In margine al
convegno di Sacrofano
È calato il sipario
sul convegno di Sacrofano (20-23 Novembre 2014) e tutti siamo tornati a casa,
nelle rispettive Chiese locali con il desiderio di poter iniziare cammini ed
esperienze nuove. Probabilmente ci stiamo ancora chiedendo cosa fare, da dove
iniziare e con chi. Il convegno ha restituito alcuni punti di non ritorno per
vivere la Missione.
Vale la pena di sottolinearli, in un momento nel quale c’è
chi è tentato di rimetterli in discussione e noi stessi corriamo il rischio di
perderli di vista, non considerandoli importanti. In questa prospettiva
proviamo a fare alcune considerazioni e proporre alcuni orientamenti per tenere
vivo l’interesse su Sacrofano e incentivare la ricerca di strade nuove. Per
tenere vivo il «fuoco della missione» che il convegno ha contribuito a
riaccendere.
VANGELO ED
EVANGELIZZAZIONE
Il primo punto di non ritorno è «Vangelo e evangelizzazione», cioè la centralità del riferimento a Gesù, da una parte, e alla
responsabilità di tutti i battezzati, dall’altra. Questo richiede di coltivare
una famigliarità con la Parola di Dio tale da regalarci l’esperienza della
presenza misericordiosa del Maestro nella nostra vita e da stanarci dalle
nostre chiusure verso le periferie, chiamandoci alla sequela e alla ricerca.
Senza questa esperienza di amore non è possibile praticare una condivisione
cordiale e allo stesso tempo mantenere una resistenza evangelica, per cui
diventa anche troppo facile arrendersi alla logica mondana dell’affermazione,
del potere e del risentimento.
Solo così il Vangelo potrà alimentare un dinamismo di uscita
verso «il mondo» con uno sguardo di simpatia e di speranza. Da una parte
l’incarnazione del Figlio e, dall’altra, lo stile di Gesù ci regaleranno la
gratitudine e la fiducia necessarie per intraprendere il cammino al quale siamo
chiamati. È un andare (itineranza) che implica l’esperienza dell’ospitalità,
che prima di essere offerta sarà richiesta confidando sul buon cuore di chi
incontreremo. In ogni caso sarà un’itineranza che ci porterà all’incontro con i
poveri. Essi accoglieranno il Vangelo e a loro volta ci evangelizzeranno,
secondo quella regola dell’evangelizzazione per la quale chi dona il Vangelo lo
riceve di nuovo e in modo nuovo da coloro ai quali lo ha donato.
LA NATURA MISSIONARIA
DELLA CHIESA
Il secondo punto di non ritorno riguarda «la Chiesa e la sua natura
missionaria». «La missione non serve alla Chiesa,
piuttosto la Chiesa serve alla missione», scrive il teologo Gianni Colzani. La
Chiesa esiste, cioè, per la missione e la missione è per il bene dell’umanità.
Oltre a richiamare una rinnovata teologia del Regno di Dio, dove
tutti e tutte siamo impegnati nel servizio reciproco, la natura missionaria
della Chiesa pone la questione del «popolo di Dio» come soggetto
dell’evangelizzazione. Di «carismi e ministeri» non parliamo più da tempo. Del sensus fidei ricominciamo a parlare
adesso, con lo stupore di chi si chiede come abbiamo potuto dimenticare tanto a
lungo un «magistero» così importante (e che il Concilio ci aveva indicato).
Esso domanda con urgenza di imparare di nuovo a vedere l’opera dello Spirito di
Gesù nelle esistenze concrete della gente che incontriamo («segni dei tempi»),
dentro e fuori la Chiesa.
La Chiesa è oggi una minoranza (piccolo gregge o lievito nella
pasta) nel nostro mondo. Questo suscita reazioni diverse. Non sono pochi coloro
che si percepiscono sotto assedio e rimpiangono ancora i bei tempi passati.
Sembra che il lutto per la fine della «civiltà cattolica» non sia stato ancora
elaborato.
Da qui la metafora della «comunità sotto
assedio» e dei tre diversi comportamenti che in teoria si possono assumere quando
si è sotto assedio. Il primo è arrendersi, o venire a patti, trattare la
resa. Il secondo comportamento è resistere. Attrezzarsi per resistere
all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici della persona sotto assedio:
vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i nuovi contesti e le diverse
occasioni di interazione con essi, dogmatismo, ecc. Il terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio,
aprire le porte, abbattere le mura, correre il rischio di camminare su spazi
sconosciuti, avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide,
lasciare il centro per rischiare la vita nelle periferie. Questo perché le
periferie sono il luogo antropologico e teologico decisivo per capire il
Vangelo, cioè chi è Dio e chi siamo noi, anche come Chiesa.
Un altro luogo antropologico e teologico significativo è quello
della fragilità. Le periferie ne sono spesso segnate. Anzi, alcune sono tali
proprio perché la esprimono al massimo (povertà materiali e culturali, peccati,
devianze, ecc.) e questo spiega anche il perché non ci si vada volentieri. Le
periferie che Gesù ha visitato e addirittura abitato erano rese o quantomeno
mantenute tali da un «centro» che si riteneva (anche con qualche ragione) a
posto, puro, perfetto.
La condizione per vivere un reale atteggiamento di uscita verso le
periferie che diventi condivisione è
allora quella di farle diventare in qualche modo nostre. Anzi, di riconoscerle
già presenti nella nostra esperienza. Senza assunzione seria delle nostre
miserie non ci può essere da parte nostra alcuna autentica misericordia.
Se partiamo dal fatto che tutti siamo fragili, allora assumeremo
le nostre difficoltà e limiti non (solo) come ostacoli da superare, ma (anche)
come risorse per presentarci agli altri quali compagni di viaggio nel
ricercare, desiderare, costruire, sperare, amare… insieme!
Prospettive per la
nostra pastorale missionaria
Offro qualche indicazione, poco più di un elenco perché non ci
sono ricette o scorciatornie possibili. Ogni comunità dovrà fare la giorniosa
fatica del proprio concreto discernimento.
A) Centro e
periferie
Gesù fu un uomo delle periferie. «Ebreo marginale» lo chiama un
grande studioso della sua vicenda, John P. Meyer. Si mosse lontano da
Gerusalemme, passava per città e villaggi della Galilea, periferia dell’impero
romano, incontrava pagani, peccatori, malati, donne disprezzate e peccatrici,
povera gente. Proclamava beati i poveri. Affermava che prostitute e pubblicani
avrebbero preceduto tutti nel regno di Dio. Dalle periferie annunciò che il
Regno di Dio era in mezzo a noi e che iniziava a realizzarsi con lui. Al
banchetto del Regno Dio avrebbe riempito la sala con «poveri, storpi, ciechi,
zoppi» (Lc 14,21), «buoni e cattivi» (Mt 22,10), dopo il rifiuto dei primi
invitati. Morì maledetto come un malfattore con la morte peggiore per il suo
tempo, circondato da un piccolo gruppo di seguaci impauriti.
Ricollochiamo Gesù di Nazareth al centro della nostra vita
personale e comunitaria: tutto Gesù, quello pasquale e glorioso naturalmente,
ma anche quello cosiddetto pre-pasquale, messianico, liberatore. Messo Gesù al
centro, scopriremo subito che egli cederà volentieri il posto a coloro che
stanno ai margini: li metterà nel mezzo, farà loro spazio, concederà loro il
primo piano sulla scena, intercederà per loro!
Allora guardiamole queste periferie, cerchiamo di conoscerle e di
vedere in esse se e come lo Spirito sta agendo. Il «se» è certo; il come è da
disceere.
B) Sensus
fidei/fidelium
Quello che a livello istituzionale si fa
fatica a smuovere, bisogna tentare di cambiarlo con coraggio e serena
intraprendenza a livello di «popolo di Dio». Non perché non si ami
l’istituzione, ma proprio perché non possiamo abbandonarla a se stessa e alla
sua autoreferenzialità. La vogliamo diversa, più al servizio nostro e della
nostra missione. Ma dobbiamo essere in grado di dirle che cosa ci serve per
un’evangelizzazione maggiormente efficace, in un atteggiamento di dialogo e
ascolto.
Allora se ad alcuni non è dato il giusto
riconoscimento, riconosciamoli noi, in nome di un servizio, di frutti e di «profezie»
che abbiamo sperimentato e che possiamo raccontare. Li possiamo abilitare
prestando loro ascolto e facendo spazio a ciò che hanno da dire o da mostrare.
C) Sinodalità
(camminare insieme)
Abbiamo bisogno tutti, sempre, gli uni degli altri. Nessuno può
farcela da solo. Ma dobbiamo crescere nella capacità di vivere una vera alterità
che è fatta di differenze che collaborano e condividono lo stesso sogno. Nella
comunità di Gesù l’essere altro non sarà mai tolto, e anzi i doni dello Spirito
lo accentueranno. Questo richiede non solo una grande capacità di dialogo e
ascolto ma anche di intesa e mediazione. Non è per niente facile. Tuttavia non
si può evitare la fatica di intendersi, di cercare insieme, di collaborare
nella diversità di doni e carismi, pena la perdita della propria libertà e lo
svilimento del Vangelo. Anche qui dobbiamo elaborare atteggiamenti e buone
pratiche in modo tale da istruire le questioni sempre e solo con il consiglio
di molti. Arriveremo un giorno non solo a sopportare (quando va bene) i
consigli pastorali, ma addirittura a desiderarli? Non è la missio ad gentes
a dirci che «perdere» tempo a elaborare insieme le cose è stata la migliore
garanzia di risultati duraturi e degni del Vangelo?
D) Oltre il
rancore e il risentimento
Giona, il missionario tipo del convegno, non era affatto
desideroso di andare verso Ninive. Viviamo in un tempo in cui il rischio più
forte è lasciarsi prendere da quello che Zygmunt Bauman chiama il demone della
paura: ci sentiamo incerti, fragili, insicuri, incapaci di controllare la realtà,
pronti a trattare gli altri come nemici. La paura come nemica della speranza.
La paura che ci spinge a fare come Giona che «si mise in cammino per fuggire a
Tarsis, lontano dal Signore». Siamo attratti anche noi, spesso, dalle sirene di
Tarsis. Incapaci non tanto di uscire ma di farlo dalla parte giusta, nella
direzione di Ninive.
All’improvviso, però, Dio sconvolse il suo ordine irrompendo
nella sua vita come un torrente in piena, privandolo di ogni sicurezza e
comodità: lo (ri)inviò a Ninive, «la grande città», simbolo di tutti i reietti
ed emarginati, luogo di tutti i mali, per proclamare la sua Parola, per
ricordare a tutti gli uomini smarriti che le braccia di Dio erano aperte e che
Lui avrebbe offerto loro il suo perdono e la sua tenerezza.
La chiamata rivolta a Giona, risuona incessante anche per noi e
ripete l’invito a vivere l’avventura di Ninive, ad assumerci il rischio di
essere i protagonisti di una nuova missione, frutto dell’incontro con Dio.
Questo incontro è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a
metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità
più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e
conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande
sul senso della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovarlo, anche noi
comprenderemo, in modo rinnovato, il senso dell’azione e la gioia della
vocazione educativa, la ragione delle nostre preghiere e il valore della nostra
dedizione.
La soluzione peggiore consiste nel trincerarci nel nostro piccolo
mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è
permesso di trasformarci in «scettici» a priori. Dobbiamo invece lanciare
messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e
costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non
succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non
solo «si possono» cambiare, ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è
una «imprescindibile necessità» (Cfr. Jorge Mario Bergoglio, Messaggio alle
comunità educative, Buenos Aires 2007).
E) Uscire per
cambiare mentalità
Ormai abbiamo capito, dopo 50 anni di mancata applicazione del
Concilio, che il problema è la mentalità da cambiare (metànoia) e che
non basta un cambio di struttura (anche se a un certo punto è indispensabile).
Per questo occorre partire dalla missione. A mio avviso il
problema è quello di potere e sapere leggere la missione che lo Spirito sta già
suscitando adesso, con i suoi profeti e i suoi protagonisti, le sue pratiche,
le sue frontiere e periferie, i suoi incontri. Questo è un punto che dobbiamo
assolutamente credere! E su questa base vogliamo motivare una maggiore, più
decisa e meglio illuminata estroversione e animazione missionaria. Il nostro
problema principale è uscire, e la promessa che ne sostiene il dinamismo è che
così facendo ritroveremo la gioia del Vangelo e di conseguenza potremo anche
individuare passi di riforma della Chiesa. In poche parole: (re)imparare la
missione da ciò che accade, da coloro ai quali siamo inviati, dal lavoro dello
Spirito nel mondo.
L’accento mio è che solo guardando fuori e dicendosi (lasciandosi
dire) cosa si vede e si sperimenta, si capisce cosa fare di diverso e meglio
della nostra animazione. Per non correre il rischio di parlarci addosso. Per
una volta dimentichiamoci un po’ di noi e chiediamoci che cosa ci dona la città
(Ninive, la periferia) e di che cosa ha bisogno. Saremo allora capaci di vedere
tracce e odorare profumi di Vangelo intorno a noi e anche lontano da noi, ma
certo fuori di noi. Poi vedremo cosa possiamo fare e cosa cambiare. Se siamo
autoreferenziali, non si esce davvero. Se invece ci confrontiamo con qualcosa
di veramente altro, allora forse cominciamo a cambiare.
F)
Evangelizzati dai poveri
«I poveri sono i compagni di viaggio di una Chiesa in uscita,
perché sono i primi che essa incontra. I poveri sono anche i vostri
evangelizzatori, perché vi indicano quelle periferie dove il Vangelo deve
essere ancora proclamato e vissuto» (dal messaggio di Papa Francesco ai
partecipanti al convegno, 22/11/14).
Per stare al convegno e alle sue relazioni: Ninive e Dio
convertono Giona; i poveri e lo Spirito istruiscono Gesù; la missione e i suoi
profeti riorientano la nostra azione; la città e le sue risorse interpellano la
nostra animazione; il perdono ricevuto e la benevolenza divina ci aiutano a
trovare il volto amabile del mondo. Da qui possiamo eventualmente ripensare la
nostra responsabilità per la missione ed evangelizzazione.
Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che il nostro
mondo ecclesiale e missionario con i suoi schemi sta finendo. O forse è già
finito. È vero: alcune nostre proposte non passano o non sono mai passate, e
forse sarebbe opportuno rifarle; ma forse hanno fallito anche perché sono
esattamente sulla lunghezza d’onda (tipo l’ossessione per l’identità, la
collocazione, il ruolo, lo specifico…) di quelle realtà che ci tengono ai
margini. Occorre rischiare strade nuove. All’inizio sarà inevitabile sbagliare
e anche trovarsi un po’ confusi, ma quale sorpresa poi cominciare a intravedere
ciò che davvero appare nuovo. Credo che il convegno abbia tentato di mettere le
premesse per fare spazio e incoraggiato la creatività nel cercare e inventare
strade nuove nella missione.
G) Ninive è
la novità di Dio
Il convegno ha suscitato in noi almeno l’interesse per Ninive.
Lasciando allora che la città ci cambi con le sue domande e inquietudini,
disagi e ferite. Se posso essere anche più esplicito: dobbiamo decentrarci
perché ci deve stare a cuore Ninive (anche se non ne vogliamo proprio sapere)!
Perché i cambiamenti delle nostre comunità, dei gruppi, associazioni e istituti,
avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo in Ninive e
sul territorio e che cosa o chi infiamma il nostro cuore di nuova comprensione
dell’evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Perché se di segni non
ne vediamo e di fiamme in cuore non ne abbiamo, avremmo davvero un grande
problema. A quel punto neppure la migliore delle riforme strutturali ci
servirebbe granché.
Perché Dio ci sta parlando nella «novità» di Ninive. E la novità ci
fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto
controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita
secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti.
E questo avviene anche con Dio. Forse non come Giona, ma spesso anche
noi Dio lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino a un certo punto; ci è difficile
abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo
l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte. Abbiamo paura che Dio
ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso
limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la
storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre
novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui.
Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare
la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle «sorprese di Dio»? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? (Cfr. Papa Francesco, piazza San Pietro
domenica 19 maggio 2013).
H) Tra
continuità e discontinuità
Il cambiamento avverrà in modo graduale. L’importante è che non
diventi un semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente, ma che
sia caratterizzata dall’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che
determinano un sostanziale mutamento qualitativo.
Si tratta di imparare a contemplare l’oltre verso cui la
missione ad gentes deve protendersi. Il punto al quale noi siamo giunti,
nelle realtà e nei contesti in cui operiamo in Italia e nel mondo, non può
essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse
cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a
livello geografico che contenutistico.
Hannah Arendt ha scritto in Vita activa: «Il fatto che
l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso,
che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è
possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo
qualcosa di nuovo nella sua unicità».
Sì, perché abbiamo ancora bisogno di utopia, abbiamo bisogno di
speranza e di fede, abbiamo bisogno di vivere amando anche ciò che non potremo
vedere realizzato. Questo amore è una potenza feconda e generante: è una forza
profetica che crea futuro, dà speranza, apre orizzonti di senso, dà forza per
vivere nella storia e nel mondo attendendo il regno di Dio, che è il fine della
storia e il futuro del mondo.
Concludo con l’accorato appello fatto da Papa Francesco ai
partecipanti al convegno: «Vi esorto a non lasciarvi rubare la speranza e il
sogno di cambiare il mondo con il Vangelo, con il lievito del Vangelo,
cominciando dalle periferie umane ed esistenziali. Uscire significa superare la
tentazione di parlarci tra noi dimenticando i tanti che aspettano da noi una
parola di misericordia, di consolazione, di speranza. Il Vangelo di Gesù si
realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo della periferia, di quella
Galilea lontana dai centri di potere dell’Impero romano e da Gerusalemme.
Incontrò poveri, malati, indemoniati, peccatori, prostitute, radunando attorno
a sé un piccolo numero di discepoli e alcune donne che lo ascoltavano e lo
servivano. Eppure la sua parola è stata l’inizio di una svolta nella storia,
l’inizio di una rivoluzione spirituale e umana, la buona notizia di un Signore
morto e risorto per noi. E noi vogliamo condividere questo tesoro».
L’articolo è debitore in vari modi e forme alla relazione di
Aluisi Tosolini tenuta al Convegno e ad alcuni contributi e riflessioni di Luca
Moscatelli fatte in occasioni diverse.
di Gustavo Gutiérrez Evangelizzazione
Comincio commentando tre frasi. La prima di Paolo VI che
nella Evangelii Nuntiandi ha detto che «la Chiesa esiste per
evangelizzare». Questa è la ragione d’essere della Chiesa, evangelizzare, e
(non si può dire che) la Chiesa esiste prima e evangelizza dopo. Esistenza e
impegno per l’evangelizzazione sono una sola cosa. Se la Chiesa non evangelizza
non esiste, non è Chiesa, è un gruppo di persone.
La seconda frase viene da papa
Francesco: evangelizzare è fare presente il regno di Dio nel mondo.
Semplicemente questo. È fare presente il regno che è il centro della
predicazione di Gesù. Gesù è venuto per questo, per dire (che) il regno è qui,
ma non pienamente. Questa definizione di evangelizzazione è molto ricca.
La terza è sempre di Francesco: la
motivazione dell’evangelizzazione è l’amore di Dio che noi abbiamo ricevuto.
È una espressione dell’amore di Dio. Questa è la radice. Senza amore non c’è
evangelizzazione. Dobbiamo amare come Gesù ha amato. Nei Sinottici dice: noi
dobbiamo dare gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente. Qui
l’accento è sulla gratuità dell’amore di Dio. Credo che qui abbiamo una
questione molto centrale in tutta la Bibbia, primo e secondo testamento:
l’amore di Dio è gratuito. Certamente quando dico gratuito non dico arbitrario.
Abbiamo visto questo parlando del
libro di Giona. Una perla. Quello che Giona non ha capito è la gratuità
dell’amore di Dio. Non ha saputo capire il senso dell’amore di Dio che ama
tutte le persone.
Nel Concilio abbiamo un documento, l’Ad gentes,
che ha ricuperato il senso globale della evangelizzazione. All’inizio del
documento dice che l’evangelizzazione della Chiesa è un prolungamento delle due
missioni, quella del Figlio e dello Spirito Santo. Questo è molto ricco, perché
lega la missione della chiesa alla missione della Trinità. Quella della chiesa è
una missione che viene da lontano. Questo testo risente della mano del padre
Yves Congar. È un punto teologico molto importante. La missione deve creare la
comunione con la Trinità, una comunione con il dio della nostra fede, una
comunione fra gli esseri umani e tra noi. È il senso di una parola importante
nella Bibbia: koinonia. Ha tre sensi. Koinonia fra le persone
divine. Koinonia sull’essere umano con Dio, La koinonia tra le
persone umane. La colletta per aiutare i poveri è chiamata koinonia.
[…]
Giona è un credente ma
rifiuta di agire secondo la fede nell’amore gratuito di Dio, non ha capito che
Dio è un Dio di tutti. Questo è anche oggi, c’è chi rifiuta (questa verità).
Quando si dice il Dio del perdono. Per-dono: dono è regalo, per è
superlativo, (quindi) è un gran regalo. (Noi) dobbiamo comprendere che non c’è
un regalo senza una esigenza. Le beatitudini sono molto chiare in questo. Amare
come Gesù ci ha amato. Gesù ringrazia parecchie volte e allo stesso tempo è
molto presente al suo momento storico.
Accettare il dono di essere figli
di Dio non significa una chiamata a (diventare) suore, a fare amici, perché il
dono (è) … In tedesco c’è una espressione. Grazia si dice gaben,
obbligazione si dice ausgaben. (Così) dicono che la vita cristiana è tra
la gaben e la ausgaben, fra la grazia e l’esigenza. Mons. Romero
ha mostrato questo.
Le due grandi dimensioni della vita
cristiana sono la preghiera e l’azione per cambiare quello che non è degno
della persona umana. Cercare di capire che qui non c’è una opposizione (tra le
due) è molto importante per il credente nel Dio incarnato. Grazie.
Dalla registrazione della conferenza
di Gustavo Gutiérrez
a Sacrofano. Nostra trascrizione, non rivista dall’autore.
Antonio Rovelli