Terra viva di pescatori e migranti (2)

Storie di «ordinaria»
migrazione

Libertà a caro prezzo
Nei centri di prima
accoglienza le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata in mesi di
attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. Mustaqim dal
Bangladesh, Sheriff dal Gambia raccontano un pezzo delle loro storie. Bakari è
«rinchiuso» nel centro di accoglienza di Mineo da più di un anno. Mammut vi è
stato trasferito da appena due mesi, dalla tendopoli di Messina, e già pensa
alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro attende da più di tre anni una risposta
sul proprio destino. Rifugiati, perseguitati, migranti in cerca di una vita
migliore, sopravvissuti all’indicibile, sono condannati a una vita sospesa.

Dopo
lo sbarco, i minori stranieri sono condotti nei centri di prima accoglienza: a
Pozzallo, in un palazzetto dello sport messo a disposizione per la stagione
estiva da un privato, dove una trentina di ragazzi egiziani dormono su
materassi di gommapiuma e il loro unico svago è ballare al ritmo della musica
rap araba trasmessa da due grandi amplificatori, e ad Augusta, in una scuola in
disuso. Per le centinaia di ragazzi che arrivano nel porto della città a bordo
delle navi della Marina militare, nel cortile della «Scuola Verde» sono state
predisposte brandine di fortuna, mentre al piano superiore le aule sono state
adibite a camerate, ciascuna occupata da otto ragazzi, divisi per nazionalità.

Nella stanza dei bengalesi, considerata la più pulita e
ordinata, ci riceve Mustaqim il «retto». Indossa una maglietta con la scritta
United Colours of Benetton; non sa nulla del crollo del Rana Plaza, la fabbrica
tessile alla periferia di Dacca che nell’aprile del 2013 era costato la vita a
più di 1.000 suoi connazionali. Doveva essere già in viaggio. È pettinato come
uno studente di un college inglese, forse per apparire più giovane. In effetti
aspetta un permesso per minore età. Mostra la foto dei genitori: la mamma,
avvolta in un sari viola, sembra piuttosto anziana. Comunque Mustaqim è il
maggiore di nove fratelli e spetta a lui il compito di mantenerli. Dice che la
sua famiglia ha chiesto un prestito in banca per pagare il costo del viaggio.
Ma è più probabile che dietro ci sia una catena transnazionale di «imprenditori»
del traffico di persone che chiede ai migranti e alle loro famiglie interessi
esosi.

È un universo «invisibile» quello dei migranti dal
Bangladesh, da cui si registrano i primi arrivi in Italia già nel 1982. Non
possono chiedere lo status di rifugiato politico – ciò creerebbe all’Italia
tensioni con un governo democraticamente eletto – né di profugo ambientale –
categoria che non gode ancora di un riconoscimento giuridico -, definizione che
calzerebbe perfettamente su coloro che fuggono dal paese asiatico, il cui
territorio, notoriamente, è flagellato da pesanti inondazioni e ora sempre più
soggetto a periodi di siccità.

Le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata
in mesi di attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. La «Scuola
Verde» non è certamente il luogo più adatto a ospitare dei minori: era già
stata dichiarata non agibile, e i ragazzi sono lasciati soli nelle ore
nottue. Molti di loro però hanno costruito relazioni positive con il
territorio: operatori, volontari, tutori che li hanno avuti in consegna per
mesi.

Il mattino del 21 ottobre arriva il trasferimento
a sorpresa: saranno portati tutti in una nuova struttura, un altro centro di
prima accoglienza a Melilli, nella frazione Città Giardino.

Proprio come Kunta
Kinte

Sheriff arriva dal Gambia, dal villaggio di Badibù, lo
stesso di Sarjo, ma lui è partito prima.

Appartiene al gruppo etnico Mandinka, proprio come Kunta
Kinte, il protagonista di Radici, fortunato film per la televisione
tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore afroamericano Alex Haley. Erano gli
anni ’70 e un’intera generazione di ragazzi italiani fece il tifo per quel nero
forte e coraggioso che lottava per i suoi diritti. Per Sheriff, Kunta Kinte è
esistito davvero: «È il nostro eroe nazionale», dice. Lui ha seguito il destino
del suo illustre antenato imbarcandosi su una modea nave negriera, verso un
luogo in cui la libertà si conquista ancora a caro prezzo.

Anche il suo è stato un viaggio lungo e difficile.
Sheriff mostra un tesserino da giornalista e racconta che, grazie a una borsa
di studio, aveva iniziato uno stage presso la radio privata «Kids with talents»
(Kwt 107.6 fm) che si occupava di sport e giovani di talento. Sheriff aveva
visitato alcune comunità rurali per raccogliere le opinioni degli abitanti
sulla decisione del presidente Jammeh Yahya1 di vietare il gioco del calcio
durante la stagione delle piogge – giugno-ottobre – per indurre i giovani a
lavorare nei campi di arachidi, principale prodotto di esportazione. Un
intervistato aveva espresso delle critiche, e Sheriff poco tempo dopo aveva
ricevuto una telefonata: la cosa era arrivata alle orecchie di Yahya, che non
aveva gradito il contenuto dell’intervista. Avrebbe potuto mandare i suoi jungullers
(una specie di milizia privata al soldo del dittatore) a ucciderlo. Sheriff
allora non ha perso tempo ed è fuggito. Ha percorso 200 km a piedi per entrare
in Senegal, di lì in Mauritania, e poi in Marocco da dove ha tentato più volte
di raggiungere l’Europa. Per pagare il resto del viaggio, ha lavorato per un
periodo come muratore a Tangeri, dove viveva in edifici abbandonati alla
periferia della città. Ma una notte è stato costretto a scappare per una retata
della polizia. Raggiunta Tetouàn, si è nascosto nella foresta di Cassiago, dove
erano accampate centinaia di «fratelli» di altri paesi del West Africa.
Per entrare a Ceuta, l’enclave spagnola, ci sono due modi: attraversare a nuoto
quel lembo di mare che la separa dal Marocco, oppure scavalcare il muro fatto
di recinzioni alte sei metri e sormontato da reticolati di filo spinato2.
Sheriff era su quel muro quando è stato catturato. In prigione, i poliziotti
marocchini gli gridavano sporco negro e lo hanno lasciato senza mangiare per
due giorni. Al secondo tentativo è stato deportato alla frontiera con
l’Algeria. Superato il confine, è stato nuovamente arrestato a Maghnia, dove è
stato costretto a passare la notte dentro a una buca. Fuggito di là, ha capito
che la sua ultima speranza era la Libia.

Ora vive con Sekou «il Saggio», che ha incontrato a
Tripoli ed era con lui sulla barca che lo ha portato in Sicilia, in un
appartamento dello Sprar (il Sistema di Protezione per Migranti e Richiedenti
Asilo) ad Aci Sant’Antonio, proprio sotto al Vulcano. «La notte sembra che la
casa si muova e abbiamo paura».

Sekou, che ha una brutta ferita sul viso ed è orfano di
entrambi i genitori, parla bene italiano, ma fa finta di non capire. Dice di
essere in contatto diretto con Ousainou Darboe, un avvocato per i diritti
umani, leader del principale partito dell’opposizione in Gambia. Sekou e
Sheriff sarebbero potuti rientrare nel loro paese prima del previsto se il
colpo di stato, tentato nella notte tra il 29 e il 30 dicembre scorso, non
fosse fallito.

C’è ancora qualcuno
che nasce o muore nel centro di Mineo

Sheriff e Sekou sanno di essere stati comunque più
fortunati di tanti loro compagni di viaggio. Bakari è «rinchiuso» nel centro di
accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara)3
di Mineo da più di un anno. Mammut vi è stato trasferito da appena due mesi,
dalla tendopoli di Messina, e già pensa alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro
attende da più di tre anni una risposta sul proprio destino. Malgrado il
recente scandalo denominato dalla stampa «Mafia capitale» che ha riguardato
l’intero «sistema italiano dell’accoglienza» e, in particolare, proprio la
gestione del centro nato nel 2011 sull’onda dell’ennesima emergenza, c’è ancora
qualcuno che a Mineo nasce o muore.

Pochi chilometri separano il centro dalla base
aeronavale Usa di Sigonella. Percorriamo la statale che da Catania porta a
Caltagirone, e di lì a Gela. Alla nostra destra c’è la distesa di filo spinato
che protegge la base, interrotta solo da qualche cespuglio dove si nascondono
le prostitute, tutte ragazze africane ospiti del Cara. Più avanti, sulla
sinistra, vediamo sbucare all’improvviso un gruppo di villette tutte uguali,
color pastello e, poco oltre, un agrumeto. Ha il nome bucolico di Residence
degli aranci, ma per entrare ci vuole «un’autorizzazione speciale», dicono i
funzionari all’ingresso. Anche per uscire, gli ospiti devono passare il badge e
sono obbligati a rientrare entro 48 ore.

Il primo centro abitato sulla strada, Mineo appunto, è
arroccato sulla collina ed è difficilmente raggiungibile a piedi. Sulla
striscia d’asfalto che separa il centro dai campi lasciati incolti, un pastore
pascola le pecore, sorvegliate da un cane che zoppica. Mentre la foto,
pubblicata sul web, che mostra i migranti appesi al «muro» di Ceuta e gli
spagnoli, dall’altra parte, che giocano a golf, fa il giro del mondo, sulla
strada del ritorno, anche noi abbiamo un flash: dietro la recinzione che cinge
il perimetro di Sigonella, un militare in maniche corte passeggia con la figlia
– i capelli biondi e lo stesso diafano pallore – su un prato all’inglese
perfettamente curato e di un verde talmente intenso da sembrare finto.

Ci giriamo un’ultima volta verso il «villaggio della
solidarietà» (il Cara di Mineo è stato chiamato anche così) dove centinaia di
uomini e donne nel fiore dell’età, dopo essere sopravvissuti all’indicibile,
sono condannati a una vita sospesa, che ha più il sapore di una morte lenta che
di una seconda nascita a un’esistenza nuova, dall’altro lato di questo mare nostro.

Note alle pagine
44-47:

1
Jammeh Yahya era balzato agli onori della cronaca nel 2013 per aver
definito, nel corso di un’assemblea generale dell’Onu, i propri concittadini
omossessuali una «sciagura», e l’omosessualità la «maggiore minaccia per l’esistenza
umana». Per rimanere su questo tema, già nel 2008 aveva ammonito gay e lesbiche
a lasciare il paese, se non volevano vedere le loro teste tagliate. Nel
febbraio 2014, parlando alla televisione di stato dichiarava: «Combatteremo
questi animali infestanti chiamati omosessuali nello stesso modo in cui stiamo
combattendo le zanzare portatrici di malaria». Lo scorso agosto l’assemblea
nazionale del Gambia ha approvato un disegno di legge che prevede l’ergastolo
per il reato di «omosessualità aggravata», ovvero per coloro che ripetono il
presunto crimine in forma recidiva, e per le persone che hanno contratto l’Hiv.


Ceuta e Melilla, enclave spagnole in territorio marocchino, hanno
rappresentato per tutti gli anni Novanta due porte d’ingresso per l’Unione
europea. Per questo sono state separate dal Marocco da una doppia rete
metallica alta inizialmente tre metri, e poi raddoppiata a sei. Nell’estate e
autunno del 2005 le due enclave sono state oggetto di veri e propri assalti di
migranti che tentavano, in alcuni casi riuscendoci, di scavalcare il muro.
All’inizio del 2014, l’uso di proiettili di gomma e il lancio di lacrimogeni da
parte della Guardia Civil spagnola avrebbero causato la morte di 15 migranti.
Il nuovo giro di vite spagnolo ha fatto storcere il naso all’Unione europea,
che pure aveva finanziato, con 20 milioni di Euro, la recinzione.


Riprendendo alcune intuizioni di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben,
alcuni studiosi di scienze sociali hanno mostrato come ci sia una continuità di
logica tra i campi di concentramento e i vari centri di identificazione,
detenzione e accoglienza, in quanto spazi in cui viene normalizzata una
condizione di eccezione al diritto, essendovi reclusi soggetti che non hanno
commesso alcun reato.

Decisamente rilevante,
a questo riguardo, è la difficoltà, anche per parlamentari, giornalisti e
avvocati, di essere ammessi in queste strutture.

Silvia Zaccaria

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