Un pugno di
multinazionali controlla il 70% dei semi. E quattro gestiscono il 90% della
distribuzione di alimenti. Sono loro che decidono cosa mangiamo. Le risorse per
produrre cibo – terra, acqua, capitali – sono sempre più appannaggio di pochi.
All’Expo di
Milano, ci sono tutti: Capi di stato, governi, istituzioni inteazionali,
imprese e organizzazioni della società civile. Davanti a milioni di visitatori
ammaliati, discutono di questioni alimentari e si sforzano di dimostrare, con
le parole e con la pratica, come si può nutrire il pianeta, rigenerando la
vita.
Di
fronte a tanta energia positiva, a tanto impegno e competenze, viene spontaneo
chiedersi perché non ci si è pensato prima, perché bisognava organizzare
un’esposizione universale per trattare di un tema che è al centro della
sopravvivenza umana?
Era
proprio necessario organizzare un evento così grande, con investimenti così
ingenti e con gli strascichi di malversazioni che lo hanno accompagnato, specie
all’inizio, quando i controlli non erano stati ancora attivati? Non ci si
poteva sedere attorno a un tavolo e trovare le soluzioni? Non sarebbe stato
meglio mettere in pratica le raccomandazioni e i piani di azione che negli anni
le agenzie dell’Onu specializzate, la Fao, il Programma alimentare mondiale e
Ifad, hanno messo a punto in decine di conferenze, ricerche e documenti?
Da
tempo si poteva agire per sottrarre alla fame 840 milioni di persone che ancora
ne soffrono, e salvare dalla malnutrizione i 161 milioni di bambini che ne sono
colpiti.
Semplicemente perché viviamo in un mondo complesso
e sbagliato dove chi è povero e debole non riesce a far sentire la sua voce, né
a influenzare le scelte politiche ed economiche.
Per
questo ci voleva l’Expo, perché le persone comuni, i consumatori, i giovani
capissero e dicessero: basta, facciamo qualcosa!
Perché
fosse chiaro quello che il Mahatma Gandhi intuiva quasi cento anni fa: «La
terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, non l’avidità di
pochi».
Tutti
gli abitanti del pianeta potrebbero ricevere una nutrizione sufficiente e di
qualità se ci fosse un po’ di giustizia in più, se si mettesse un freno al
monopolio delle risorse necessarie per produrre e distribuire il cibo: terra,
acqua, capitali.
Oggi
queste risorse sono concentrate nelle mani di poche grandi imprese: sette
multinazionali controllano il 70 per cento del mercato dei semi, dieci si
spartiscono le foiture di pesticidi, nel mercato dei cereali 9 transazioni su
10 sono controllate da quattro corporations. I grandi marchi che dominano la distribuzione sono una
decina: Nestlè, Kraft, Unilever, Pepsi, Mars, Danone, Kellodg’s, General Mill,
Coca Cola.
Sono
loro che decidono cosa dobbiamo mangiare: cibo sano che ci mantiene in salute o
cibo spazzatura che aumenta il rischio di malattie.
Sempre
loro indirizzano la ricerca scientifica nel settore alimentare, per la quale è
più profittevole studiare ortaggi a lenta maturazione per rifornire le tavole
del mondo ricco piuttosto che piante resistenti alla siccità per nutrire le
popolazioni dell’Africa saheliana.
Sono
le grandi imprese dell’agroindustria che, per garantirsi i profitti futuri, si
accaparrano le terre e le fonti d’acqua comprandole da governi irresponsabili e
corrotti in paesi dove i poveri sono sempre di più e contano sempre meno.
Queste
imprese sono venute all’Expo di Milano a mostrare le loro strabilianti
innovazioni e le loro merci evolute con l’obiettivo di tenere alta la propria
reputazione. Sanno, infatti, che la riprovazione pubblica e la condanna morale
danneggiano i buoni affari.
Fortunatamente
la denuncia delle loro responsabilità non rimane più circoscritta a pochi
ostinati, a livello politico e tra i cittadini si sta diffondendo l’idea che il
loro comportamento va tenuto sotto controllo.
L’Ocse
e l’Onu hanno promosso le «Linee guida» per le imprese in materia di ambiente e
impatto sociale. L’anno scorso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ha approvato un’importante risoluzione per la quale si arriverà ad
adottare uno strumento legalmente vincolante, che potrà sanzionare le imprese
colpevoli di violazioni dei diritti umani.
Alcune
Ong hanno attivato sistemi di monitoraggio in numerosi paesi del mondo ed
esiste una piattaforma creata dal Center for Business and Human Rights, un ente
non profit che ha sede a New York, consultabile dai consumatori per valutare le
politiche e la condotta delle imprese dal punto di vista sociale e ambientale.
Come
visitatori e come organizzazioni sociali siamo presenti a Expo anche per
questo, per dire alle grandi imprese che il loro gioco non ci piace e che
vogliamo cambiare le regole.
Sabina Siniscalchi