Diario di un giovane
da Isiro
Un giovane di 22 anni
decide di fare un’esperienza di missione in Congo RD, a Isiro, con i missionari
della Consolata. Parte a settembre 2014, con la prospettiva di tornare in
Italia nel giugno 2015. Ciò che scopre è un mondo diverso, ma soprattutto se
stesso.
vede, senza l’idea di descrivere il Congo, ma semplicemente la sua esperienza.
Una piccola testimonianza fresca, divertente e riflessiva. Gli abbiamo chiesto
di potee pubblicare degli stralci. Eccoli. 16 settembre 2014
Ore
4.45 am, partenza. Sto per intraprendere un viaggio che non immagino
minimamente! Come prima cosa, leggo sul biglietto aereo una clausola che dice: «La
compagnia si riserva di rispondere a eventuali danni, ferite o morte» (Ah,
partiamo bene!).
Quando
arrivo a Isiro in un aeroporto senza finestre, una struttura fatiscente in
mezzo alla foresta, e vedo le strade di terra rossa e il verde infinito, penso:
«Questa sì che è la vera Africa!». Dopo un’accoglienza calorosissima di padre
Flavio (Pante), padre Rinaldo (Do) e Ivo (Lazzaroni – volontario laico), ci
avviamo alla missione: sono in un posto meraviglioso. L’aria che si respira è
carica di voglia di mettersi in gioco.
Oggi
prima mattinata passata a Gajen (il Gruppo d’appoggio a giovani e bambini
bisognosi), una realtà fatta di centro nutrizionale, scuola matea della
diocesi e il mitico foo! Senza dimenticarsi dello zoo di fratel Domenico
(Bugatti).
Il
centro nutrizionale accoglie i bambini malnutriti (portati generalmente dai
loro fratellini e sorelline) e le loro mamme (che arrivano in seguito), tra le
7 e le 8. Vengono dati un pasto alla mattina e uno per pranzo (inoltre vengono
fatte visite e somministrate medicine varie).
La
scuola matea è piena di bambini che mi chiamano già père Tommaso (qua
funziona così: bianco = missionario). Sono troppo belli quando ripetono in coro
ciò che imparano in francese, o quando mi studiano toccandomi le braccia e i
capelli, come fossi un alieno.
Arriviamo
al foo: è uno spettacolo! Vengono fatti pane e biscotti poi venduti per
strada. Stamattina mi hanno fatto fare l’impasto per i biscotti. Mi sono
divertito un sacco. Io ho sfoderato la mia «esperienza» da pasticcere e mi
hanno fatto i complimenti. Infine lo zoo di fratel Domenico: gattini,
cagnolini, polli, anatre, conigli e, colpo di scena, una scimmia. Credo che
diventeremo presto amici: oggi le lanciavo oggetti che lei prendeva al volo. Fa
troppo ridere!
Al
pomeriggio sono andato con il mitico padre Tarcisio (Crestani) a giocare a
pallavolo. Non l’avessi mai fatto: siamo arrivati in questo campo della
Consolata, dove tutti i pomeriggi si trovano dei giovani a giocare, e abbiamo
fatto una partita tiratissima, a dei ritmi da matti. Modestamente si sono
complimentati con me, ma ora sono a pezzi. Mi hanno chiesto di tornare anche
domani. Se non imparo in fretta a dire no, non sopravvivo più di un mese.
La
cosa che mi ha colpito di più oggi sono stati i bambini malnutriti. Dovete
sapere che la denutrizione si manifesta con un’eccessiva magrezza, oppure con
pance e piedi gonfi e capelli sbiaditi. Ma ciò che mi fa più impressione sono
quegli occhi grandi, spenti e profondamente vuoti. Questi bambini, che
sarebbero per eccellenza l’esuberanza e la vitalità, appaiono come prosciugati,
e si trascinano in giro come se anche la vita pesasse su di loro. Quello
sguardo che non reagisce a sorrisi, peacchie, scherzi e smorfie, è difficile
da mandare giù. Credo che mi dovrò «abituare», ma non credo che l’abitudine
toglierà il senso di angoscia e impotenza, e quella domanda: come può succedere
questo mentre c’è tanta ricchezza e spreco nel nostro mondo?
Il
mio servizio di questi mesi lo svolgerò la mattina al centro nutrizionale di
Gajen. Per la comunità invece curerò l’orto. Poi, per lo «svago», farò parte
della squadra di pallavolo. Mi ripeto che devo cercare di vivere giorno per
giorno, perché altrimenti vengo inghiottito dal tempo stesso.
Al
centro stamattina mi sono dovuto ancora confrontare (a volte con il groppo in
gola) con i bambini denutriti. Spesso dietro la malnutrizione si cela un
discorso molto più ampio di problemi a livello familiare, come quello delle
ragazze madri che non sanno gestire i figli, o devono ancora andare a scuola, o
quello dei figli nati da violenze.
C’è
un bambino, tra i più gravi, che lotta tra la vita e la morte, ricoperto di
piaghe. Anche se mangia, queste non guariscono. La madre ha una faccia talmente
rassegnata che potrebbe prendere da un momento all’altro e andarsene.
Oggi
sono andato anche in carcere. Bè, non che mi abbiano arrestato… per adesso.
Ogni due settimane viene portato un pasto, un pezzo di sapone e la celebrazione
della messa. La prigione è un capannone che non ha finestre, ma solo qualche
feritornia per la luce. Dentro questo unico spazio ci sono circa cinquanta
persone con una quindicina di letti in legno, stretti come delle cuccette, e
sparpagliati per la stanza che è anche sala da pranzo, gabinetto e quant’altro.
In questi giorni ho letto il «Diario» di Etty Hillesum, ebrea deportata nei
campi di concentramento, bè, quando sono entrato nella prigione mi è sembrato
di essere finito in un lager. Dopo la messa abbiamo distribuito il pasto. Non
nascondo di essermi messo vicino alla porta, pronto a scappare in caso di
necessità!
Mentre
sono perso nei miei pensieri sulla lontananza da casa, arrivo al centro e vengo
investito da un dolore a cui non sono preparato: sono grida di disperazione.
Vedo la mamma del bimbo con le piaghe inginocchiata fuori dalla cameretta.
Grida diverse parole. Ne riconosco una: Nzambe (Dio).
Non
ero pronto alla vita di questo posto, figuriamoci alla morte.
È
impossibile trattenere la commozione: vedo il padre sul letto del figlio, in
lacrime, mentre la madre raccoglie le poche cose che ha con sé (qualche
scodella, tazza e lenzuolino). La preghiera insieme davanti al corpicino del
bimbo. Vedo il padre che gli socchiude le palpebre e gli mette sul viso un
piccolo panno bianco, e poi esce dal cancello con il corpo del figlio avvolto
in un panno e fissato al petto. Per tornare a casa, con quel figlio come in
grembo, devono fare 25 Km a piedi. Non immagino la lunga agonia del viaggio di
ritorno.
Ho
potuto «solo» pregare, non sapevo fare altro.
Questa
è stata una mattina di pioggia a Gajen, pioggia dal cielo e dagli occhi. Eppure
in questo strano equilibrio in cui vita e morte danzano follemente, un’ora
dopo, tutto era tornato normale: di nuovo al lavoro per preparare il cibo ad
altri bambini.
Mi
sono confrontato con un mistero troppo grande e non so se mai lo comprenderò.
Sono
passati appena pochi giorni eppure è come se fossi qua già da mesi, come è
possibile? Qui la giornata sembra più lunga e piena forse perché si gusta
tutta, ora per ora, minuto per minuto: dalle cose semplici a quelle
straordinarie. Anzi, se si fa attenzione, sono le cose semplici a diventare
straordinarie. Qui le persone non hanno grandi programmi e si gustano la
giornata senza essere proiettati all’impegno della sera o del week end, senza
perdersi il presente.
Ieri
abbiamo disputato il primo match di pallavolo contro un’altra squadra. È stata
una partita combattuta. Io mi son guadagnato il soprannome di «Boucanier»,
perché faccio le schiacciate. Del resto i miei compagni si chiamano Mosè,
Messia, Geremia, Isacco, Elia, Miracolato (perché quando è nato non si sapeva
se ce l’avrebbe fatta), e Aristotele: non potrei essere in mani migliori.
Anche
questa domenica la messa in lingala, celebrata in un corridoio dell’ospedale, è
stata accompagnata da grida e lamenti di una trentina di persone a causa della
morte di qualcuno, così la morte quatta quatta mi si ripresenta come a dire: «Faccio
parte della vita, non puoi ignorarmi».
La
coppia fatta da fratel Domenico e padre Tarcisio fa morire dal ridere. Il
primo, per leggere lodi o vespri, usa la lente d’ingrandimento e si addormenta
ovunque; il secondo, per die una, si fa tostare il pane bello duro e poi lo
ammolla nell’acqua. Dopo pranzo, ma soprattutto la sera, mi metto a guardare la
«televisione» con padre Tarcisio: ci sediamo dietro al cancello e guardiamo
fuori, l’unico programma disponibile è la vita. Quante cose si vedono! Una
marea di gente che passa e saluta. Se ne vedono di tutti i colori (bè, in realtà
sono tutti neri, ma avete capito). Anche tante persone che vengono a chiedere
aiuto, e stanno lì fino a sera per avere 100 franchi (10 centesimi di Euro). Vi
racconto un aneddoto: avevo buttato uno spazzolino molto vecchio. Mentre siamo
sulla porta, arriva uno di quelli che lavorano in casa. Sta andando via e in
mano ha un sacchetto di pane in cui spicca qualcosa di blu… il mio spazzolino!
Cioè, capite che questa povertà non si può ignorare? Quante cose abbiamo noi e
ci lamentiamo? È vero, saremo in un momento di crisi, ma qui ci farebbero la
firma per essere nella nostra «crisi».
Sorella
morte ormai è di casa: è morta la sorella di una delle cuoche, inoltre un cuoco
(in servizio da 24 anni) si è ammalato gravemente. D’altra parte la vita, dal
canto suo, si fa sentire a gran voce con la sua più bella melodia: l’amore. Al
centro è arrivata una mamma sordomuta con il suo bimbo, è veramente commovente
guardare come se ne prende cura. Anche se non è riuscita (per ignoranza o
mancanza di beni) a dargli cibo correttamente, di sicuro l’ha fatto sempre
sentire amato. È un bimbo di dieci mesi bellissimo, sorride a tutti e mi saluta
sempre con la manina. Il caso di una mamma così è raro purtroppo: ci sono
troppi bambini nati da mamme troppo giovani, e magari abbandonate dal loro
uomo, che non sanno prendersene cura. La mancanza di amore provoca ferite
visibili quanto la malnutrizione.
In
questo vortice di vite intrecciate mi sono chiesto cosa potessi fare io. La
risposta l’ho trovata in un libro letto per «caso» (il caso è lo pseudonimo che
Dio usa quando non si firma personalmente): «Ama più ancora, e altri intorno a
te ameranno. Chi ama, fa amare». E allora mi son messo ad animare i bambini
malati, e soprattutto le loro sorelle più grandi con bans e giochi (dato che
non ci capiamo, vi lascio immaginare le risate) e, perché no, ho animato anche
le mamme che si fanno delle grandi risate. Non vi nascondo l’emozione nel
vedere alcuni bimbi che, pian piano, mi conoscono e mi cercano invece di
evitarmi o piangere. Forse almeno in un posto, sono riuscito a cambiare
l’immagine che la gente ha del bianco = soldi da chiedere.
Al
centro è arrivato un altro bimbo con grave malnutrizione. Sembra che le
medicine facciano effetto. Detto questo, non posso però ignorare le sue grida
di dolore, che mi risuonano nelle orecchie durante la giornata.
Malembe
malembe (piano piano) imparo qualche cosa di lingala.
6 Ottobre
Stamattina
al centro abbiamo fatto gli auguri a un lavoratore che è diventato papà: lui ha
19 anni e la mamma 16! Quando mi hanno chiesto la mia età, è scattata la
domanda: quanti figli hai? Mi son scusato dicendo che ero un po’ indietro.
Sono
arrivati cinque nuovi bambini. Eritié (con grave malnutrizione) continua a
strillare, ma tra me e me penso che almeno è ancora vivo e anzi sta
migliorando, inoltre è tanto bello vedere tutta la famiglia (mamma, papà e
fratellino) che sta insieme a lui e non lo lascia mai solo.
Tra
tutti i bimbetti ce n’è uno particolarmente «aggressivo» che mi ha preso di
mira e mi insegue di continuo «picchiandomi». Si chiama Radis. Ho scoperto che
si comporta così perché non viene considerato, e allora, da quando ho iniziato
a stuzzicarlo, è diventato la mia ombra.
La
vita scorre tranquilla a Isiro, anche se la stagione delle piogge ogni tanto,
con la sua simpatia, smuove le cose. Ieri mattina c’era un gran caldo, poi nel
pomeriggio sono arrivati i nuvoloni neri e si è scatenata la fine del mondo,
acqua a secchiate e vento. Oggi al centro le mamme non arrivavano in orario e
ho chiesto come mai, mi hanno risposto che dipendeva da come si era ridotta la
loro casa, essendo fatte per lo più di terra e quattro pali, non è raro che
vengano distrutte dall’acqua.
Al
centro tutte le mattine un matto che sta alla porta mi accoglie come se fossi
il presidente, cantando e salutandomi in un misto di francese, inglese e
lingala. Il fatto è che continua per tutta la mattina, e mi urla addirittura «I
love you», facendo il saluto dei militari. E come dimenticarsi della grande coco
(significa nonna) che viene due volte alla settimana: è malata e sola, quindi
le diamo una mano. Passiamo i nostri venti minuti a parlare (lei in lingala e
io in italiano), mentre le dò una tazza di fagioli, una di riso, una di
zucchero, tre banane e mille franchi (un euro). Poi ci salutiamo e siamo
contenti così.
Oggi
ho provato la canna da zucchero! Praticamente si staccano dei morsi e si
succhia. Poi si sputa. Se non fosse che bisogna avere mascelle da cavallo per
mangiarla, è davvero buona!
Stamattina
è stato fatto il peso settimanale dei bambini. Quando ho visto una ragazza che
pesava 20 kg, le ho chiesto quanti anni avesse, e lei mi ha risposto 13.
Radis
continua a importunarmi.
Domattina
parto! Andrò a Bayenga, nella foresta equatoriale, per l’ordinazione di un
sacerdote. Ho preparato il mio zaino: oltre a vestiti e solite cose, dietro
consiglio dei più saggi, ho preso un rotolo di carta igienica, sapone e imodium
(consigli incoraggianti insomma).
Bayenga:
che avventura! Partiti venerdì alle 8, siamo arrivati alle 17. Per il ritorno
invece siamo partiti lunedì (ieri) alle 8 e siamo arrivati a mezzogiorno di
oggi.
Con
il senno di poi il viaggio di andata è stato buono, anche se mi rifiuto di
chiamare strade quelle che abbiamo attraversato: un campo arato in confronto è
il paradiso.
La
missione è bellissima, immersa nella foresta, uno spettacolo per gli occhi. Qui
viene in particolare seguito un programma con i Pigmei per sostenere la loro
cultura. Sì, anche qui c’è del razzismo: i Pigmei sono considerati inferiori e
sfruttati dalla altre tribù locali. Nel breve tempo a disposizione, ho visitato
un loro accampamento nella foresta. Piante curative, sistemi di caccia,
pitture, danze: qualcosa di così «antico» e puro non avrò la fortuna di
rivederlo. Ho già chiesto di tornare.
Mentre
tutti sono indaffarati nei preparativi della festa, io mi metto a giocare con i
bambini: io faccio la verticale e loro mi insegnano dei passi di danza.
Il
giorno della festa c’erano veramente tante persone! La messa è durata dalle 9
alle 13, ma con i canti della corale e i balletti dei bambini, non si è sentita
la lunghezza. Dopo c’è stato il pranzo, e a seguire, per tutto il pomeriggio, i
balli di gruppo e quelli dei pigmei. È stato un giorno pieno di sguardi, volti,
sorrisi, comunicazione, emozioni.
Arriviamo
così al viaggio di ritorno, su cui potrebbe essere girato un film. Siamo
partiti alle 8, e dopo 15 minuti ci siamo fermati per un camion impantanato,
rimanendo ad aspettare fino alle 14. A quel punto, data l’assenza di progressi,
abbiamo pagato dei ragazzi che stavano lì seduti a guardare (e che non
aspettavano altro). Hanno letteralmente costruito la strada. Prima hanno tolto
l’acqua a secchiate, poi hanno spalato il fango, sono andati con il macete a
tagliare dei tronchi in foresta per metterli a terra, e infine ci hanno buttato
sopra della terra asciutta e dura. Alle 18 siamo riusciti a partire. Un ragazzo
che era lì ad aspettare come noi mi ha detto: «Questa è la sofferenza del
Congo. I congolesi sono abituati a soffrire».
Dunque
il viaggio riprende mentre cala la notte. Ci ritroviamo in un buio pesante, in
un rettilineo nel mezzo della foresta. Incontriamo l’ennesima buca e ci
blocchiamo. Scendiamo dalla macchina che ora è in obliquo. Dalle 19 a
mezzanotte si susseguono spalate e tentativi dell’autista di uscire dal fango.
A condire il meraviglioso buio ci sono i suoni della foresta che di notte non
sono troppo incoraggianti. Decidiamo di dormire. Naturalmente incomincia a
piovere e quindi ci rifugiamo tutti dentro l’auto. Ero pronto a dormire in
macchina, ma non in una macchina mezza rovesciata nel fango! Il mio posto è
dietro al conducente nel lato opposto a quello affondato, quindi per non cadere
addosso agli altri sto tutto il tempo attaccato al finestrino mezzo aperto con
un braccio di fuori. In più tra noi c’è un autentico russatore. Verso le 5,30
inizia ad albeggiare. Alle prime luci dell’alba vedo dall’altra parte della
strada alcune capanne. Dunque io mi chiedo: ma nelle 5 ore in cui abbiamo fatto
una confusione tremenda tra grida, frizione dell’auto a manetta, vangate, ecc.,
nessuno poteva alzarsi e venire a vedere cosa succedeva? Mah!
In
ogni caso, la gente spunta fuori e arriva come se già sapesse di doverci
aiutare (dietro ricompensa ovviamente). Questa volta riusciamo a liberarci
verso le 7, e ripartiamo. Dopo dieci minuti l’auto si spegne, ma ripartiamo
dopo mezz’ora. Poco più avanti si spegne di nuovo, e questa volta sembra che il
motore non voglia proprio sapee. Mentre qualcuno prova a cercare aiuto, il
motore, non si sa come, riparte (a detta dell’autista e di tutti gli altri è un
miracolo). Ripartiamo per l’ennesima volta e, dopo un altro lungo pezzo di
strada e un altro stop con relativo aiuto (dietro compenso) di alcuni giovani,
finalmente arriviamo a casa.
Bula,
Bula, Bula! Pioggia, pioggia, pioggia! Molti prodotti
alimentari non arrivano, e i prezzi di quelli locali schizzano alle stelle.
È la
seconda notte che non dormo, causa matanga dei vicini. La matanga
è una sorta di veglia funebre, ma in pratica è un’occasione per spolpare la
famiglia in lutto che deve offrire da bere e mangiare. La povertà arriva a
intaccare anche i valori, e anche la morte diventa occasione per mettere
qualcosa sotto i denti.
La
malattia attuale più grande non è l’ebola o la malaria, ma il sentimento di
essere indesiderabile, disprezzato e abbandonato. Mi rendo conto di come la
ricchezza e la povertà rendano ciechi (la prima per superbia e egoismo, la
seconda per disperazione e logoramento) davanti alla grande verità che solo un
essere umano può rendere felice un altro essere umano. Infatti l’idea che
traspare dai nostri paesi più ricchi è che la felicità la fanno le cose e i
soldi. Questa logica malata purtroppo inquina anche questi luoghi, dove la
gente brama il denaro per imitarci. E così, oltre a rovinare noi stessi,
roviniamo anche quei popoli che avrebbero tanto da insegnarci.
Eritié
è migliorato e non peotta più al centro. Radis continua a menarmi, ma in
fondo l’ho conquistato: a volte viene e appoggia la testa sulle mie gambe.
Prima
di partire non avrei mai immaginato che avrei vissuto il razzismo sulla mia
pelle. Sono in un paese sconosciuto, da solo e non conosco la lingua. Ma
soprattutto sono mundele (bianco). Qui sembra che l’unica relazione
possibile con i bianchi sia finalizzata ad avere soldi. Mi ritrovo a girare per
strada a testa bassa, perché non è facile sostenere quegli sguardi, alcuni dei
quali ti giudicano. E come biasimarli del resto? Io sono ricco, ho un sacco di
possibilità. Non posso non sentirmi in colpa, benché, effettivamente, che colpa
posso avere?
Spesso
mi metto a osservare la gente che passa: questo popolo non avrà da mangiare, ma
è sempre in cammino. Non si lascia paralizzare dalle difficoltà. Sembra dire: «Non
ci sto a rimanere con la faccia nella polvere, comunque vada c’è qualcosa che
quasi nessuno può togliermi: la vita».
Qua a
Isiro l’istruzione risente, come tutto il resto, della povertà. Se avessi fatto
questa esperienza anni fa, avrei riconosciuto il vero valore della scuola.
Girando
per strada vedo sempre studenti con zappe e macete. Allora un giorno ho chiesto
loro il perché. Dunque dovete sapere che gli stipendi statali degli insegnanti
non arrivano mai. Quindi vengono tolti dei soldi dalla tassa di iscrizione
(molto cara), e in più, diversi docenti fanno lavorare gli studenti nei campi e
a casa loro.
Questa
settimana a Gajen ho seguito la scuola matea. Ovviamente i bambini stavano la
maggior parte del tempo girati verso di me invece di seguire l’insegnante. A
parte qualche balletto e canzoncina la mattina, per il resto non esistono
attività o giochi. Durante le lezioni i bambini ripetono a macchinetta e in
coro quello che dice l’insegnante, anche perché devono imparare il francese.
Comunque io mi sono divertito un mondo! Facevo le smorfie e, da bravo studente,
ripetevo in coro con loro canzoncine e poesie. Una frase dice: «L’anima
guarisce stando con i bambini». Cavolo, è proprio vero!
Per
il resto tutto bene. Volente o nolente il lingala lo sto assorbendo. Sono
sempre stato abituato a fare e fare, ma in questo momento mi viene chiesto «solo»
di vivere: sono due cose diverse e non è per niente facile comprenderlo.
Novità
delle ultime ore. Domani partirò per la missione di Neisu di nuovo nella
foresta, quindi pronti per una nuova avventura.
Tommaso degli Angeli*
(1 – continua)
*
Dopo aver studiato all’Istituto tecnico agrario, ho conseguito la laurea
triennale presso la Facoltà di Tecnologie alimentari a Bologna. Ho 22 anni.
Abito a Bagnarola di Cesenatico (Forlì-Cesena). Ho conosciuto la Consolata
grazie a padre Francesco Giuliani. Dopo aver fatto insieme a lui e altri
giovani un percorso di animazione missionaria e due brevi viaggi (Gibuti nel
2011, Kinshasa, Congo Rd nel 2013), è nato in me il desiderio di vivere
un’esperienza più lunga e intensa. Allora ho deciso di prendermi un tempo per
riflettere su me stesso e sulla mia vita mettendomi al servizio del prossimo.
Padre Francesco mi ha suggerito Isiro, e a settembre 2014 sono partito. Ciò che
faccio è principalmente aiutare il centro nutrizionale di Gajen.
Il
diario è nato dall’idea che è importante scrivere le cose per rendere materiale
ciò che vivo nel cuore (e per essere testimone).
Tra
le motivazioni del viaggio, la più importante è la fede: mi sentivo chiamato a
vivere lo stile di vita missionario, così mi sono buttato, senza tante
sicurezze, spinto dallo Spirito che me lo suggeriva.
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Tommaso Degli Angeli