Cari Missionari

 

Franchezza sulla Chiesa

Sono un lettore della vostra rivista di cui apprezzo la
franchezza generosa, e desueta, con cui parla dei popoli e delle nazioni del
mondo, e sono stato sorpreso anche del coraggio con cui, parlando del Ce nel
numero di dicembre, P. Pescali riconosce che la scienza è riuscita ad unificare
gli uomini più delle religioni; un riconoscimento certo non facile per una
rivista  religiosa, e neppure del tutto
vero per quanto riguarda la stessa scienza, di cui conosciamo le manipolazioni
passate e della cui onestà di ricerca non siamo sicuri neppure per l’avvenire.
Con la stessa franchezza vi dico che mi sembra inutile l’allegato
sull’Allamano, troppo acriticamente agiografico, così come non trovo lo stesso
coraggio quando affrontate i problemi della Chiesa, soprattutto della sua
gerarchia. Capisco che non si può parlare di corda in casa dell’impiccato, ma
credo che una maggiore schiettezza non danneggerebbe ne voi né la Chiesa
stessa; ricordate Rosmini.

La pratica
liturgica

In un inserto di qualche mese fa, curato da p. A.
Rovelli (di cui sono compaesano, così come lo sono di p. G. Rigamonti), il
problema della crisi della Chiesa è stato affrontato con onestà, ma, a mio
giudizio, tacendo su un fenomeno che la caratterizza da sempre e che reputo uno
degli elementi insieme più limitanti e più da rivedere: intendo il peso che ha
in essa la pratica liturgica e cultuale. Che è centrale nella Chiesa
contemporanea, come nella Chiesa da sempre, almeno dalla sciagurata età
costantiniana in poi, ma che non trova fondamento nel Nuovo Testamento (e qui
mi potrebbe essere d’aiuto p. Farinella, di cui auspico ed attendo il ritorno
sulle vostre colonne). Non ci sono nei vangeli e nell’intero corpus
neo-testamentario esortazioni a funzioni religiose, anzi per lo più se ne parla
in senso molto critico: vedi la parabola del fariseo e del pubblicano,
l’esortazione ad abbandonare il sacrificio per conciliarsi con il fratello, la
stessa preghiera del Padre nostro, che sembra letteralmente strappata a Gesù
dai suoi discepoli. L’unico caso che sembrerebbe smentirlo è l’istituzione
dell’eucaristia, ma il fatto che già ne parli Paolo (I Cor. 11, 23-26) e con
gli stessi accenti che troviamo nei sinottici – e Paolo non ha avuto nessuna
conoscenza diretta del Cristo – fa capire che il memoriale appartiene già alla
prima comunità cristiana come momento di consapevolezza di sé più che alla
verità storica dell’evento. E questo si inserisce perfettamente nella
predicazione del Cristo, che non intende sostituire i vecchi sacrifici e le
vecchie liturgie, ma si propone di creare una mentalità ed un’etica nuova, un
uomo «altro» sia rispetto al modello dell’ebreo che del pagano.

Certo mi direte che la liturgia non fa male a nessuno,
ed in fondo raccoglie la comunità dei credenti in un atto di riaffermazione di
identità e di comunanza di fede. Ma è proprio l’avere puntato soprattutto sulla
liturgia che ha reso marginale l’elemento dirompente dell’annuncio cristiano,
ovvero l’uomo nuovo e l’etica nuova. D’altra parte, a memoria, le esortazioni
che sento e che sentivo sono sempre quelle, riduttive: «sei andato a messa?», «hai
fatto la comunione?», «hai fatto Pasqua?», proprio le domande che Cristo non
rivolge mai ai discepoli. Forse il rispetto della liturgia si accompagna a una
vita scellerata, o anche semplicemente immemore dei suoi doveri o finalizzata
al guadagno senza moralità; l’una e l’altra possono convivere senza lacerazioni
proprio perché il primato della liturgia è neutro; esso assolve la coscienza ed
insieme non impegna, non mette in crisi il proprio modo di vivere.

Due esempi

Mi limito a citare due casi che ne mettono in evidenza
la contraddittorietà. Il momento della cresima, che dovrebbe essere quello
dell’acquisizione della consapevolezza matura di essere cristiano, rappresenta
per lo più un «rompete le righe», il momento in cui finalmente ci si è liberati
del catechismo (per tacer del fatto che la stessa funzione religiosa viene
regolata sugli orari dei ristoranti). Se questa è la reazione più diffusa è
evidente che c’è qualcosa che non funziona nel processo di formazione; nella
maggior parte dei casi quel tempo è stato sprecato e quel seme è andato
perduto. Non si può arrivare alla celebrazione come se questa fosse il tutto;
essa non ne è neppure una parte.

Un altro fatto riguarda la messa: la predica deve essere
ascoltata nel più assoluto silenzio (ho sentito rimproveri alle madri con
bambini molto piccoli o turbolenti; e dove li lasciano?), ma la raccolta delle
offerte è fatta durante la recita del Credo (che dovrebbe essere il momento di
identificazione comunitaria per eccellenza), e se i partecipanti sono numerosi
e il sagrestano è solo si rischia di portare tale raccolta fino al Padre
nostro; è possibile un simile sovvertimento di valori? L’omelia, la parte più
umana, discutibile, spesso la più stantia deve essere privilegiata rispetto ai
momenti più definenti e caratterizzanti? Senza contare (e anche qui don
Farinella mi potrebbe essere d’aiuto) che ecclesia significa comunità, e
soprattutto comunità non organizzata gerarchicamente, e omelia
significava dialogo, confronto, non ascolto supino, spesso volte distratto o
annoiato; e questo dipende anche dal predicatore.

Riempire le
anime

È certo difficile fare proposte: le chiese luterane e
calviniste, che sono da sempre più attente alla Parola, conoscono una crisi
forse ancora superiore a quella della chiesa cattolica. Ma è comunque evidente
che su questa via non si creano né buoni cristiani, né semplicemente persone
messe in crisi dalla loro professione di cristianesimo. Sono consapevole, e
qualcuno me l’ha ricordato, che le celebrazioni liturgiche finiscono con
l’essere l’ultima difesa alla prospettiva di una totale assenza del
cristianesimo nella società contemporanea. Ma non mi pare che si ponga la
stessa cura nella formazione. La conoscenza della storia della cristianità
tutta, la lettura critica dei testi, anche di quelli basilari, la
frequentazione dei numerosi autori cristiani soprattutto delle origini la si
trova più in alcuni laici che non negli stessi uomini di chiesa, che spesso ne
propongono una lettura rapida ed annoiata. Senza dimenticare il monito di
Pascal nella sua polemica contro i gesuiti: vi interessa solo riempire le
vostre chiese, non le anime dei vostri fedeli. Penso che il problema principale
sia innanzitutto uscire da questa condizione che crea fedeli inerti, per
formare cristiani che possono sì sbagliare anche più di quelli che vivono
secondo il modello corrente, ma per vitalità, per passioni, per principi etici.
Se è vero che la conoscenza (purtroppo!) non è tutto e non garantisce, è
altrettanto vero che l’approssimazione non creerà un cristiano autentico. E la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere.

Per ragioni di correttezza voglio puntualizzare che chi
vi scrive è un agnostico, che tuttavia interessi storici hanno portato allo
studio del cristianesimo delle origini; e ritiene che il cristianesimo abbia
ancora, in questa stagione priva di ideologie e freddamente fondata su principi
economici (non si possono far fallire le banche, ma si può portare alla
disperazione un popolo, vedi la Grecia!), un grande ruolo da svolgere nella
coscienza contemporanea, ma deve cercare modi nuovi e non usuali per parlare
all’uomo. In fondo quegli antichi cristiani lo trovarono: senza chiese, intese
come edifici, e con un culto scao; forse è necessario riesaminare nel profondo
i caratteri delle origini; certo la consapevolezza e l’etica, ma anche la
conoscenza, erano superiori. E, lo ripeto ancora una volta, la comunità non era
fondata sul culto.

Mi scuso del disturbo, e con i più sinceri auguri che la
vostra rivista sopravviva.

Giuseppe
Corti
Barzago (LC), 16/02/2015

Grazie
sig. Giuseppe di questa lunga e interessante email. La sua disamina circa la
liturgia, tocca punti sostanziali della vita delle nostre comunità cristiane e
denuncia una situazione che certamente è una delle sfide più impegnative che la
Chiesa sta vivendo oggi.


Per
chi, come un missionario, rientra da paesi dove la liturgia è viva e celebrata,
il ritrovarsi in chiese dove la prima regola è «sii breve» perché la gente ha
fretta e ha tanto altro più importante da fare, lascia davvero sconsolati e
confusi.


«Si
ha spesso l’impressione che oggi nella chiesa la liturgia sia percepita più
come un problema da risolvere che una risorsa alla quale attingere. Eppure il
futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità
che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale
dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la chiesa di oggi».
Così scrive Goffredo Boselli, monaco di Bose.


Che
i cristiani italiani abbiano spesso ridotto la liturgia a un culto fatto di
pratiche esteriori, riti folkloristici, obblighi assolti, precetti e devozioni,
è un fatto. Senza entrare poi in merito a funerali a partecipazione zero e
matrimoni ridotti a spettacolo. Se poi si aggiungono le processioni in odore di
mafia e la difficoltà di trovare padrini e madrine «in regola» per battesimi e
cresime, il quadro è davvero preoccupante. La liturgia che la Chiesa sogna e
tutt’altra cosa. Per questo non posso concordare con lei quando dice che «la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere».


Il
Concilio Vaticano II ha scritto che «la liturgia è il culmine verso cui tende
l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosantum Concilium n. 10). Culmine e
fonte: due parole molto significative. Tutta la vita della comunità cristiana
dovrebbe trovare la sintesi nella liturgia e dalla liturgia attingere poi
l’energia per dare senso alla vita.


I
Cristiani dovrebbero poter dire «Senza la Domenica non possiamo vivere»,
insieme ai 49 martiri di Abitene (Tunisia) che nel 304 preferirono morire
durante la persecuzione di Domiziano piuttosto che rinunciare a celebrare
settimanalmente il memoriale della Pasqua del Signore.


Certo,
se quel che si celebra comincia in chiesa e in chiesa finisce, allora lei ha
pienamente ragione.

Non demordete

Da anni sono un’assidua lettrice della vostra rivista, e
dopo averla letta e apprezzata e meditata cerco di diffonderla, di «farla
girare» anche presso persone non completamente «cristiane ortodosse». È oggetto
ogni volta di discussioni costruttive. Trovo che riuscite sempre a essere
obiettivi, anche se trattate argomenti sociali, ambientali o politici.

È logico che quello che anima il vostro «andare a chi ha
avuto di meno» è animato dalla carità di Cristo, anche quando non viene
espressamente detto negli articoli: «non quando dite Signore, Signore siete
fedeli osservanti, ma quando fate la volontà del Padre mio» (cito a memoria
[cfr. Mt 7,21 ndr])… e qual è questa volontà di Dio se non dare la
vita per il progresso sia spirituale che umano dei nostri fratelli, spartendo
la nostra esperienza di Dio e, a volte, anche imparando da chi, a prima vista
giudichiamo «lontani».

Lo Spirito soffia dove vuole e non viene meno l’amore
alla nostra identità di Cristiani, se non ci mettiamo sempre sul pulpito,
credendoci gli unici detentori della Verità. D’altronde (dico un’eresia), il
Figlio di Dio avrebbe potuto starsene tranquillo col Padre e il Santo Spirito,
invece, per puro amore ha voluto scendere a «sporcarsi le mani» con le povere
faccende di noi umani, condividendo con noi giornie e dolori, e «ci ha pure
rimesso le piume» per aver denunciato le ingiustizie dei poteri del suo tempo.

Scusate le imprecisioni e le inesattezze nell’esporre
quel che penso (non ho studiato e sono vicina agli ottanta), ma quando ho letto
lo scritto del signor Alfredo di Genova (MC 03/2015, p. 7) non ho potuto far a
meno di mandarvi il mio incoraggiamento nel proseguire lo stile della vostra
rivista. Grazie del bene che fate a me, che fate a tutti quelli che vi leggono
e… non demordete: il Cristo è con voi!

Mira
Mondo,
Condove (TO), 08/03/2015

Caro Padre Gigi,

ho iniziato a ricevere e a leggere la vostra rivista
casualmente, e ora l’attendo con impazienza tutti i mesi; le scrivo per
condividere con lei alcune riflessioni (un po’ tardive, mi perdoni!) sulla
lettera molto bella e molto profonda del signor Garianol sullo stravolgimento
della figura del missionario.

Insegno storia e geografia ai licei e sono cattolica,
credente ma non strettamente osservante, anzi spesso lacerata da dubbi
interiori in merito ad alcune posizioni della Chiesa: ritengo doverosa questa
premessa perché la mia formazione culturale mi porta a guardare le cose da osservatrice
estea, cercando di comprendere le ragioni degli uni e degli altri, di essere
imparziale e oggettiva (esercizio faticoso e difficile).

Per questo motivo ho trovato gli articoli della vostra
rivista interessanti al punto da leggerli regolarmente in classe, e vi
considero un prezioso punto di riferimento: nelle vostre pagine si parla di
umanità – vicina e lontana – che spesso non riceve dai media l’attenzione che
meriterebbe, oppure la riceve distorta, condizionata da interessi di parte ed
appartenenze politiche. Un esempio per tutti: siete stati gli unici a suo
tempo, ad esporre in modo chiaro, equilibrato ed esauriente in che cosa
consista la protesta dei No Tav. Non ho mai trovato niente di equiparabile in
nessun articolo o rivista di geopolitica, tanto meno sui quotidiani.

Quindi la vostra testimonianza è importantissima, e così
come avete scelto di presentarla rispecchia – a parer mio – l’intenzione di
essere al passo con tempi e con il mondo che si evolve: la creazione di pozzi,
di strutture, l’attenzione alla figura femminile, alla gioventù e all’ambiente
ritengo siano gli strumenti ineludibili per una evangelizzazione consapevole e «matura».

Ma il messaggio cristiano c’è eccome: io lo vedo ovunque,
fra le righe e non. Ed è proprio questa la vostra forza: coniugare il messaggio
di Gesù con le urgenze del nostro mondo e del nostro tempo, con serenità ed
apertura verso l’altro. Inoltre la vostra preoccupazione di voler essere letti
da tutti – come lei afferma nella risposta – mi sembra non una debolezza, ma un
saggio modo per avvicinare alla lettura e alla riflessione il maggior numero di
persone.

Con gratitudine

Anna
Patrone
email, 14/03/2015

Il papa
stile Consolata

Cari fratelli e sorelle missionari della Consolata, con
gioia mi sto rendendo conto che c’è un grande parallelismo tra quello che il
nostro papa sta insegnando e gli insegnamenti del nostro padre fondatore, il
beato Giuseppe Allamano. Dall’anno della vita consacrata all’anno della
misericodia, è tutta gioia di consolazione che ci porta Gesù, la vera
consolazione. Noi come missionari della Consolata, credo che siamo chiamati a
questa testimonianza. Con papa Francesco giochiamo in casa.

Nel libretto Rallegratevi, prima lettera
circolare ai consacrati e alle consacrate (basata su citazioni dal magistero di
papa Francesco), il papa lancia il tema della gioia dicendo: «La gioia del
Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».
Il papa cita poi il profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il
vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme» (Isaia 40,1-2). Il parlare al
cuore è proprio la nostra chiamata. Il papa ci dà poi uno spunto importante: «Si
tratta perciò di un linguaggio da interpretare nell’orizzonte dell’amore, non
in quello dell’incoraggiamento: quindi azione e parole insieme, delicate e
incoraggianti, ma che richiamano i legami affettivi intensi di Dio “sposo” di
Israele». Continua poi: «La consolazione deve essere epifania di una reciproca
appartenenza, gioco di empatia intensa, di commozione e legame vitale». In
quest’ultima frase trovo in nostro fondatore quando manda i missionari dicendo
che dobbiamo amare la gente, imparae la lingua e stare con loro. Imparare la
lingua credo non sia solo questione di grammatica, ma richieda entrare in
gioco, sapere la lingua comune, la lingua dei giovani e la lingua degli
anziani. Da tanzaniano dico che non basta saper lo swahili occorre imparare a
parlare al cuore della gente. Il padre fondatore diceva che dobbiamo «elevare»
la gente (cfr. MC 06/2014, p. 32), questo è parlare al cuore.

Il papa scrive ancora: «La gente oggi ha bisogno
certamente delle parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la
misericordia, la tenerezza del Signore che scalda il cuore, che risveglia la
speranza, che attira verso il bene. La gioia di portare la consolazione di Dio!».
«Gli uomini e le donne del nostro tempo aspettano parole di consolazione, di
prossimità, di perdono e di gioia vera. Siamo chiamati a portare a tutti
l’abbraccio di Dio, che si china con la tenerezza di una madre verso di noi». È
un richiamo al chinarci, al cercare di farci «tutto a tutti, per salvare ad
ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

La domanda è: come? La risposta del papa è che tocca a
noi curare l’amicizia tra di noi umanizzando le nostre comunità. Dobbiamo
curare la vita della comunità, perché diventi come una famiglia. Lì lo Spirito
Santo è nella comunità. Sempre con un cuore grande. Lasciar passare, non
vantarsi, sopportare tutto, sorridere dal cuore. È il segno della gioia. Non è
per caso che il nostro padre fondatore ci volesse famiglia. Noi lo siamo. Il
papa ci invita a non privatizzare l’amore. Padre Allamano ci voleva fratelli e
sorelle.

Quando il papa annuncia la gioia di un anno giubilare
della misericordia, mi lascia senza parole. Il papa spera che «tutta la chiesa
possa ritrovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e mantenere feconda
la misericordia di Dio, con la quale, siamo chiamati a dare consolazione ad
ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo».

Noi riusciremo a dare questa testimonianza della misericordia
o della consolazione sapendo che Dio ci ha consolati per primo. Il papa trova
il coraggio di annunciare l’anno della misericordia perché «Ecco, questo sono
io, un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Soltanto colui
che è stato perdonato sa perdonare, uno sa amare se è stato amato, e uno è misericordioso
perché trova la misericordia di Dio.

Danstan
Mushobolozi,
Martina Franca, 17/03/2015

Risponde il Direttore

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