Terra viva di pescatori e migranti (1)

Reportage dalla Sicilia sull’«emergenza sbarchi»

Sicilia, tappa di un’umanità in fuga


Dove gli eroi non sono dèi

 

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo. Ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri, così come i confini tra i
gesti degli dei dell’antichità classica e quelli dell’umanità ferita che oggi
nell’isola di Verga vive e resiste. In quel mare nostrum si mescolano i destini
dei pescatori siciliani con quelli dei migranti. Lì si consuma quel fenomeno
strutturale, inarrestabile e prevedibile che impropriamente politici e media
chiamano «emergenza sbarchi».

Ad
Aci Trezza, in provincia di Catania, tutti conoscono «Grillo» il pescatore. «Da
giovane mi chiamavano Fellini», dice accennando un sorriso sotto la barba
bianca. Quando lo vediamo uscire dall’acqua con la sua preda, a noi ricorda
piuttosto Tritone, il figlio del dio del mare, per metà uomo e per metà pesce.

Carlo Levi, durante uno dei suoi viaggi nella Sicilia
del secondo dopoguerra, esperienza da cui nacque il libro Le parole sono
pietre
(1955), ebbe modo di visitare il borgo marinaro immortalato da Verga
ne I malavoglia e da Visconti ne La terra trema, e raccolse le
impressioni di una signora straniera che, come lui, viaggiava alla scoperta
dell’isola: «Camminando per le vie di Aci Trezza, le era parso “di passare in
mezzo a un popolo di dèi tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi
gesti, le sue vicende, il suo destino, erano fissati ed eterni, non seguendo
una storia individuale ma uno stile o un costume a tutti comune ed immutabile.
Non mi sembrano uomini, donne, bambini di oggi, ma alberi di una foresta, o
esseri antichi, come gli dèi. Mi pare che qui tutto debba essere sempre stato
così e che sarà sempre così”».

Grillo-Fellini ha catturato da poco una murena: «Nel
mese di maggio – spiega ai turisti che si accalcano curiosi attorno a lui – le
vipere in calore si spingono sugli scogli e si accoppiano con certe specie di
pesci e così nascono le murene».

Nella cultura popolare gli eroi non sono dèi, ma piccoli
uomini, persone comuni le cui gesta però, nel momento in cui essi superano il
confine dei mondi, assumono contorni mitici. Mito e fiaba, infatti, raccontano,
in modo più o meno diretto, soprattutto viaggi di scoperta, in cui la
conoscenza di sé e la generosa apertura verso l’Altro a volte costa il
sacrificio dei loro protagonisti. Così, se nella mitologia greca Tritone può
trascinare fino al Mediterraneo la nave Argo arenata nel deserto della Libia
grazie ai suoi poteri soprannaturali, nella leggenda sicula, Colapesce, un
pescatore di Messina1 trasformato in una creatura anfibia da una maledizione,
può salvare la Sicilia decidendo di rimanere per sempre in fondo al mare per
sostituirsi a una delle colonne che sorreggono l’isola, quella consumata dal
fuoco dell’Etna2, e per essere d’aiuto ai marinai.

Per la gente di Sicilia «Colapisci» non è morto, e un
giorno toerà sulla terra: quando nessun uomo soffrirà più per dolore o per
castighi, per quell’atavica condizione d’ingiustizia che Levi trovò radicata nella terra siciliana, «antica, composita,
enormemente stratificata che forze etee, oscure e prepotenti tengono da
sempre in soggezione». Lo scrittore riteneva di poter comprendere quella terra «solo
indugiando su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, di violento
investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di mitico-storico-poetico torna
alla memoria».

Tappa di un’umanità
in fuga

Tappa di passaggio per naviganti della mitologia antica,
l’isola è oggi sulle rotte di un’umanità in fuga «che si imbarca, senza
geografia, da qualunque spiaggia, verso qualunque approdo»3,
estremo baluardo, suo malgrado, di quella «fortezza Europa»4
che proprio nel mito classico va a cercare i nomi per le sue operazioni di
controllo delle frontiere, forse nell’intento di dare un’aura eroica alle
imprese poco gloriose del presente: Hermes, Aeneas, Poseidon, fino all’ultima
Triton, che però, per l’appunto, della divinità benevola, capace di calmare le
acque e d’indicare la rotta agli Argonauti, non ha nulla.

Con questa stessa retorica classicheggiante era cominciata
anche Mare Nostrum, la missione militare e umanitaria tutta italiana di «sorveglianza
e soccorso in mare», inaugurata pochi giorni dopo il naufragio in cui morirono
annegate, a largo di Lampedusa, più di 360 persone, e chiusa il primo novembre
scorso, sostituita dalla più modesta missione europea Triton.

È il 3 ottobre 2014, primo anniversario della tragedia:
la commemorazione ufficiale si svolge sull’isola con la passerella delle
autorità e le contestazioni delle associazioni locali (Askavusa, «a piedi
scalzi» in dialetto lampedusano, in primis), mentre i parenti delle vittime e i
superstiti5 sono ricevuti dal Papa. In piazza dell’Esquilino, a
Roma, si tiene una sommessa cerimonia interreligiosa: un imam legge un passo
del Corano, un prete ivoriano intona l’Ave Maria e un esponente delle «religioni
tradizionali» suona una specie di olifante come a evocare gli spiriti dei
morti. Si leggono le testimonianze dei sopravvissuti e poesie di scrittori
africani: «Per ognuno di noi c’è una stella nel cielo, ogni persona che muore è
una stella che non sopravvive». Le donne eritree, avvolte in un leggero panno
bianco, con cui nascondono il viso dai fotografi, hanno in mano una candela
accesa. La sera c’è l’anteprima del film documentario Io sto con la sposa,
dove il senso dell’incredibile viaggio di un gruppo di profughi palestinesi e
siriani attraverso le frontiere europee è espresso nei versi di un poeta
tunisino: «Se devi vivere, vivi libero. Se devi morire, muori come un albero,
immobile».

E mentre ancora si commemorano le vittime di Lampedusa,
alle operazioni di controllo e soccorso in mare si affiancano quelle di
monitoraggio delle frontiere «estee», aeree, marittime e terrestri: Mos
Maiorum6 (letteralmente «costume degli antenati», locuzione che
nell’antica Roma indicava i valori cui conformarsi per essere parte della
civiltà romana, ndr) è lo slogan della maxi retata lanciata tra il 13 e
il 26 ottobre 2014 dal ministero dell’Inteo italiano, in collaborazione con
l’Agenzia europea Frontex, per schedare gli immigrati irregolari presenti sul
nostro territorio europeo. Il richiamo al «costume dei padri», quasi a indicare
una presunta – ma fittizia – identità culturale comune a tutti i paesi membri
dell’Ue, assume inquietanti connotazioni xenofobe.

Fenomeno strutturale,
non emergenza

Al mercato del pesce di Aci Trezza il signor Liberato prepara le reti per l’indomani. Gli diciamo che siamo in Sicilia per
seguire l’«emergenza sbarchi». «Ma è vero – ci chiede – che Mare Nostrum costa
all’Italia 9 milioni di Euro al mese?».

«Tempo fa», racconta Liberato, «trovai una barca in
avaria con dei clandestini a bordo vicino a Cassibile. Chiamai la polizia marittima di Siracusa. Mi risposero: “Siamo in zona!”. Ma arrivarono quattro ore dopo e
trovarono solo il capitano. I clandestini erano già stati caricati su una barca
più piccola e portati fino alla costa. Mi chiamarono addirittura dal tribunale
per farmi l’interrogatorio: “Quanti erano?”. Ma io ci dissi: “Mentre li
salvavo, non li contavo mica”. Lo sa che c’è, signora? La prossima volta mi
faccio i fatti miei. La giornata di lavoro persa non me la paga nessuno». (Cfr.
Box pagina 35
)

La risposta alla domanda sul costo di Mare Nostrum del
signor Liberato si trova scritta a chiare lettere sul sito della Camera dei
deputati7, nel quale si legge che l’operazione è stata finanziata
per un terzo «dalle entrate dell’Inps derivanti dagli oneri di regolarizzazione
degli immigrati» dell’ultima sanatoria8, nonché da «corrispondente
riduzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di
tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura», la quale ha comportato
un taglio senza precedenti proprio nella Regione chiave di Cosa Nostra.

Spenti i riflettori sull’operazione Mare Nostrum,
sostituita da Triton, si è interrotta anche la «cronaca degli sbarchi» che
riportava, come un bollettino di guerra, il numero dei dispersi e dei salvati.
(Cfr. Box in questa pagina)

L’uso improprio del termine «sbarco» da parte dei media
e della politica, automaticamente collegato nell’immaginario collettivo
all’immigrazione irregolare, ha alimentato la retorica del «flusso
straordinario e fuori controllo», e quindi dell’«invasione», legittimando la
dichiarazione di «stato d’emergenza» che dal 2002 viene prorogato di anno in
anno da tutti i governi che si sono susseguiti9.
Quello degli «sbarchi», come il flusso migratorio in generale, è invece un
fenomeno strutturale, fortemente esposto alle variazioni del contesto
geopolitico, il cui andamento somiglia a un fiume carsico, con stagioni di
particolare dinamismo e improvvisa accelerazione, come quella attuale, seguite
da fasi di quiete.

Morire lontano dai
sassi che ti conoscono

Nel suo viaggio nel paese dei Malavoglia, Levi
era rimasto colpito dall’atteggiamento dei pescatori di fronte alla vita e alla
morte, dalla loro tenace accettazione di un destino stretto tra mare e vulcano.
«Un mondo pieno di luce, calmo e chiuso in gesti armoniosi», come quelli dei
marinai che riparano le reti o di quel vecchio che col pennello rinfresca la
vernice della sua barca dipinta:

«Eravamo scesi intanto tra le barche, tirate in secco
sulla spiaggia tra le grandi pietre violette e levigate, l’una vicina
all’altra, sì da rendere difficile il passaggio: erano come fiori colorati,
come carri siciliani senza ruote». Sulla prua, al posto dei Paladini di Francia
raffigurati sulle miriadi di carretti che Levi vedeva passare per le strade «come
una continua emigrazione di un popolo che non può star fermo», c’era San
Francesco da Paola, protettore dei pescatori, e l’immancabile occhio «scaccia
guai», che, oltre alla funzione apotropaica (di allontanare le influenze
maligne), aveva quella di elevare la barca a rango di persona umana.

Allo scalo di Aci Trezza, di quelle imbarcazioni
variopinte del tempo che fu, quando la pesca era abbondante e il mare faceva
ancora paura – e quindi il pescatore, per ingraziarselo, dava il meglio di sé
oando la propria barca come una «zita» («promessa sposa», in dialetto
siciliano) -, ce ne sono rimaste solo due: Venere e, naturalmente, Provvidenza,
che però stanno lì solo per bellezza, decorate da qualche amatore nostalgico.

Al porticciolo turistico oggi c’è movimento: vicino alla
banchina si scorge la sagoma sinistra di un peschereccio quasi completamente
sott’acqua con la scritta, ancora leggibile a poppa, «Water World»: il destino
nel nome. «Era tutto di legno, di legno buono. Forse era libico», commentano i
pescatori dilettanti che la sera si ritrovano sul molo, come Maurizio, il quale
di giorno fa l’operatore ecologico a San Berillo, nel centro di Catania. «C’è
crisi. Almeno per cena mi faccio una bella zuppa cu sauru».

Quando è stato ritrovato in mare aperto, all’interno del
peschereccio c’erano ancora abiti, pacchetti di sigarette. Ora una scarpa
spaiata galleggia sullo scafo. E un giornale locale titola: «È affondato il
barcone dei clandestini»10.

Ad Aci Trezza non si costruiscono più pescherecci, anzi
una ventina di essi sono stati «rottamati» per ottemperare a una normativa Ue.
Lo storico cantiere dei Rodolico, famiglia di maestri d’ascia che fece della
marineria trezzota una delle più importanti della Sicilia e di tutto il
Mediterraneo, somiglia a un museo privato di tradizioni marinare, che al
tramonto diventa il ritrovo degli anziani del paese. Loro sono sempre lì: in
silenzio, l’uno accanto all’altro, a fissare l’orizzonte. Sono quelli che non
se ne sono mai andati, ligi al monito di verghiana memoria: «Per me io voglio
morire dove sono nato. Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e
guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono».

Il continente
liquido: confine di mescolamento tra Nord e Sud

Fino a tempi recenti, erano pochi i pescatori che
sapessero nuotare, come i migranti che oggi affrontano il mare senza averlo mai
visto, immaginandolo come il Niger, il Gambia, o come il fiume del loro
villaggio.

«Contadini del mare» vennero definiti i pescatori da De
Seta in un documentario del 1955. Le loro sortite infatti non erano che un
intervallo o un secondo lavoro rispetto a quello del contadino. «Perché il mare
è amaro e incute timore, il mare è fatica e insicurezza, il mare è guerra».

Come «la guerra del pesce»11
che i pescatori siciliani combattono da quarant’anni nel canale di Sicilia, in
cui, per una tragica ironia della sorte, i loro destini s’incrociano con quelli
dei migranti, e che dal 2011, anno dell’«emergenza Nord Africa», si è
aggravata: a sequestrare le unità da pesca italiane in acque inteazionali ora
sono anche le motovedette foite tempo fa a Gheddafi dal governo italiano per
contrastare l’immigrazione clandestina. Il maggiore ambito di azione nelle
acque inteazionali riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ha dato il
colpo di grazia a un settore come quello ittico già messo in ginocchio dalla
concorrenza spietata di paesi poco regolamentati (come il Giappone) e dalle
stringenti regole provenienti da Bruxelles, nonché all’intera marineria
siciliana, sui cui pescherecci sono imbarcati, da ormai quasi mezzo secolo,
anche numerosi lavoratori tunisini.

L’immigrazione tunisina in Sicilia però ha poco a che
vedere con il complessivo fenomeno della globalizzazione e va inquadrata
piuttosto nel contesto di una lunga storia tutta mediterranea. Bisogna
ricordare infatti che in passato i siciliani avevano formato una consistente
comunità nello stato maghrebino, prima e anche dopo che diventasse protettorato
francese nel 1881.

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo; ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri. Il mare non conosce
discontinuità né cesure e quel breve tratto di poche miglia è sempre stato
parte capitale del «continente liquido» descritto da Ferdinand Braudel, spazio
di comunicazione e di scambio, terra di mezzo12.
«Il mare – scrive Verga – non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo
stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole».

Uno su dieci si perde
sul fondo

Non assomigliano di certo alle «zite» le «carrette del
mare», rese «umane» solo dalle pene degli uomini che vi hanno viaggiato. Vita e
morte si stringono dentro questi scafi. Il costo di un viaggio in coperta, «al
sicuro», può costare fino a cinquemila dollari; «solo» duecento per i bambini.
Molto minore il prezzo della stiva, il luogo più pericoloso, riservato
solitamente ai subsahariani, dove in caso di incidente nessuno sopravvive.

«Di questi viaggi, uno su dieci si perde sul fondo»13.
Come quello dei genitori di A., profughi siriani rifugiati in Sudan, dove il
nonno paterno fa il manager per una importante compagnia aerea araba, ai quali
non bastava appartenere a una famiglia benestante ed essere scampati alla
guerra per sentirsi liberi. Il sogno di ottenere la cittadinanza europea, una
qualsiasi, aveva spinto la coppia – con un bambino non ancora adolescente e A.,
che aveva meno di due anni – a recarsi in Libia, e lì a salire su una barca
diretta in Italia.

C’erano anche loro tra le vittime del naufragio del 24
agosto 2014, costato la vita a 24 persone. Del suo nucleo familiare, A. è
l’unica sopravvissuta: ritrovata miracolosamente aggrappata a una tavola e
tratta in salvo da un connazionale. Affidata per quattro mesi alle cure di una
coppia di Augusta, è stata rintracciata dal nonno, anche grazie all’intervento
di Save the Children, e riportata in Sudan.

Anche Sarjo è scampato a un naufragio.
«Che si fa in quelle circostanze?», gli chiediamo.

«Preghiamo! In barca, in mare aperto, si prega cinque
volte al giorno».

Era partito nell’agosto 2013 dal Gambia; aveva percorso
a piedi il Senegal, il Mali, prima di entrare a Sebha, in Libia, e di lì
arrivare a Tripoli. Un libico ha pagato il prezzo della traversata come
compenso per il lavoro che aveva fatto per lui. Adesso, dopo più di un anno dal
suo arrivo a Catania, Sarjo ha in tasca un permesso di soggiorno per motivi
umanitari. Alla commissione che ha esaminato la sua richiesta, ha raccontato
una storia fantasiosa: «“Sono rimasto orfano e nella famiglia adottiva c’erano
due fratelli che mi picchiavano – ha mostrato una ferita sulla tibia dovuta a
una caduta nell’infanzia – e allora sono scappato”. Ho dovuto raccontare questa
storia perché un giorno voglio tornare in Gambia»14.
«Dove pensi di andare adesso?», gli chiediamo.

Svezia, Germania, Svizzera, sono le destinazioni più
ambite dai migranti per le migliori condizioni di welfare offerte da quei
paesi.

«Anywhere, but not in Italy», dovunque, ma non in
Italia, ci risponde lui.

 

Note alle pagine
34-41:

1  Si
tratta di uno dei racconti popolari più noti e antichi della Sicilia
(risalirebbe al XII sec.) giunto a noi in tante versioni differenti: secondo
quella ripresa da Italo Calvino in Fiabe italiane, Colapesce è nato a
Messina. In altre versioni è originario di Napoli, Catania, Bari, Genova, ma lo
ritroviamo anche in Francia, Spagna, Grecia e addirittura sull’altra sponda del
Mediterraneo.

2  È
Colapesce, costretto dalla fatica a cambiare la mano di sostegno, a provocare
di tanto in tanto le scosse telluriche.

Cfr.
Erri De Luca, In mezzo a questo mare nostro, in «Ventiquattro»,
21/03/2007.

4
Definizione elaborata da Saskia Sassen in Migranti, coloni,
rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa
, Feltrinelli,
Milano 1999. Secondo Asher Colombo (cfr. Fuori controllo? Miti e realtà
dell’immigrazione in Italia
, Il Mulino, Bologna 2012) la «fortezza Europa» è
un’immagine più che altro suggestiva, che sopravvaluta il grado di
impenetrabilità e chiusura del continente.

I
superstiti, quasi tutti eritrei, furono iscritti nel registro degli indagati e
accusati di reato di clandestinità. Nessuna inchiesta o indagine è stata aperta
invece in merito a eventuali errori o ritardi nei soccorsi.

6  «In
linea con analoghe attività pianificate a livello comunitario […], la
Presidenza italiana del Gruppo Frontiere/Comitato Misto ha programmato, dal 13
al 26 ottobre 2014, l’operazione “Mos Maiorum” […]. Scopo principale
dell’operazione sarà quello di raccogliere informazioni sui flussi migratori
nei paesi dell’Ue, con particolare riguardo alla pressione nei singoli stati
membri, alle principali rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani, le
principali mete di questi ultimi, i paesi di origine e transito, i luoghi di
rintraccio e i mezzi di trasporto utilizzati». Dal sito web della presidenza
italiana del consiglio dell’Unione europea,
http://italia2014.eu/it/news/post/ottobre/mos-maiorum/

7  Cfr.
www.camera.it/leg17/465?tema=immigrazione_clandestina.

8  Nel
2012, con il nome di «ravvedimento oneroso», si è dato avvio a un nuovo
provvedimento di emersione dei lavoratori non comunitari irregolarmente attivi
sul nostro territorio. Il dossier Unar 2013 sottolinea come lo stato italiano
abbia fatto ricorso ordinario a uno strumento «straordinario» per definizione.
La sanatoria prevedeva il versamento di 1.000 Euro più le somme dovute a titolo
retributivo, contributivo e fiscale, per un periodo non inferiore a 6 mesi.
Conseguenze: traffico di falsa documentazione e consolidamento della prassi per
la quale sono i migranti stessi a pagare gli oneri della regolarizzazione, e
non i datori di lavoro.

Nei
primi mesi del 2011, in piena «emergenza Nord Africa», per l’arrivo di 15.000
profughi soprattutto a seguito della rivoluzione dei gelsomini e dell’inizio
della guerra civile in Libia, esponenti del governo allora in carica parlarono
di «catastrofe», «tsunami umano», «esodo biblico».

10  Nel
2008, l’Ordine dei giornalisti, condividendo le preoccupazioni dell’Alto
Commissariato per i Rifugiati, ha firmato un Protocollo d’intesa denominato «Carta
di Roma», cioè un codice deontologico che obbliga a usare in modo opportuno i
termini «rifugiato», «richiedente asilo», «migrante forzato», «migrante» tout
court (chi lascia il proprio paese per ragioni economiche), «immigrato
irregolare». Nel linguaggio giornalistico dei paesi del Maghreb i migranti
illegali sono definiti harraga, letteralmente «quelli che bruciano» (le
frontiere, oppure i documenti per evitare il rimpatrio).

11  Una
guerra costata diversi morti tra i pescatori siciliani, feriti, 130 pescherecci
sequestrati dai militari dei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, 150
marittimi detenuti, anche a lungo, nelle carceri tunisine, libiche, egiziane e
algerine.

12  Cfr.
www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-e-dinamiche-linguistiche-una-ricerca-a-mazara-del-vallo.

13  Erri
de Luca, In mezzo a questo mare nostro.

14  Il
Gambia, nazione di poco più di un milione di abitanti, che gli opuscoli
turistici britannici descrivono come «The smiling coast of Africa», la costa
ridente dell’Africa, si rivela a sorpresa uno dei principali paesi di
provenienza dei minori non accompagnati: il 29% degli 11.000 segnalati in
Italia nel 2014.

Silvia Zaccaria

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