Gino Girolomoni nasce
in una famiglia contadina. Fin da piccolo si scontra con le difficoltà della
vita. Vede nella civiltà rurale e nella cura della Madre Terra l’unico futuro
possibile. Trova l’energia spirituale nelle piante e nella Bibbia. Con la
moglie Tullia «inventa» l’agricoltura biologica in Italia. Storia di un grande
personaggio, troppo poco conosciuto.
Chi
guarda le foto di Gino Girolomoni, con la barba bianca e lo sguardo severo ma
luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha
difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle sacre scritture. Come colui che
guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e
sapiente.
Così è stata la vita di Gino, padre dell’agricoltura
biologica italiana, fondatore del mitico marchio «Alce Nero», paladino di Madre
Terra e del mondo contadino in via d’estinzione, studioso della Bibbia e
tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.
Un percorso straordinario, purtroppo interrotto da una
morte repentina, il 16 marzo 2012.
Un cammino che viene esplorato da una bella biografia di
Gino, «La terra è la mia preghiera» (Ed. Emi 2014), scritta dal giornalista e
ricercatore spirituale Massimo Orlandi.
Tutto comincia nel 1946 in un piccolo paese delle
Marche, Isola del Piano, a una ventina di chilometri dall’aristocratica Urbino.
Qui nasce Gino, da babbo Olindo e mamma Rina, qui cresce insieme alla sorellina
Vera e al fratellino Alessio. Qui, sono parole sue, vive l’esperienza più
importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della
vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche
i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la
cura di un paesaggio che era bello anche da vedere» (Gino Girolomoni, Alce Nero grida. L’agricoltura biologica, una sfida
culturale, Jaca Book, Milano, 2002, pg. 87).
Tra un piatto di polenta, l’acqua tirata su dal pozzo, i
giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame, il piccolo
Gino passa un’infanzia povera ma felice. Fino a sei anni, quando la mamma muore
per una puntura di spino, avvelenata dal tetano. La famiglia, che ha difficoltà
a accudire i tre bimbi, manda Gino in collegio, dove una vecchia suora gli
trasmette l’amore per la Bibbia. Una passione che segnerà tutta la sua vita.
Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai
campi che ritrova durante le vacanze estive. Alla vigilia del ’68, quando si
chiude il ciclo del collegio, il ragazzo Gino si trova alle prese con la
domanda che tutti i giovani devono affrontare: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile
collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue
colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico
monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da
cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero. Quei ruderi contengono
seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del
fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che
sono passati da lì.
«Questo è un luogo privilegiato dello spirito – si dice
Gino -. Non deve morire d’oblio».
La necessità lo spinge a cercare lavoro fuori: fa il
collaudatore di moto a Pesaro, il caporeparto di uno zuccherificio a Fano. Ma
quando gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un
posto fisso alle ferrovie (per quell’epoca, un teo al lotto) Gino fa
repentinamente marcia indietro, e torna là, nel luogo da cui tutti scappano:
alla sua terra. E vuole starci con la sua donna, Tullia, che dividerà con lui
il suo eretico cammino.
«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere
nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.
In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel
mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante
sviluppo industriale dell’epoca, segnato da quella che lo scrittore Moravia
definisce «putrefazione». Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola
del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in
più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà
contadina e per tentae il rilancio.
Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la
prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti
che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la
civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro
mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie
alla terra.
Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità
a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità,
senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un
giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso
d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro».
Insomma, Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i
valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante
civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso
delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo
modello di sviluppo. Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di
sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce
e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di
mercato che la rendano anche remunerativa.
La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino
la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio»
scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la
lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate – dirà -, tu dimostri
di aver fede secondo la vita che fai».
L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua
comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a
restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in
un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro
primo bambino.
Montebello diventerà, dal 1977, la sede della
Cooperativa Alce Nero – che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a
che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura
biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che,
cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e
dignità i propri diritti. Il logo è appunto un indiano piumato, ritto sul suo
cavallo in corsa, lancia in resta. «Anche nel resto del mondo ci sono gli
indiani – osserva Gino -. In Italia sono i contadini».
La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle
difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia
ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà addirittura
sequestrata per diciassette anni dallo stato perché non ancora prevista nella
nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità
nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e
all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di
fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata
su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi
di euro (55 nel mondo intero).
Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo
paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline
intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della
volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.
Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino e i suoi
valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori
della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello
nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di
scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i
grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e
scrittori del calibro di Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari,
Alex Langer, Ivan Illich, Vittorio Messori.
Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di
accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte
della natura e dello spirito.
Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto
nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di
storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia
per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di
curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in
questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei
costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società» (Gino
Girolomoni, Terre, monti e
colline! Il caso Alce Nero, Jaca Book, Milano
1992, pg. 14).
In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in
politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001, all’epoca in cui
io ero presidente del partito (lascerà poi qualche anno dopo, deluso dalla
politica politicante e dai meccanismi del potere). Abituato al parlare netto e
schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai
potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie
ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente
modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.
«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno
stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare
scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia
rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di
vivere» (Intervista tratta da un documentario «Montebello, una collina che non
si arrende»).
Insomma, come ben sintetizza Massimo Orlandi nella
biografia di Gino (pag. 108): «L’agricoltura biologica rappresenta il primo
nucleo di resistenza attiva… tocca un bisogno primario, il cibo, e racconta il
paradosso più lampante di una società tanto disumanizzata da avvelenare anche
ciò di cui si alimenta».
Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo
per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla
nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare
fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli,
conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica),
tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche,
soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante
economico sia su quello culturale. E soprattutto dalla promessa rappresentata
dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi
custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre,
perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla
cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).
Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è
sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una
passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà
del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo
vincere o perdere. Conta servire la causa».
Grazia
Francescato*
* Ambientalista, giornalista, scrittrice, ex presidente
del Wwf, dei Verdi italiani e dei Verdi europei. È stata deputata nella XV
legislatura (2006-2008).
Tags: ecologia, agricoltura biologica, bioagricoltura, spiritualità, Girolomoni
Grazia Francescato