) è stato in pieno stile africano: Defender piena di
persone, io e altri due nel bagagliaio. Siamo in foresta, e il posto è
bellissimo. Vicini alla missione ci sono l’ospedale e la grande chiesa.
Inoltre, ad accogliermi ci sono dei meravigliosi muffin alla banana e dei
biscottini deliziosi alla soia: dolci veri dopo due mesi. E la cosa bellissima è
che li producono qui in casa anche per il centro nutrizionale dell’ospedale. È
già in programma che imparerò a farli.
Qui sono nel «regno» di padre Rinaldo Do, un vero
vulcano. Con lui le cose da fare non mancano mai. Bisogna stare attenti a farsi
vedere in giro perché ti trova sempre un lavoro. Ha un grande carisma, e la
gente gli vuole veramente bene.
In parrocchia, il sabato pomeriggio, ci sono le prove
della corale e gli incontri dei gruppi. Mi son buttato in mezzo a quel traffico
di gente, e sono stato con i bambini e i giovani. Dato che anche qua la frase
di presentazione è «donne moi de l’argent» («dammi dei soldi»), mi sono
inventato che «argent» in italiano significa botte, così dopo i primi
scappellotti sulla testa e le annesse risate, hanno smesso di chiedere.
Dovete sapere che la missione, oltre ad avere in carico
l’ospedale e la parrocchia, si occupa di altri 83 villaggi-cappelle sparsi
nella foresta. La più lontana è a 70 km. Quindi i padri, a tuo, partono in
moto o in bici e stanno via dei giorni.
Qui s’impara una cosa, cioè che la felicità è la nostra
condizione naturale. Se ti domandano: perché sei felice? La risposta è: perché
no? Il mio stare bene non dipende dal fatto che il mondo va bene, ma piuttosto è
il mondo che va bene perché io mi sento bene. La felicità è dentro di noi, non
viene da fuori, quindi nessuna situazione o persona può rubarcela. Che storia quest’Africa.
Neisu, Neisu, quanto mi regali! Qui si vive tra la gente,
dove si vede la vera vita dell’Africa. Sono andato vicino alla missione, dove
si produce olio di palma. Dovete immaginarvi un grosso palo in cui è inserito
un pezzo di ferro, e le persone lo spingono facendolo girare. Per lo sforzo
fisico enorme la quantità di olio estratto è davvero poca. Con il lavoro di un
intero pomeriggio di tre persone (senza contare il tempo speso a raccogliere i
semi della palma) si produce una tanica di olio che viene venduta a 6mila
franchi (circa sei euro): una miseria. Eppure qui è così, si lotta per sfamare
la famiglia e cercare di mandare a scuola qualche figlio.
Ah, la scuola: Isiro in confronto è un paradiso. Insieme
a padre Rinaldo sono andato in bici a visitae diverse. Ci sono ragazzi che
per andare e tornare dalla scuola fanno 14 km a piedi. E, tornati a casa di
sera, devono ancora lavorare e studiare. Per aiutarli, padre Rinaldo sta
lanciando un progetto per acquistare biciclette da rivendere a un prezzo
accessibile. Inoltre in foresta ho visto «classi» di ragazzi dentro una mezza
capanna con una lavagna e senza i banchi. C’è veramente da pensare alla fortuna
del nostro sistema scolastico. Inoltre, a causa della retta qualcuno deve
sospendere la scuola. Potete immaginare i problemi che ciò comporta.
Molto toccante la visita giornaliera ai malati
dell’ospedale.
Infine mi diverto a passare i pomeriggi con i bambini
fuori dalla parrocchia. Pensate, oggi ho insegnato «bandiera genovese».
Sabato partirò in bicicletta per andare in un villaggio a
otto km di distanza, e passerò la notte fuori, ma questo è niente in confronto
al resto: lunedì partirò con padre Rinaldo in moto per raggiungere dei villaggi
a 60 km da qui. Passeremo circa dieci giorni in foresta, senza contatti e
vivendo come e con la gente, mangiando quello che ci offriranno. Questa sarà
sicuramente la più grande prova di adattamento all’essenzialità che farò nella
mia vita.
Partiamo con due bellissime bici. Qui in Africa ho
imparato una certa prudenza, e mi porto dietro un kit di sopravvivenza
consistente (meglio chiamarlo armadio, per la quantità di cose). Il percorso su
sentirneri sterrati nel mezzo della foresta è meraviglioso, anche se
faticosissimo per il fango, le buche e le continue salite e discese, oltre che
per il sole cocente.
«Sfrecciando» come un bradipo vedo le capanne della gente
che vive in foresta, sento le grida dei bambini che, a ogni curva ci incitano,
manco fosse il traguardo della «nove colli», osservo la potenza della natura in
tutto il suo splendore e il sudore della gente per guadagnarsi da vivere. Sì,
ho smesso subito di pensare alla mia fatica, non appena mi sono ricordato che
ci sono lavoratori (molti ragazzi) che trasportano sulla bici 25, 50 kg di
roba, e per molti chilometri di più.
Dopo 40 minuti, arriviamo in un villaggio su un
bellissimo e grande spazio. Siamo subito accolti alla grande e ci viene
affidata la camera: una stanzetta di fango con un tetto di frasche.
La vita del piccolo villaggio è molto semplice e
accogliente, sotto la paillote (una specie di capanna dove si accolgono
i visitatori) si radunano i bimbi e alcuni adulti, e stiamo lì a parlare. Per
passare il tempo, improvviso un gioco simile a Pictionary, disegnando con un
bastoncino sulla terra. Verso le 18 ceniamo. Del buonissimo mais arrostito,
l’immancabile riso, e il mitico pondù (foglie di manioca pestate e cotte
con pasta di arachidi). La quantità di cibo è esagerata, così, dopo aver
mangiato un po’, lasciamo lì, sapendo che sarà la cena della famiglia della
capanna accanto. Nel frattempo arriva il capo catechista di quella zona, ci
sistemiamo di nuovo sotto la paillote mentre cala un buio pesto. Stanno
arrivando bambini e giovani dalle cappelle dei villaggi vicini per passare la
notte e la messa del giorno dopo insieme. Viene acceso un grande fuoco in uno
spiazzo libero e incominciano canti e balli con tutta la gente: una meraviglia.
A una certa ora andiamo a «dormire». Inizia a piovere forte, la pioggia dentro
la cameretta di fango e foglie si sente fortissimo, e mi chiedo come faccia a
non entrare l’acqua. Ma non è finita: i bambini dormono quasi all’aperto, e per
loro è come un campeggio. Quindi voci, canti, grida e schiamazzi continuano per
tutta la notte. A parte la stanchezza, apprezzo molto l’esperienza della
nottata all’africana. Dopo la colazione inizia la messa. Una corale potente
viene accompagnata da tamburi e uno xilofono gigante di bambù. Durante
l’offertorio vengono portati dei doni (per lo più cibo), tra cui una simpatica
gallinella viva, tutta legata. Il pranzo è nuovamente molto abbondante.
Assaggio un po’ di tutto, ma l’appetito mi passa sapendo che quel cibo poi
sfamerà altre persone, e che io potrò mangiare più tardi. I cinque kg di
bagaglio si rivelano utili perché medico una ragazza che si è scottata con
dell’acqua bollente. Si fa l’ora di tornare a casa. Questa volta con me viaggia
un’amica che, quando prendo delle buche si lamenta ammonendomi: è la gallina.
Dopo il viaggio in moto, insaccato come un salame tra i
bagagli e padre Rinaldo, in mezzo a foreste e villaggi su sentirneri scassati,
siamo arrivati in una bella capanna con tanto di tetto in lamiera. Da Makpulu
ci siamo spostati a visitare, in bici, altri sei villaggi. E quindi un giorno sì
e uno no eravamo a dormire, mangiare, dire messa, in un posto diverso. In un
caso, dopo avere raggiunto un villaggio in bici, il giorno dopo ne abbiamo
raggiunto un altro con due ore di cammino a piedi in mezzo alla foresta e a
corsi d’acqua, con la scorta di abitanti del luogo armati di machete.
La fatica per raggiungere i villaggi è sempre stata
ampiamente ripagata dalla folla di gente che ci ha accolto con canti e danze.
Inoltre l’adattamento alle condizioni di vita della gente, per noi impensabili,
è stato molto semplice, una volta compreso che quello che per me è scomodo, è
vita normalissima per altri.
Quante mani strette. Mani piccole e grandi, malate e
sane, giovani e vecchie, morbide e dure, felici e tristi, pulite e sporche. Qui
il saluto più importante è la stretta di mano. C’è il modo normale di darla e
ce n’è un altro che esprime grande gioia. All’inizio non avevo compreso questa
differenza. Quando l’ho colta non potete capire com’è cambiato tutto. Mi sono
sentito accolto e a casa. La loro semplicità nel prepararci i letti, l’acqua
per lavarci e i pasti con grandissima cura, mi hanno fatto capire che per far
sentire bene una persona non c’entra cosa si offre, ma il modo in cui lo si fa.
Credo che non scorderò facilmente questi giorni: i bans
insegnati, le canzoni imparate, quei cieli nottui con un’infinità di stelle.
E il fuoco, grande e forte, attorno al quale, al calare del buio, si radunano
bambini, giovani e vecchi, le mani battono sui tamburi e si scatenano le danze
in cerchio, cantando a squarciagola, con un ritmo travolgente, che ti spinge a
smettere di cercare di capire i passi che non conosci, e a seguire il ritmo
della musica e basta. La gioia intorno a quel fuoco non si può descrivere.
Sarebbe come guardare un tramonto in foto: puoi dire che è bello, ma non vivi
le emozioni, non sai se l’aria era calda o se c’era il vento.
Sono cambiato in questi giorni? Ovviamente sì, non puoi
rimanere uguale. Non sono quelle immagini prive di compassione che passano in
tv mentre si è a tavola o sul divano. Tutto questo c’è davvero, e il minimo da
fare è non essere indifferenti e rileggere la propria vita alla luce di ciò.
Lunedì sarà l’anniversario dei 50 anni dal martirio della
beata
Anuarite, congolese e martirizzata proprio a Isiro, e martedì sono arrivati da
noi sei vescovi. Al loro arrivo, con quattro giorni di anticipo, in casa è
iniziato il putiferio, e io, oltre a preparare le stanze, mi sono messo a fare
un chilo di ravioli. Gli africani non apprezzano molto i cibi stranieri,
infatti ne hanno mangiati pochi, ma non vi preoccupate: li ho finiti io.
In questi giorni abbiamo anche salutato due diaconi che
partivano per essere ordinati sacerdoti nei loro paesi, ed è partito Jeremy.
Questo significa che io sono, di punto in bianco, diventato il responsabile
dell’orto. E così mi sono accorto che la stagione delle piogge mi manca da
morire. Adesso bisogna annaffiare l’orto mattina e sera, il che richiede un’ora
e mezza ogni volta. Ora capisco l’importanza delle piogge, soprattutto per la
gente che, durante la secca, non ha l’acqua.
Insieme ai vescovi è arrivato un esercito di suore che ci
hanno letteralmente invaso la casa. Ma non è finita: ieri sono arrivati anche
il cardinale e il nunzio apostolico del Congo, accompagnati da quattro guardie
del corpo. Dovete sapere che qui in Congo la chiesa si è esposta molto
opponendosi alla modificazione della Costituzione, per impedire che il
presidente rinnovasse ancora il mandato. Quindi il cardinale potrebbe
addirittura essere bersaglio di un attentato.
In tutto questo tran tran, il grande Ivo è stato dietro a
tutto. Il prossimo martire del Congo, se va avanti così, sarà lui. In questi
giorni non sono andato quasi mai a Gajen per dare una mano qua in casa. Eh già.
È bello chiamare casa questo posto. Qui c’è anche la mia famiglia africana:
sono un po’ tutti matti, ma siamo una famiglia.
Intanto oggi mi sono accorto che è iniziato l’avvento. Sì,
dico che me ne sono accorto perché, con un sole da spiaggia e 30 gradi, non
sembra di essere a dicembre. Sarà un Natale interessante.
Il 50° anniversario del martirio della beata Anuarite,
con 300mila pellegrini che hanno riempito Isiro, non si può dire che sia
passato inosservato. La funzione è incominciata alle 9,00 ed è finita alle
15,00. Era tutto ben organizzato, con tanto di fuochi d’artificio e macchina
delle bolle di sapone durante alcuni canti. Sono anche intervenuti il
governatore e la moglie.In tutto ciò ho ricevuto un bellissimo regalo: mi è
arrivato da Makpulu un arco con delle frecce (forse qualcuna avvelenata) che mi
era stato promesso. Ovviamente mi sono messo subito ad esercitarmi in giardino
per tirare fuori il Robin Hood che è in me, ma devo ancora allenarmi un po’.
Sono ritornato a lavorare al centro Gajen da cui mancavo
da più di un mese. Quante cose sono cambiate. Prima fra tutte i bambini. Non ce
n’è uno di quelli che ho conosciuto, e devo ammettere che mi dispiace non
averli salutati. Ma d’altro canto non posso che essere felice perché, se non ci
sono più, significa che sono guariti. Quindi mi sono ributtato: questa volta c’è
un bel gruppetto di 5-8 anni. Ci sono Jil (Samì) ed Eest (Bibi) che sono due
macchiette: mi parlano tranquillamente in Lingala pensando che io capisca. E
poi c’è John: il nuovo Radis. È un bambino che, a vederlo, non si direbbe
malnutrito, inoltre è iperattivo e corre dappertutto. Inizialmente mi è venuto
incontro per tirarmi una manata, e mi ha lanciato le sue ciabatte. Ma poi mi si
è buttato addosso a braccia aperte perché lo abbracciassi. Oggi mentre
distribuivamo il pranzo ho controllato che i bambini mangiassero, quando sono
arrivato da John mi sono messo a ridere per la voracità con cui si metteva il
cibo in bocca: due manate alla volta. Quando si è accorto che lo guardavo, ha
cambiato atteggiamento e, ogni volta, prima di infilarsi due pugni di cibo in
bocca, ne allungava uno verso di me come a dire: «Questo prendilo te». Ogni
volta gli ho dovuto dire «Yo» (tu), perché mangiasse.
Ho visto un film un po’ cruento che tratta del traffico e
della guerra per i diamanti in Africa, «Blood Diamonds». Mi ha fatto
impressione: vedere tutta quella crudeltà e sofferenza, e vedere nei volti
degli attori i volti di bambini, giovani, persone che ora conosco, e
immaginarli in quelle situazioni, mi ha veramente scosso. Pensare a come i
paesi più ricchi abbiamo sfruttato l’ignoranza e le risorse di questi popoli, e
lo fanno tuttora, provocando guerre e morte, mi fa venire la nausea.
Al centro nutrizionale la responsabile è andata in
congedo per un mese e quindi sono diventato io il responsabile di tutto.
La «banda bassotti» (un gruppo di bimbi) del centro mi ha
preso in simpatia e non mi molla un secondo. Per quanto riguarda l’orto, è
ancora tutto vivo.
Qui è difficile crederlo, ma siamo sotto Natale. Sentire
padre Tarcisio, mio vicino di stanza, che ascolta ad alto volume i canti
natalizi e allo stesso tempo sentire un sole che spacca le pietre con i suoi 30°
gradi è abbastanza scioccante.
Ci rinuncio, qui è proprio impossibile calarsi nello
spirito natalizio italiano. Eppure non potevo ricevere regalo più bello:
l’essenza del Natale. Al centro Gajen c’è un papà vedovo (l’unico papà tra sole
mamme), che accompagna la sua figlioletta di meno di un anno. Dovreste vedere
come si prende cura di lei e con quale amore: ecco questo esprime il Natale più
di mille pacchetti regalo, alberelli, panettoni ecc.
Al centro c’è anche Eritiè (membro della banda bassotti),
che viene sempre da solo, senza genitori. Durante il pranzo non mangiava,
allora mi sono avvicinato e gli ho chiesto come mai: lui semplicemente non
aveva le posate, e aspettava che qualcun altro finisse perché gliele prestasse.
Allora vi faccio questo augurio per Natale: che possiate
accorgervi di chi vi è accanto e «non ha le posate».
Dopo aver passato il capodanno in mezzo alla foresta di
Neisu, siamo tornati a Isiro alla vita di «tutti i giorni». Dopo quattro mesi,
grazie all’incontro con alcune persone, mi sono accorto che stavo per cadere
nell’abitudine di fare le cose invece che viverle, allora ho aggiustato il
tiro.
A Gajen non vado più in bici: a piedi posso passare in
mezzo alle case della gente incontrandola, parlandoci e conoscendola. In questa
nuova «pastorale della vicinanza», ho iniziato a frequentare il pozzo della
nostra casa: alla sera, tramite il motore, viene pompata l’acqua per la gente,
allora ho conosciuto i nostri vicini. La banda bassotti si è ingrandita. Oltre
a Samì, Bibì ed Eritiè si sono aggiunti Felì, Nada, Jojo, Petro, Emmanuel, Pico
e Paco. Questi ultimi due sono gemelli. Un giorno ho chiesto alla mamma i loro
nomi francesi, dato che quelli in Lingala non li avevo capiti, e lei mi ha
detto che non li avevano. Allora io, per scherzare, le ho suggerito di
chiamarli Pinco e Panco: come nel gioco del telefono senza fili hanno capito
Pico e Paco, e da quel momento li chiamano tutti così.
La vera stagione secca è arrivata. Un caldo intenso di
giorno, e di notte un bel freddo da stare ben coperti con la felpa. Stamattina,
parlando con Jojo (bambino di 9 anni) proprio del freddo, mi ha chiesto se di
notte dormivo in casa. Io gli ho risposto di sì (ovvio no?). Allora lui mi ha
detto che di notte dorme «libanda» (fuori).
Un bel regalo di buon anno è stato Antornine, un giovane di
27 anni che studia all’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza: Antornine ha
chiesto un aiuto economico dato che l’università è molto cara, Ivo glielo ha
dato in cambio di lavoro, e così ho un aiutante per l’orto.
Sempre nell’ottica della pastorale della vicinanza, tra
una zappata e una vangata, gli ho fatto un po’ di domande per conoscerlo. Viene
da un villaggio a 450 km da Isiro, ed è qui con sua sorella maggiore che ha una
figlia. La bambina di 8 anni va a scuola, ma in più prepara da mangiare e
sistema la casa per la mamma e lo zio.
Durante la stagione secca le strade sono fatte di polvere
rossiccia che aspetta solo un bel venticello (frequente) o qualche moto a tutta
velocità (molto frequente) per riempire l’aria e infilarsi ovunque. La gente
gira con i fazzoletti alla bocca per respirae il meno possibile, e le piante
da verdi sono diventate marroncine.
A Gajen sono partiti Felì e la sorellina Nada. Però sono
rimasti tutti gli altri, con Pico e Paco c’è sempre più intesa e Petro è una
macchinetta che non sta mai zitta. La povertà di Isiro e le sue storie mi
sorprendono sempre: Jimitta è una ragazzina che ci da una mano per vendere
qualche prodotto dell’orto in città, l’altro giorno ci ha detto che era stata
cacciata da scuola perché non aveva i soldi per pagare. Antornine mi racconta che
ha finito di scrivere a mano l’introduzione della sua tesi per farla correggere
dal relatore. Quando sarà tutta corretta la scriverà al computer per stamparla.
Ciascun foglio stampato costa un dollaro.
Mi è capitato di leggere un libro di un giornalista che
ha girato l’Africa: «L’Africa è un continente troppo grande per poterlo
descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È
solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la
sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste».
(2 – continua)
Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, Rd Congo, Tommaso
Tommaso Degli Angeli