«Annunzia quanto ti dirò» / 2 Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /2
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

Seconda parte delle
«Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno missionario».
Testo
non ufficiale.


D. QUELLO CHE NOI
ABBIAMO NARRATO, ORA LO DESIDERIAMO

Spinti e stimolati dall’ascolto della Parola e dalle sue
declinazioni e implicazioni storiche, sociologiche, filosofiche, antropologiche
e culturali che la rendono Parola incarnata nel quotidiano, cerchiamo di
raccogliere alcune provocazioni da quanto è emerso dal nostro convegno. […]

DESIDERARE

Ciò che desideriamo non può «cadere dal cielo»: deve essere il
frutto dello sforzo di una Chiesa che si sente in cammino, e soprattutto in
uscita verso quelle periferie geografiche ed esistenziali tanto citate quanto,
spesso, ancora sconosciute.

•          Rimettere Gesù al centro.

Il primo grande desiderio emerso dal convegno e quello di
rimettere al centro del nostro annuncio Gesù morto e risorto e la gioia
dell’incontro personale con lui attraverso un contatto assiduo con la Parola di
Dio. Come uno slogan, la frase «Più Parola e meno dottrine» è stata gridata in
più occasioni e in molti modi.

Nelle parrocchie, ci si sente spesso privati del contatto diretto
con la Parola di Dio, sebbene siano passati ormai oltre cinquant’anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II: rimettiamoci in ascolto della Parola,
attraverso tutte quelle forme (lettura popolare della Bibbia, gruppi biblici,
gruppi di ascolto, scuole della Parola) che puntano a restituirla quale
veramente è, ossia parola di Dio rivolta a tutto il suo popolo, e non solo a
una parte privilegiata di esso.

•          Metterci la testa.

Il secondo desiderio è quello di riuscire a «metterci più testa»
in ogni azione pastorale, in particolare in quella volta a fare della comunità
dei credenti una comunità missionaria.

Ci siamo scoperti deboli sulla capacità di individuare nuovi
cammini e nuove strategie perché deboli di pensiero; soprattutto, fatichiamo ad
avere un pensiero forte e arricchente intorno alla missione. Per riuscire ad
acquisirlo, abbiamo la necessità di essere accompagnati e aiutati a vari
livelli: mettiamoci, quindi, in cammino e aiutiamoci reciprocamente.

AIUTARE: I PRETI

Innanzitutto, il nostro clero.

Si è avvertita una stanchezza intorno alla dimensione missionaria
soprattutto nel nostro clero, a ogni livello. Aiutiamoci a essere vescovi e
sacerdoti missionari, sin dai primi istanti della nostra formazione.

•          Nei seminari.

Aiutiamoci a studiare la missione. Ciò può avvenire attraverso
l’obbligatorietà dell’istituzione e della frequentazione di corsi di
missiologia, ma più in generale con l’attenzione ai temi della mondialità e
dell’annuncio del Vangelo nelle varie culture.

È auspicabile che nelle equipe formative dei seminari sia presente
una figura (sacerdotale o laicale) di missionario rientrato.

Sono da incrementare le esperienze (soprattutto estive) che aprono
alla dimensione missionaria dell’annuncio, tanto «lontane» (esperienze di
missione in altre chiese) quanto ai lontani (esperienze caritative e di
frontiera nella nostra realtà italiana).

•          «Odorare di pecora».

Nelle nostre case canoniche, o comunque nel nostro stare in mezzo
alla gente, aiutiamoci a essere meno burocrati e funzionari del culto o
dell’amministrazione e a «odorare sempre di più di pecora», come ci ricorda
Papa Francesco.

•          Liturgia viva.

Nelle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare
nell’Eucaristia domenicale, aiutiamoci a celebrare il Cristo Risorto attraverso
liturgie vive e non ingessate, che riescano a dire qualcosa alla nostra gente,
che coinvolgano il più possibile anche coloro che provengono da Chiese
cristiane sorelle distinte per rito o per confessione, che creino ministerialità
condivisa (cominciando dall’animazione), che possano essere celebrate anche
fuori dai confini del tempio parrocchiale, in quegli spazi della società in cui
non si sente mai un messaggio di vita e di speranza. Soprattutto che siano
memoriali vivi della Passione e Morte del Signore, nella frazione del Pane e
nella lavanda dei piedi, ossia nella comunione tra preghiera e carità, tra esse
inscindibili e capaci di condurre l’Eucaristia domenicale oltre il canto
finale.

Vivere l’Eucaristia come memoriale vivo di
carità significa fare memoria di tutta la vita di Gesù, del suo parlare,
del suo stile di vita d’incontro e di annuncio.

Aiutare: le comunità

È sul territorio che una Chiesa in uscita e missionaria ha bisogno
di far sentire la propria forza, in considerazione del fatto che la forza della
testimonianza viene dal laicato, dall’associazionismo, dalla realtà dei
movimenti e delle nuove comunità, e da quel mondo religioso, femminile e
maschile, spesso lasciato ai margini anche delle scelte e dell’agire pastorale.

•          Nelle parrocchie.

Aiutiamoci a «narrarci» nelle parrocchie e nel mondo della scuola
(a ogni livello e grado di istruzione), della cultura e del lavoro. Aiutiamoci
a raccontare, a dire senza paura ciò che abbiamo sperimentato soprattutto in
relazione ai contatti con altre culture e altri modi di vivere la fede.

In questo ambito sono fondamentali le figure dei missionari
rientrati, definitivamente o per periodi brevi, e di quei giovani di ritorno da
esperienze più o meno prolungate di missione. Come ha ricordato ancora Papa
Francesco incontrandoci in udienza durante il convegno: questo non si fa per
proselitismo, ma per comunicare la gioia dell’incontro con il Signore.

•          Nelle diocesi.

Aiutiamoci a non perdere lo spirito dell’ad gentes e, di
conseguenza, a continuare a mandare laici, religiosi, sacerdoti che – inviati
da una Chiesa a un’altra Chiesa – vivano un’esperienza di cooperazione e di
annuncio.

Non può essere che, dopo neppure sessant’anni dalla promulgazione
dell’enciclica Fidei Donum, questa figura di cooperazione missionaria
debba essere destinata a morire. Non può essere che (dopo una storia così
gloriosa come quella italiana) non esistano più vocazioni alla missione «ad
vitam»: se ciò avviene all’interno della Chiesa – che per sua nascita e natura è
missionaria – significa che c’è qualcosa da sanare alla radice.

Occorre principalmente da parte dei vescovi meno resistenza a
incoraggiare le partenze, perché un cristiano che lascia la propria diocesi per
annunciare il Vangelo non è perso, è donato.

In questo dinamismo, aiutiamo pure gli Istituti Missionari
a rimanere se stessi, fedeli all’azione missionaria ad gentes e ad
vitam.
Ben lungi dall’aver esaurito il proprio compito, essi devono
piuttosto avere ancor più ampia incidenza nella Chiesa come memoria della
missione, come stimolo di animazione missionaria, e come richiamo alla
responsabilità che la Chiesa tutta ha nell’evangelizzazione universale.

•          Oltre i confini.

Aiutiamoci anche da un punto di vista missionario a sentirci
Chiese locali «in rete», per creare collaborazioni missionarie che travalichino
i confini delle diocesi.

Soprattutto – ma non solo – nelle diocesi più piccole o nelle regioni
che fanno più fatica a sostenere da sole esperienze di cooperazione missionaria
ad gentes, si sperimentino e si incrementino esperienze interdiocesane
e/o interregionali di invio comune di laici, sacerdoti e religiose, magari con
il sostegno formativo ed economico di diocesi che storicamente hanno una
tradizione più assodata di invio missionario.

«Travalicare i confini» significa anche
creare un lavoro di rete con tutte quelle realtà che – pur non professando il
nostro stesso Credo religioso, o comunque non nelle nostre modalità –
condividono con noi la stessa speranza e la stessa carità. A partire dal
dialogo ecumenico e interreligioso, fino allo scambio sui valori condivisi con
gli uomini e le donne di ogni cultura. Puntiamo sempre più (nello spirito del
Concilio Vaticano II) alla ricerca della verità «in modo rispondente alla
dignità della persona umana e alla sua natura sociale, e cioè a una ricerca
condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per
mezzo dello scambio e del dialogo […] con cui gli uni rivelano agli altri la
verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta», lavorando per la
costruzione di un mondo più giusto e di una società più fratea.

•          Nella formazione.

Aiutiamoci a corroborare con la dimensione missionaria la
formazione delle nostre comunità, soprattutto di quelle nelle quali si vive un
maggior impegno ecclesiale (in parrocchia, ma anche nelle piccole comunità
cristiane, nelle associazioni, nei movimenti, nelle nuove esperienze di Chiesa «di
strada» e di evangelizzazione di frontiera).

Tra i formatori e i catechisti, è bene iniziare a dare maggior
spazio anche a quei cristiani (e non sono pochi) che vivono nei nostri paesi e
nelle nostre città e provengono da Chiese di altri paesi in cui già erano
impegnati come catechisti, come ministri e come formatori o animatori
liturgici. Aiutiamoci prima di tutto a evitare pietismo e assistenzialismo nei
loro confronti, e a vederli come soggetti di testimonianza cristiana invece che
come oggetti di attenzione e di carità.

E insistiamo anche su cammini di formazione e informazione alla
mondialità e all’intercultura che aiutino i nostri cristiani a conoscere e
capire chi proviene da altri paesi per favorire sempre più una seria e onesta
cultura della reciproca integrazione.

•          Nella comunicazione.

È stato rimesso al centro il tema della comunicazione, offrendo ai
partecipanti un convegno dallo stile comunicativo efficace, attuale e
propositivo.

Aiutiamoci a cambiare il modo di fare comunicazione. Aiutiamoci a
cambiare il linguaggio comunicativo che utilizziamo nell’annuncio del Vangelo,
a partire dalla presa di coscienza che, come Chiesa, siamo ancora molto
indietro sotto questo aspetto rispetto al bombardamento mediatico che forma
mentre informa.

Non possiamo più comunicare solo frontalmente e verbalmente. Non
possiamo più guardare alle nuove strategie comunicative (rete, social
network
, chat e app) con diffidenza, paura e ostracismo. Il
linguaggio dell’immagine era stato compreso e attuato già dai nostri Padri
nella fede, quando costruivano chiese decorate di affreschi, mosaici e pitture.

Aiutiamoci a investire tempo, energie e risorse anche economiche
per ritrovare una strategia comunicativa efficace: l’idea di un portale web
unico per la comunicazione nel mondo missionario non può più essere messa da
parte.

•          Spazio ai giovani.

In questa assemblea di Sacrofano i capelli bianchi non erano in
prevalenza, pur costatando l’innalzamento dell’età media dei missionari
italiani. I giovani sotto i 35 anni presenti in sala erano oltre 200.

Se c’è ancora qualcosa che sa attirare in maniera accattivante i
giovani al discorso di fede e alla vita di Chiesa, o comunque all’amore per i
valori che contano, è proprio la missione, con il suo bagaglio di attenzione ai
poveri, agli ultimi, agli emarginati, ai lontani e ai diversi di ogni
categoria.

Aiutiamoci a mantenerci giovani. Aiutiamo i giovani a essere ciò
che sono, in altre parole il presente, e non il futuro della Chiesa e della
società. Non dobbiamo avere timore ad affidare loro compiti di responsabilità
anche a livello decisionale nelle nostre comunità: non dobbiamo avere paura di
perdere qualcuno di loro, se ci dice che vuole fare un’esperienza prolungata di
missione; non lesiniamo nell’aiuto, anche materiale, che possiamo dare loro per
attivare strategie di animazione missionaria o per creare attività caritative e
di apertura ai bisognosi e ai lontani.

E – come ci ha detto ancora una volta Papa Francesco – iniziamo da
subito: dai bambini (il termine «bambini» nel suo discorso è stato ripetuto sei
volte, tanto quanto il termine «missione»). «I bambini devono ricevere una
catechesi missionaria»: non possiamo più tirarci indietro da questo compito.

GUARDARE AVANTI

Molto bella e stimolante è stata l’assenza del classico «piagnisterno»
nostalgico dei tempi passati, quelli in cui «si era di più e si faceva meglio».

Si è invece percepito in maniera palpabile che c’è ancora tanta
voglia di mettersi in gioco, e che il fuoco della missione non si è
affatto affievolito. Possiamo quindi dire che il primo obiettivo del convegno («riaccendere
la passione dei singoli e delle comunità per la missio ad gentes e inter
gentes
») è stato già raggiunto.

L’entusiasmo avvertito è stato davvero grande. Da questo momento
in poi, dobbiamo decisamente puntare al raggiungimento del secondo obiettivo: «Studiare
nuovi stili di presenza missionaria nella nostra realtà
».

SULLE ALI  DELL’ENTUSIASMO

Lanciamo, allora, tre slogan finali che possano stimolare
concretamente a qualcosa di forte.Teniamo «in caldo» il convegno.

L’entusiasmo di questi giorni ci spinge a «battere il ferro mentre
è caldo», a «mantenere in caldo» il cibo di cui ci saziamo. Molti hanno
espresso il desiderio di non far passare un altro decennio prima di convocare
nuovamente la Chiesa Italiana alla missione: cercheremo di far tesoro di questa
indicazione. Ma al di là della frequenza del ritrovarci, ci sono molti altri
modi per mantenere alto l’entusiasmo.

•          Nel territorio.

Iniziamo, allora, a pensare a come far ricadere a livello locale
(regionale e diocesano) quanto vissuto a Sacrofano. Può essere attraverso
piccoli convegni locali, può essere nell’ordinaria programmazione degli
incontri regionali o diocesani, può essere attraverso momenti di riflessione e
approfondimento (magari anche con percorsi formativi su uno o più ambiti
affrontati al convegno, specie nei laboratori di interesse), dando priorità
alle urgenze della situazione locale. Le modalità sono molteplici, e crediamo
che vadano lasciate soprattutto alla stimolante inventiva di ognuno dei
partecipanti e di chi – rimasto a casa – ha potuto comunque seguire i nostri
lavori.

•          Nel «world wide web».

Non dimentichiamo che uno degli strumenti più validi per quest’opera
di «riscaldamento» e «attizzamento» del fuoco della missione rimane il mondo
del web, dei social network e di tutto ciò che la rete ci mette a
disposizione. Facciamo della rete un ambito
sempre più missionario!

•          Fare rete.

Da parte degli organismi che la Conferenza
Episcopale Italiana mette a disposizione della Chiesa in Italia per
l’animazione, la formazione e la cooperazione missionaria (l’Ufficio
Nazionale di Cooperazione Missionaria
, la Fondazione Missio e il Cum
di Verona), come da parte di tutti gli Istituti Missionari presenti in Italia,
viene ribadita la più ampia disponibilità a svolgere la propria funzione di
servizio in appoggio a qualsiasi iniziativa possa servire a mantenere vivo
questo entusiasmo e a individuare percorsi formativi e iniziative a carattere
missionario, sul territorio nazionale e non solo.

OSARE LA MISSIONE

Da qualche tempo molti sperimentano, in mille forme, esperienze di
animazione, formazione e cooperazione missionaria, che sono il segno di una
grande vivacità.

Il desiderio è di veder nascere cammini significativi dal
carattere spiccatamente missionario, tanto in favore della missio ad
gentes
quanto per la realtà dei lontani che vivono vicini alle nostre case.
Chi «osa» tali cammini, ne comunichi e condivida la bellezza. Sarebbe un modo
veramente molto concreto di realizzare quella «evangelizzazione attraverso la
vita» di cui Papa Francesco ci ha parlato in varie occasioni.

Uscire,
ascoltare,
annunciare

E riprendiamo il nostro cammino con due delle affermazioni più
belle che abbiamo ascoltato in questi giorni, entrambe pronunciate sabato 22
novembre. Una, il mattino, da Papa Francesco, e l’altra il pomeriggio, da padre
Gustavo Gutiérrez. Sono quelle frasi che aprono il cuore, fanno sognare,
mantengono acceso il desiderio di continuare a essere discepoli missionari,
testimoni del Dio della Vita e del Vangelo della Gioia.

«Gioo dopo giorno
[…]
scriviamo una teologia
incarnata, come una lettera d’amore a Dio da parte della sua Chiesa»
(Gustavo Gutiérrez).

«Le diverse realtà
che voi rappresentate nella Chiesa italiana indicano che lo spirito della missio ad gentes deve diventare lo
spirito della missione della Chiesa nel mondo: uscire, ascoltare il grido dei
poveri e dei lontani, incontrare tutti e annunciare la gioia del Vangelo»

(Papa Francesco).

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Il testo qui pubblicato non è ufficiale, ma provvisorio, con
adattamenti,
tagli e correzioni stilistiche, ortografiche e grammaticali a cura di Gigi
Anataloni e redazione MC.

a cura di Gigi Anataloni




Per un pezzo di terra

L’antisionismo degli Ebrei
Ortodossi
Non tutti gli ebrei
sono favorevoli allo stato di Israele. L’antisionismo si può incontrare, ad
esempio, tra molti ebrei ortodossi. Quelli aderenti ai movimenti «Satmar»,
«Agudat Yisrael», «Bund», «Edah Haredit» e «Neturei Karta» sono forse i più
intransigenti. Si tratta di un fenomeno poco conosciuto, ma presente, la cui importanza
è destinata a crescere.

Nel 1896 Theodor Herzl (1860 – 1904)
ripropose all’attenzione del mondo ebraico un’idea non certamente nuova, ma che
alla fine del XIX secolo cominciava a prendere piede tra le comunità
israelitiche: la creazione o, come disse lo stesso Herzl, la «restaurazione» di
uno stato che potesse ospitare giudei da tutto il mondo.

Prendendo spunto dal caso Dreyfuss (Francia, 1894, ndr) e dai moti antisemiti che
sconvolgevano l’Europa in quegli anni, Herzl sosteneva che «invano siamo leali
patrioti […] invano facciamo gli stessi sacrifici […] che fanno i nostri
connazionali; invano contribuiamo a incrementare la fama della nostra terra
natia nelle scienze e nelle arti o ad arricchirla con il commercio. Nei paesi
dove viviamo da secoli continuiamo ad essere considerati stranieri».

Secondo Herzl era dunque necessaria la creazione di uno
stato ebraico: «Garantiteci un pezzo di terra grande a sufficienza per
costruirci una nazione; penseremo noi a mantenerci».

In verità Herzl non propose il ritorno in Palestina.
Anzi, al primo Congresso sionista, svoltosi a Basilea nel 1897, indicò l’Uganda
come possibile luogo in cui insediare il popolo ebraico.

Il piano di insediamento avrebbe dovuto essere sviluppato
dalla Società degli ebrei e dalla Jewish Company che avrebbero
cornordinato la liquidazione degli interessi ebrei negli stati d’origine, il
trasferimento nella nuova terra, gli aspetti logistici dei nuovi insediamenti. «I
poveri dovranno andare per primi per disboscare terreni e coltivare i campi […]
costruiranno strade, ponti, ferrovie, telegrafi; regoleranno i letti dei fiumi
e costruiranno le loro case».

Nascita
dell’antisionismo: l’Agudat Yisrael

La
proposta fu quasi subito contrastata da alcuni gruppi di ebrei ortodossi
tedeschi, ungheresi e polacchi che, nel 1912 fondarono l’Agudat Yisrael (o
Agude), opponendosi alla secolarizzazione proposta dal sionismo. L’Agude era il
movimento più in vista della galassia antisionista ebraica: altre
organizzazioni, nate dopo quella teorizzata da Herzl, come il Bund (un
movimento socialista ebraico), avversavano la fondazione di uno stato ebraico
e, con esso, l’aliyah, la migrazione degli ebrei verso la Terra
Promessa (Eretz
Yisrael).

Attoo
ai gruppi antisionisti gravitavano pensatori autonomi che, con il loro
contributo, davano spessore filosofico e culturale all’antisionismo.

Uno di
questi, e anche uno dei primi a criticare il sionismo, fu Hermann Cohen
(1842-1918), filosofo tedesco neokantiano e contemporaneo di Friedrich Nietzsche,
secondo cui l’unica possibilità che le comunità ebraiche avrebbero avuto per
sopravvivere sarebbe stata quella di perseguire una politica di «integrazione
nella modea nazione-stato». Insomma, rimanere nei paesi in cui si trovavano
cercando di partecipare, a diversi livelli, alle attività politiche, sociali ed
economiche degli stessi. Cohen negava, dunque, la necessità di possedere una
terra che ospitasse gli ebrei, contrapponendosi alla tesi di Herzl.

Ma se
Hermann Cohen basava la sua tesi su una visione prettamente pragmatica e non
discostando il suo pensiero dal secolarismo, un suo seguace, Steven
Schwarzschild (1924-1989), sviluppando le sue tesi pacifiste attraverso un
intenso dialogo con Thomas Merton, spostò il dibattito sull’ambito religioso.

Schwarzschild
presagì, come la filosofa e scrittrice Hannah Arendt (1906 – 1975), che la
nascita di Israele avrebbe rischiato di portare un insanabile conflitto con i
palestinesi e avrebbe contribuito a far prevalere la concezione secolare di
stato su quella religiosa. In questo modo, secondo il filosofo e rabbino
tedesco, il sionismo avrebbe allontanato pericolosamente gli ebrei da Dio.

Il movimento Satmar

Il
pensiero di Schwarzschild fu influenzato anche da un altro rabbino
antisionista: Joel Teitelbaum (1887-1979), fondatore del movimento Satmar,
il primo grande gruppo di ebrei ortodossi che si oppose (e che tuttora si
oppone) allo stato di Israele. Il Satmar, che deve il nome al villaggio della
Transilvania di Satu Mare, nacque l’8 settembre 1905. Teitelbaum fu, tra gli
ebrei ortodossi, il più radicale nel condannare il sionismo. Il punto di
partenza da cui il rabbino – e, in seguito, tutti i movimenti religiosi venuti
dopo il Satmar – prese le mosse per argomentare la sua contrarietà allo stato
israeliano fu la trattazione di un passo del Talmud (testo sacro dell’ebraismo, ndr) di Babilonia
(ketubot 111a) secondo cui il popolo ebraico, in passato, ebbe sigillato un
patto con il Signore in base al quale:

1. Israele
(Eretz Yisrael) non avrebbe «eretto un muro» (cioè non
avrebbe conquistato la terra promessa con la forza);

2.
Israele che non si sarebbe ribellato contro le nazioni del mondo (cioè gli
ebrei avrebbero obbedito ai governi del loro esilio);

3. i popoli
non ebrei non avrebbero oppresso troppo Israele.

Tradire
quel patto con la fondazione di uno stato di Israele avrebbe trasformato il
sionismo nella «più grande forma di impurità spirituale del mondo intero».
Sarebbe stato proprio questo peccato a scatenare le punizioni divine a cui gli
ebrei sarebbero stati sottoposti nel corso della storia, compresa, secondo
Teitelbaum, la shoah (l’olocausto, ndr). Questa tesi, cinica se vogliamo, è ancora oggi condivisa dalla
maggior parte dei Edah Haredit, le comunità ultra ortodosse che vivono
sia dentro che fuori Israele.

Il
rifiuto del sionismo da parte dei Satmar fu (ed è) pressoché totale e coerente:
nel 1959, per la visita di Joel Teitelbaum alla Terra Promessa, il movimento
organizzò un treno apposito privo di qualsiasi riferimento allo stato di
Israele, mentre dopo la Guerra dei Sei Gioi (1967) ai membri della comunità
che vivevano in Israele il movimento proibì di pregare davanti al Muro del
Pianto e in altri Luoghi Santi ebraici di Gerusalemme per evitare ogni
legittimazione dello stato israeliano. Persino la lingua parlata dai Satmar e
insegnata nelle loro scuole è l’yiddish (lingua
germanica parlata dagli Ebrei originari dell’Europa orientale e scritta con
l’alfabeto ebraico, ndr) e non ebraico moderno, il che isola
ulteriormente la comunità dal resto di Israele. Per aiutare socialmente i
119.000 aderenti a questa scuola ebraica, divisi principalmente tra il
quartiere di Williamsburg, a New York, e quello di Mea Shearim, a Gerusalemme,
sono state create fondazioni come la Bikur Cholim che si occupa del
campo sanitario e la Keren Hatzolah, che sovvenziona gli ebrei indigenti
residenti in Israele e le yeshiva (istituzioni
educative ebraiche, ndr).

Neturei Karta

La
seconda scuola ebraica ortodossa antisionista più nota è quella dei Neturei
Karta
, nome aramaico che significa «Guardiani della città», secondo un
passo talmudico in cui si afferma che i veri guardiani della città non sono i
soldati, bensì gli studiosi della Torah (la
fonte primaria dell’ebraismo, ndr). Meno numerosi dei Satmar, i
Neturei Karta furono fondati dal rabbi Aharon Katzenelbogen nel 1938
distaccandosi dall’Agudat Yisrael. Molti dei membri originari erano vecchi yishuv, «coloni», che vivevano in Palestina ancora prima della fondazione di
Israele sopravvivendo grazie alle donazioni della Diaspora ebraica. Dediti allo
studio della Torah, i Neturei Karta, così come la maggior parte
degli ebrei ortodossi, ebbero subito contrasti con i nuovi coloni ebraici
arrivati in Palestina dopo la fondazione di Israele. Questi ultimi, infatti,
che dovevano provvedere da soli al loro sostentamento lavorando duramente nei
campi, guardavano con disprezzo chi contrastava la loro patria rifiutando di
sostenerli e al tempo stesso evitava il lavoro manuale.

L’antisionismo
dei Neturei Karta oggi si spinge ben oltre agli altri gruppi ortodossi
arrivando anche a intrattenere rapporti con l’Iran e Hamas. Delegazioni di
questo gruppo ebraico, infatti, sono state più volte invitate in Iran (nel 2006
direttamente da Ahmadinejad per partecipare alla Conferenza sulla Revisione
dell’Olocausto a Teheran, in cui presenziavano anche negazionisti e
revisionisti della shoah), mentre nel 2005 alcuni membri
parteciparono alla Marcia per la Liberazione di Gaza.

Il
genero di rabbi Aharon Katzenelbogen, Moshe Hirsch (1923-2010), fu anche consigliere del ministro per
gli Affari ebraici del governo di Yasser Arafat.

L’antisionismo
dei Neturei Karta viene spesso espresso in piazza con manifestazioni. Quasi
tutte le fotografie proposte dai media che mostrano ebrei ortodossi con
striscioni antisionisti e bandiere palestinesi, ritraggono loro raduni. Il
sionismo, infatti, per loro è sinonimo di colonialismo, e quest’ultimo,
portando alla «perdita di vita e all’oppressione, è una profanazione della
volontà di Dio».

Sbaglia,
comunque, chi vede negli ebrei ortodossi un possibile alleato politico alla
causa palestinese: battersi per il diritto dei palestinesi di vivere nella loro
terra, infatti, non è, per loro, una questione di diritti umani o di politica
(entrambe espressione del secolarismo), ma una semplice risposta alla volontà
del Signore.

Da Gerusalemme a New
York

Altri
gruppi di Ebrei ortodossi completano la complessa e variegata galassia
antisionista ebraica. Quasi tutti si concentrano a
Gerusalemme nel quartiere di Mea Shearim, considerato da molti uno spaccato di
vita medioevale. È, naturalmente, un’esagerazione, ma è anche vero che chi si
addentra tra le vie di quest’area, così come in quella di
Williamsburg a New York, ha l’impressione di essere ricondotto a una società
tradizionale che si ritrova nelle fotografie precedenti la guerra. Il bianco e
il nero sono i colori che contraddistinguono queste comunità.

All’ingresso
del quartiere cartelli avvertono i turisti di «non passare con vestiti
immodesti e vanitosi», mentre altri manifesti denunciano Israele e il sionismo
specificando, di volta in volta, che «gli ebrei non sono sionisti», «i sionisti
non sono ebrei, ma razzisti», e che le varie comunità «pregano D-o (Dio)
affinché ponga immediatamente fine al sionismo e all’occupazione».

Lungo le
strade gli uomini coprono il capo con i shtreimel o kolpik a seconda del gruppo a cui appartengono, da cui penzolano i payot, i boccoli, lasciati crescere per rispettare il comandamento della
Torah tratto dal Levitico 19,27. Anche nei giorni più caldi molti indossano il bekishe, il soprabito nero o una giacca, sempre nera.

Le donne
devono vestire tzniyut, modestamente. Al sesso femminile è fatto
obbligo di indossare gonne che coprano il ginocchio sin dal compimento del
terzo anno d’età, e di coprire le altre parti del corpo con camicie a maniche
lunghe e colli allacciati. Dopo il matrimonio, un tichel avvolge il capo in modo da non mostrare i capelli. Tra i Satmar molte
donne si rasano addirittura il capo cosicché le ciocche non sporgano dal
foulard.

Le
comunità di Mea Shearim vivono in un mondo separato in cui l’unica legge
vigente è quella della Torah, rispettata, nel limite del possibile, alla
lettera. Durante lo shabbat (il riposo del sabato, ndr) nessun apparecchio elettrico può essere utilizzato, nessun mezzo a
motore può circolare, nessun negozio è autorizzato ad alzare le serrande.

Una vita tra studio e
famiglia

In
generale, sono chiamati Haredi (Haredim) gli ortodossi più conservatori.
Tra i media sono conosciuti come «ultra ortodossi». Gli uomini sono dediti allo
studio dei testi sacri, mentre le donne si occupano della famiglia,
generalmente molto numerosa. Questo porta a due conseguenze: la povertà diffusa
e l’altissimo incremento demografico, due temi che preoccupano moltissimo la
dirigenza israeliana.

Oggi gli
Haredi nello stato israeliano rappresentano l’11,7% della popolazione con un
tasso di incremento del 6-7% annuo. Spezzando la piramide demografica e
prendendo la fascia d’età al di sotto dei 5 anni, il 30% è composto da bambini
provenienti da famiglie ultraortodosse.

Lo
sconvolgimento nella società israeliana sarà enorme: già oggi la metà degli
studenti israeliani che frequenta le scuole primarie è inserito in strutture
ultraortodosse o arabe, entrambe antisioniste. Chi continua gli studi nelle yeshiva non avrà un’educazione economica adeguata ad affrontare le insidiose
regole del mercato rischiando di indebolire la classe manageriale israeliana e
lo stesso stato, che attualmente deve mantenere gran parte delle comunità
ultraortodosse mediante assegni di mantenimento. In un rapporto del 2010, la
Banca di Israele ha stimato che il 60% degli Haredi sono poveri e dipendono
unicamente dalle sovvenzioni statali o dagli aiuti provenienti dalle comunità
ebree residenti fuori Israele.

La questione del
servizio militare

Gli
ebrei ortodossi, inoltre, rifiutano di prestare servizio militare nelle Idf (Israelian
Defence Forces
), cosa che preoccupa i vertici militari e indigna il resto
della popolazione, obbligata a prestare servizio all’interno delle forze armate
per due anni, nel caso delle donne, e tre anni per gli uomini.

Nel
marzo 2014 la Knesset, il parlamento israeliano, ha dato il via libera al
processo di revisione della normativa sulla leva militare (la cosiddetta «legge
Tal») rendendola obbligatoria anche per gli studenti ortodossi e causando le
prevedibili proteste degli Haredi. La classe dirigente di Israele dovrà,
comunque, affrontare il problema dell’antisionismo all’interno della nazione la
cui esistenza futura è messa a repentaglio non da interventi estei, ma da una
parte importante del suo stesso popolo.

Piergiorgio Pescali

Piccolo dizionario

Il peso (e il senso)
delle parole


Ebreo, giudeo, israeliano, semita, antisemita, sionismo, sionista: molti
termini riferiti agli ebrei vengono confusi. Per ignoranza, per scelta
politica, per luogo comune. Proviamo a fare un
po’ di chiarezza partendo da una fonte affidabile.

Giudèo – In senso letterale, appartenente
alla tribù di Giuda (personaggio biblico, quarto figlio del patriarca
Giacobbe). In senso stretto, denominazione con cui sono stati indicati gli
Ebrei rimasti dopo la distruzione del regno d’Israele (722 a.C.), quando
l’intero popolo ebraico fu ridotto alla sola tribù di Giuda. Nell’uso comune,
giudeo è sinonimo generico di ebreo, soprattutto al plurale (ma con valore
spesso spregiativo): la religione, la comunità dei Giudei. 

Ebreo – Appartenente o relativo all’antico
popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del
2° millennio a.C., costituendosi in unità nazionale e religiosa, e
distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico
della sua religione.

Israeliano – Cittadino dell’odierno stato di
Israele.

Palestinese – In senso etimologico, indica una
persona abitante, originaria o nativa della Palestina, regione asiatica sud
occidentale estesa tra il mar Mediterraneo e l’altopiano giordano. In senso
stretto, oggi il termine palestinese indica la popolazione araba ivi residente.

Olocausto – Forma di sacrificio praticata
nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui
la vittima veniva interamente bruciata: offrire un agnello in olocausto;
celebrare un olocausto. Per estensione s’intende sacrificio totale, distruzione
di gruppi etnici o religiosi, di popolazioni, città (spesso come sinonimo di
massacro, martirio, genocidio): l’olocausto degli Armeni; l’olocausto nucleare
di Hiroshima. Nel linguaggio corrente, per antonomasia, l’olocausto (Shoah)
è quello degli Ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra
mondiale.

Ortodosso – In senso generico, è colui che
accetta integralmente le dottrine religiose affermate come vere da una
determinata fede o Chiesa e ne osserva il culto.

Semita – Deriva dal nome Sem del figlio di
Noè, il quale, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei
popoli semitici. Il termine indica un appartenente alle popolazioni semitiche.

Semìtico – Relativo a un gruppo di lingue
(ebraico, arabo, etiopico, aramaico, accadico, fenicio, ecc.), parlate da
popolazioni antiche e modee dell’Asia sud-occidentale e dell’Africa
settentrionale, che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere, per la
maggior parte, da Sem figlio di Noè. Per estensione, si riferisce ai popoli
parlanti tali lingue, alla loro storia e civiltà.

Sionismo – Deriva da Siòn, nome di una
collina di
Gerusalemme e, per estensione, di Gerusalemme stessa. La parola è stata
coniata, nella forma Zionismus, dallo scrittore tedesco Nathan Bibaum
nel 1882. Sta ad indicare il movimento politico-religioso ebraico, espressione
di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di
creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e
conclusosi nel 1948 con la proclamazione dello stato d’Israele. Nell’attuale
pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione
polemica, la politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei
confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Antisemitismo – Deriva dal termine tedesco Antisemitismus
coniato da Ch. F. Rühs nel 1816. Sta a indicare avversione e lotta contro gli
Ebrei, manifestatasi anticamente come ostilità di carattere religioso, divenuta
in seguito, specialmente nel XX secolo, vera e propria persecuzione razziale
basata su teorie pseudoscientifiche. 

Antisionismo – Atteggiamento culturale e politico
di opposizione e contrasto alle espressioni più radicali del sionismo.

Fonte: voci tratte ed elaborate dal «Dizionario
Treccani» (www.treccani.it) a cura di Paolo Moiola.

Tags: Israele, Ultraortodossi, Sionismo

 

Piergiorgio Pescali




Vangelo ed Educazione,Sviluppo e pace

Rumuruti: Missione di Frontiera

Un dossier narrativo in collaborazione tra la rivista The Seed di Nairobi e MC



Indice:

1. Terra di frontiera
2. La parrocchia Familia Takatifu
3. Un universo multietnico
4. Nomadismo e lavoro minorile
5. Curare fli infermi
6. Un uomo, una missione

 

 


1.

Terra di frontiera, terra di nessuno, terra di tutti
Rumuruti: una cosmopoli «remota»

di Henry Onyango e Gigi Anataloni

Rumuruti si trova pochi decimi di grado sopra l’equatore nel cuore del Laikipia Plateau, distretto di Laikipia Ovest, sulla strada che porta da Nyahururu a Maralal, al termine dei 40 km asfaltati che la separano da Nyahururu, sosta quasi obbligatoria prima di affrontare l’incognita degli altri 120 km di sterrato che portano a Maralal su una strada impegnativa durante il periodo secco e impossibile nella stagione delle piogge.

Il Liakipia Plateu è una immensa area di savana ricchissima di animali: mandrie enormi di zebre, branchi di elefanti che migrano stagionalmente seguendo le piogge, gazzelle e antilopi di ogni tipo, scimmie, serpenti, coccodrilli, leoni e leopardi, e chi più ne ha più ne metta. L’Ewaso Narok è il fiume principale della regione. Nasce dalle falde del Monte Kenya, crea una magnifica cascata, Thomson’s Fall, si disperde nelle zone paludose dette Ewaso Swamp poco più a Nord della cittadina di Rumuruti. Girando lentamente verso Est si unisce alle acque limacciose del fiume Ewaso Nyiro che attraversa il Samburu Park e, passato il ponte di Archer’s Post, continua ancora in una vastissima zona semiarida alimentando le Lorian Swamps. Infine, in Somalia si unisce al Jubba River.

I fiumi e la vicinanza del Monte Kenya, ricco di acque, hanno creato un ambiente ricchissimo di ogni tipo di fauna. Fino alla fine dell’Ottocento gli animali ne erano i padroni assoluti, disturbati di tanto in tanto soltanto dai Maasai o dai Samburu con le loro mandrie, mentre i Kikuyu e i Meru erano arroccati sulle fertili falde del Monte Kenya e dell’Aberdare.

Dal colonialismo all’indipendenza

L’arrivo degli inglesi, all’inizio del secolo scorso, alterò gli equilibri. Cacciati i Maasai, costretti a vivere nel Sud del Kenya, e spinti i Samburu sulle loro aride montagne più a Nord, i coloni bianchi, si stabilirono (settle in inglese, da cui il nome settlers per indicare i coloni) nella zona in maniera esclusiva. Divisa la terra in enormi proprietà di migliaia di ettari, la fecero lavorare da contadini e pastori provenienti da ogni parte del Kenya. Questi lavoratori non erano liberi nei loro movimenti, ma avevano un passaporto speciale da presentare a ogni controllo della polizia. Nessun altro africano, se non i lavoratori, poteva vivere là.

Dopo l’indipendenza, nel 1963, i terreni dei coloni furono riscattati dal governo inglese e ceduti al governo del Kenya. Mentre nelle zone più fertili della Nyandarua County, divisi in piccoli appezzamenti, furono venduti a prezzi simbolici ai contadini kikuyu, nella più arida e disabitata Laikipia County furono accaparrati da grandi latifondisti sia keniani che stranieri.

Si stima che il Laikipia Plateau sia di 10.000 chilometri quadrati, circa 2 milioni e mezzo di acri secondo le misurazioni locali. È l’area con il maggior concentramento di proprietari non africani, soprattutto della nuova «aristocrazia» inglese e americana. Con loro ci sono alcuni baroni locali, politicamente molto influenti. Venti proprietari possiedono il 74% di tutta la terra disponibile. Ci sono circa 36 grandi e piccole proprietà che vanno dai piccoli ranch o fattorie da 5.000 acri (20 km2), a enormi estensioni dagli orizzonti infiniti di oltre 100.000 acri (400 km2). Molte di queste proprietà sono oggi trasformate in santuari per gli animali e meta di turismo. Una delle proprietà più grosse, il Laikipia Ranch, di 100 mila acri (oltre 400 km2, 40.000 ettari, chiamato anche Ol Ari Nyiro Ranch, fattoria delle acque nere), appartiene alla «baronessa» Kuki Gallman, una scrittrice italiana naturalizzata in Kenya, che comperò l’area nel 1974 trasformandola poi in un santuario per gli animali selvatici, con esemplari del raro rinoceronte bianco e della bellissima zebra grevy dalle strisce sottili, che sono a rischio di estinzione. La proprietà confina con la missione di Rumuruti.

Finito il colonialismo, i Maasai e Samburu cominciarono a ritornare con le loro mandrie in quelle terre che loro considerano ancestrali, tollerati dai ricchi latifondisti che chiusero gli occhi al sorgere di piccoli insediamenti ai margini delle loro proprietà, nelle ampie aree riservate alle strade (da costruire), anche per rispondere ai bisogni dei loro lavoratori. Presto tornarono anche altri pastori nomadi, come i Borana e i Somali da Est, i Kalenjin e i Pokot da Ovest, i Turkana e gli Ndorobo (cacciatori e raccoglitori nelle grandi foreste) da Nord, attirati dai grandi pascoli offerti dal plateau. Sorsero qua e là dei piccoli agglomerati di povere costruzioni in legno in stile Far West: qualche bottega in cui si trovava di tutto, gl’immancabili bar, una scuoletta-asilo – che all’occasione diventava anche cappella – costruita dai missionari.

Poi negli anni Ottanta si cominciarono a vendere alcune delle grandi proprietà. Suddivise in centinaia di piccoli appezzamenti per rendee il costo accessibile, furono vendute a società cornoperative di contadini senza terra di ogni provenienza, privilegiando a volte questo o quel gruppo etnico. L’area divenne anche zona di rifugio per tanti altri cacciati dalle proprie regioni a causa dei conflitti etnici che di tanto in tanto ancora oggi infiammano il Kenya. Tra questi, le famiglie di rifugiati provenienti dalla Rift Valley per cui la Conferenza episcopale del Kenya ha acquistato i terreni nel 2008.

 

La «strada remota»

Il tranquillo villaggio di Rumuruti, così racconta la storia, fu scelto dal governo coloniale inglese come stazione amministrativa e sede di una grande prigione per la sua posizione a un importante incrocio di strade. Ma da dove viene questo nome? Si racconta che i coloni bianchi, i quali regolarmente facevano la strada da Nyahururu a Maralal, chiamassero remote route (strada remota) la pista che univa i due centri. I locali trasformarono l’espressione inglese facendola diventare Rumuruti.

Importante un tempo solo come centro per le fattorie dei settlers e punto di entrata controllato al territorio dei Samburu, oggi Rumuruti è la sede amministrativa del distretto. Cresciuto da villaggio a cittadina per l’aumento della popolazione e il nuovo status, non ha però le infrastrutture necessarie, come banche, alberghi, servizi sociali o altre comodità. È certamente in crescita, pur essendo in un ambiente geograficamente difficile e segnato da grandi problemi di convivenza e distribuzione della ricchezza. La posizione geografica ne fa un centro commerciale importante, con un ricco mercato del bestiame che ogni giovedì, in due località della periferia, richiama gente di tutte le tribù.

La popolazione di Laikipia West sembra povera, ma al mercato il denaro che cambia di mano è tanto. La gente arriva un po’ da ogni parte con mezzi di fortuna o mezzi pubblici per vendere e per comperare. Il giovedì Rumuruti prende vita. Anche i pastori che vanno nelle zone più lontane in cerca di pascolo per le loro greggi vi tornano per il giorno di mercato a vendere qualche animale o a comperare tutto quanto è necessario alla loro famiglia.

Il mercato del bestiame (capre, pecore e mucche) apre presto e chiude presto, e nel pomeriggio l’area è deserta. I mercanti contano i loro soldi, e i pastori, anche se stanchi, si mettono sulla via del ritorno per stare con le loro mandrie. Ma dove depositano i nomadi il loro denaro? C’è una sola banca nel paese, e loro non ci mettono mai piede.

Realtà plurietnica

Rumuruti è una realtà plurietnica con due componenti principali: i gruppi etnici dei pastori, attirati dai grandi pascoli offerti da Laikipia Ovest, e i gruppi degli agricoltori che nella vendita dei ranches hanno visto la possibilità di acquistare terre nuove specialmente per le giovani famiglie, ormai impossibilitate a vivere nei sovraffollati campetti dei loro padri nelle regioni di origine.

Mentre i contadini sono più aperti alla novità e al progresso, le comunità di pastori hanno preservato le loro tradizioni secondo le quali è vitale avere grandi mandrie. Questo fa sì che una famiglia di pastori che acquista un campo, non si accontenti mai di avere un numero di capi proporzionato alla proprietà, ma cerchi di moltiplicarlo sentendosi in diritto di invadere i terreni confinanti quando il proprio è esaurito. Creando così infinite ragioni di conflitto. In più, secondo la tradizione, i morans (i giovani guerrieri) una volta potevano far razzie per accumulare la ricchezza personale necessaria per sposarsi. Quelli che tornavano a casa a mani vuote erano considerati buoni a nulla. Così almeno stavano le cose tra i Samburu, Turkana e Pokot (i gruppi etnici più numerosi). Al giorno d’oggi ci sono ancora residui di questa cultura, i cui effetti si vedono nelle razzie locali, come spiega il presidente del Consiglio parrocchiale di Rumuruti, Emmanuel Achila. I conflitti, però, nascono anche per l’accesso alle scarse risorse naturali quali i pascoli e i pozzi. A questo bisogna aggiungere anche il problema dei confini.

 

Mancanza di istruzione

Secondo padre Nicholas Makau, viceparroco di Rumuruti e incaricato dell’ufficio di Giustizia e Pace dei missionari della Consolata, molta violenza giovanile va attribuita anche alla mancanza di istruzione e di lavoro.

Nonostante che le scuole locali siano tra le migliori, il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso perché molti ragazzi di età scolare sono obbligati dalla famiglia a occuparsi del bestiame. Per troppi genitori la ricchezza materiale è più importante dell’istruzione. Altri lamentano che gli studi creano dei giovani ribelli alle tradizioni e mettono idee strane nella testa delle ragazze, in più studiano senza scopo, perché poi non trovano lavoro.

Ignoranza e mancanza di lavoro certamente alimentano le tensioni tribali. Le tribù in cui l’istruzione è ben avviata godono di maggior prestigio. È un fatto, quando si cerca impiego, soprattutto negli enti governativi, chi è andato a scuola è avvantaggiato sugli altri. È facile, allora, vedere che le comunità i cui figli studiano fanno la parte del leone sul mercato del lavoro.

Ma la mentalità degli anziani vuole che le opportunità di impiego siano distribuite proporzionalmente secondo l’appartenenza etnica e non secondo il merito. E qui sta il nocciolo di tanti altri problemi. David Koskey, un membro del «Comitato per la Pace» della missione, ne fa notare l’incongruenza: «La polizia sta per reclutare nuove leve. Secondo gli anziani deve essere arruolato un numero uguale di giovani da ogni tribù per mantenere l’equilibrio». Il rischio è di avere poi dei poliziotti completamente analfabeti e impreparati al loro servizio. Ma una distribuzione di impiego etnicamente non equilibrata genera una disuguaglianza politica, in cui i gruppi più forti tentano di limitare lo sviluppo degli altri.

 
Sedentarizzare

La Chiesa cattolica di Rumuruti incoraggia da sempre i nomadi a diventare sedentari, prendersi un pezzo di terra e imparare l’agricoltura così da ridurre la loro dipendenza dal bestiame. Un certo numero di nomadi ha già cominciato a fare così, per quanto strana sembri la cosa. La Chiesa è intervenuta ad aiutare le vittime della violenza esplosa nel post-elezioni a risistemarsi, altre famiglie hanno acquistato terra diventando azionisti di società create apposta per aquistare i latifondi messi in vendita. Tante vittime della violenza che fece seguito alle elezioni del 2007 trovarono rifugio temporaneo nel recinto della parrocchia, ma dopo l’acquisto di cento acri di terreno la missione poté rilocarne 1.500 di cui la maggioranza ora si dedica all’agricoltura. Padre Makau ci dice che rimane ancora il problema di molti acquirenti che non riescono a prendere pieno possesso delle fattorie, per il fatto che i loro padroni legali non sono presenti e non si sa dove trovarli, per cui la transi-zione di proprietà non può essere completata.

Altri conflitti sorgono quando gli animali dei nomadi invadono i campi dei coltivatori distruggendone il raccolto. Oltre all’invasione accidentale di animali domestici ci sono anche le visite di animali selvatici. Non pochi agricoltori hanno il loro terreno vicino al corridoio di migrazione degli elefanti che quando passano mangiano tutti i raccolti, golosissimi come sono di granoturco.

A Rumuruti i matrimoni tra membri di tribù diverse stanno aumentando e favoriscono la coesione pacifica contribuendo a modificare la mentalità ancestrale che male accettava queste unioni, soprattutto nei tempi di tensione fra le varie tribù. Elizabeth Lomeno, mezza Samburu e Turkana, è ora sposata a un Luya. È già nonna e assicura che le cose sono ora cambiate e che la gente non teme più di sposarsi fuori della propria tribù. «Personalmente, auguro che le mie figlie e nipoti siano sempre libere di sposarsi con chi vogliono», dice Elizabeth.

 


2.

La Parrocchia della santa famiglia Uscire verso i poveri,
Costruire la pace

di Stephen Mukongi

Da cappella sperduta nella savana a fiorente missione e polo di pace e riconciliazione: l’impresa dei missionari della Consolata di trasformare una regione di grandi contrasti e divisioni in una comunità sul modello della Santa Famiglia (Familia Takatifu), cui la missione è dedicata.

L’ombra degli alberi della parrocchia di Rumuruti offre un sospirato sollievo dalla calura insopportabile del plateau a cavallo dell’equatore. Gli alberi piantati da padre Antonio Bianchi (classe 1922) negli anni Novanta, hanno profondamente cambiato l’ecologia del luogo la cui vegetazione, all’arrivo dei missionari della Consolata nel 1991, consisteva sì e no di una mezza dozzina di alberi del pepe (schinus molle) attorno alla casetta di legno in cui abitavano.

Rumuruti è oggigiorno una parrocchia enorme, con un territorio che da Sud-Ovest a Nord-Est misura oltre cento chilometri, e con ben 27 cappelle sparse nella grande piana semiarida che fa da ponte tra gli altipiani della sviluppata e ricca zona agricola centrale attorno al Monte Kenya e l’arido Nord abitato prevalentemente da pastori nomadi e seminomadi.

Nata come cappella di Nyahururu (una missione fondata nel lontano 1954 dai missionari della Consolata, passata poi ai sacerdoti fidei donum della diocesi di Padova e diventata diocesi nel 2002), quando divenne parrocchia nel 1991 aveva già una bella chiesa in muratura dedicata alla Santa Famiglia (Familia Takatifu) e la casetta dei missionari. Da allora la missione ha conosciuto un continuo sviluppo per rispondere alle necessità del luogo. Al presente è una piccola cittadella che comprende un centro pastorale per gli incontri di formazione dei catechisti e dei vari operatori pastorali e leader comunitari, un asilo, una modea scuola con elementari e medie, la scuola secondaria femminile, il dispensario, il convento delle suore Dimesse (fondate a Vicenza nel 1579 dal venerabile Antonio Pagani), la falegnameria, un’officina, un grande orto, diversi campi da gioco, un salone polivalente, più l’indispensabile pozzo per dare acqua potabile a tutto il complesso.

 

Sviluppo umano integrale

Il territorio in cui opera la missione è caratterizzato da tutte le speranze che la frontiera ispira ma anche da tutti i drammi e le conflittualità che una società in continuo cambiamento si porta dietro, accentuate da una natura apparentemente suggestiva ma in realtà segnata dai capricci del tempo, per cui improvvise o prolungate siccità possono distruggere i raccolti o alterare gli equilibri tra pastori e agricoltori. La regione è costantemente provata da tanti mali: razzie di animali, diffusione di armi leggere, povertà endemica, pratiche tradizionali come la mutilazione genitale (che non giunge agli estremi dell’infibulazione) delle donne e i matrimoni precoci, mancanza di abitazioni adeguate, insufficienza di servizi sociali educativi e sanitari, corruzione, stato precario delle strade e insicurezza.

Questo spinge la Chiesa a darsi come compito prioritario la formazione umana e lo sviluppo sociale, come dice padre Mino Vaccari, parroco dal lontano 1994, quando padre Luigi Brambilla, primo missionario della Consolata a Rumuruti, fu trasferito a Nairobi. Suo aiutante attuale è il keniano padre Nicholas Makau, succeduto ai padri Antonio Bianchi, grande pollice verde, Domenico Galbusera (classe 1930) e Juan Puentes (colombiano del 1946, deceduto prematuramente nel 2010).

 
La scuola

Nel programma di sviluppo primeggia l’educazione con la costruzione di scuole, allo scopo di aiutare la popolazione a diventare attiva nella lotta alla povertà. Si comincia con l’asilo perché, se si prendono i bambini fin da piccoli, si mettono delle basi serie per la loro crescita. Poi con la scuola ci deve essere il collegio perché molti ragazzi arrivano da zone molto distanti oppure sono figli di nomadi che si spostano di continuo. Il collegio riesce anche a garantire quell’alimentazione adeguata che troppe famiglie molto povere o impoverite non riescono a provvedere.

L’asilo Familia Takatifu, accanto alla chiesa, è stato una delle prime opere costruite per preparare i piccoli alla scuola primaria. Oggi tutte le 27 cappelle hanno il loro asilo che di domenica serve anche come cappella.

Costruire le scuole è stato relativamente «facile», tenendo conto dell’ampia rete di amici e benefattori che si è creata attorno alla missione. Non così facile è invece far sì che i bambini frequentino regolarmente la scuola. Moltissimi genitori non capiscono ancora i benefici dell’istruzione e ignorano la legge del paese che prevede la scuola obbligatoria per tutti. Presi dai problemi di sopravvivenza, se mandano i figli a scuola, si aspettano che lo stato o la Chiesa li mantengano e li educhino gratuitamente.

Anne Munyi, la segretaria della parrocchia, conferma che oggi la missione aiuta circa mille studenti indigenti, di cui venti sono all’università, una quarantina frequentano varie scuole superiori, una quindicina le scuole tecniche, mentre la maggior parte sono ancora nella scuola primaria o matea. Anne spiega che il programma di aiuto scolastico si occupa delle necessità primarie dei ragazzi, ma quando ci sono situazioni disperate si occupa anche delle loro famiglie.

 

Un modello da imitare

La scuola elementare Familia Takatifu, iniziata con la prima classe nel 1997 come evoluzione necessaria dal primo asilo parrocchiale, è il fiore all’occhiello della missione ed è diventata modello da imitare per tutte le altre scuole dell’area. Quando nel 2005 partecipò per la prima volta agli esami nazionali dell’ottava classe (equivalente alla nostra terza media, ndr), si qualificò terza tra le altre duecento primarie di tutto il distretto, come attesta Peter Mbugua, preside della scuola. Nel 2013 ha migliorato ancora salendo al secondo posto.

Il professor Mbugua attribuisce il successo all’impegno del corpo docente e alla buona disciplina degli scolari. Fa notare quanto la Chiesa abbia contribuito al miglioramento di Rumuruti e riconosce a padre Vaccari il merito di aver voluto la struttura per l’istruzione dei figli della gente locale. «Come questa, anche le altre scuole sostenute dalla parrocchia, hanno validamente contribuito ad affrontare i tanti problemi che ancora sfidano la comunità, come la povertà endemica, l’analfabetismo, e l’ignoranza».

La parrocchia sostiene anche alcune scuole statali. Esempi di questo sono il convitto femminile Maria Consolata presso la scuola di Sosian e il collegio misto di Matigari, pensato appositamente per i figli dei nomadi, per cui la missione ha acquistato il terreno.

Le suore Dimesse dirigono la scuola superiore femminile St. Anthony Pagani che sta davanti alla chiesa parrocchiale. Queste suore, presenti da anni a Nyahururu servivano Rumuruti con una clinica mobile già quando era ancora una semplice cappella. Avendo poi stabilito una sede fissa poco dopo l’arrivo dei missionari della Consolata, ora, oltre alla scuola, dirigono il dispensario della missione e provvedono tanti servizi preziosi per la salute della comunità e nella rete di piccoli dispensari che si vanno creando per rispondere alle esigenze di una popolazione in continua crescita (vedi box).

 
Acqua

La mancanza di acqua potabile è un’altra piaga della regione. La parrocchia ha già provveduto sette pozzi di acqua purificata che garantisce acqua potabile per tutto l’anno. Il primo pozzo fu quello scavato nella missione stessa, profondo oltre cento metri. A esso è collegato un sofisticato sistema di potabilizzazione, perché gran parte delle acque sotterranee di queste aree, che hanno un suolo di origine vulcanica – il grande vulcano spento che è il monte Kenya domina sempre l’orizzonte -, sono molto ricche di fluoro e questo causa gravi problemi ai denti e alla struttura ossea delle persone (osternofluorosi), soprattutto dei bambini.

La parrocchia costituisce anche un punto di riferimento super partes e sicuro, e come tale è diventata il centro di tante attività sociali. L’ampio salone si presta a molteplici attività: campo da gioco per energici toei di pallavolo, teatro per spettacoli scolastici, auditorium per competizioni di cori, sala gioco per bambini, luogo di incontro per riunioni sociali della popolazione locale, dormitorio per i rifugiati, deposito per cibo in periodi di fame e anche magazzino per i fertilizzanti che il governo provvede di tanto in tanto ai contadini del posto.

 

Pace e riconciliazione

La pace e la riconciliazione sono una delle preoccupazioni principali. È prioritario fare di tutto per creare più armonia tra i membri delle varie tribù che vivono in Rumuruti. Ancora di recente (2014) si sono verificati nella zona degli scontri tribali apparentemente pilotati da figure politiche. La tensione è continua e cresce soprattutto in concomitanza di elezioni politiche locali o nazionali.

Durante la quaresima del 2008, oltre 4.000 persone si rifugiarono per mesi nei cortili della missione e nelle aule scolastiche, a causa di scontri e razzie che causarono morti e distruzioni.

Per questo la parrocchia, insieme ad altri gruppi, è seriamente impegnata in attività che promuovano la soluzione dei conflitti e costruiscano una pace duratura sia a Rumuruti che nelle altre zone a rischio. Proprio nel territorio della missione la Conferenza episcopale del Kenya aveva allora acquistato una delle grandi fattorie per sistemarvi più di trecento famiglie che erano state sloggiate a forza dalla loro terra nella Rift Valley durante gli scontri che hanno sconvolto la nazione dopo le elezioni di fine 2007. E la missione, di suo, ha sistemato altre 1.500 persone.

Malgrado i cristiani contribuiscano ai progetti di sviluppo e alle attività ordinarie, la parrocchia è ancora lontana dall’autosufficienza. Senza l’aiuto di una vasta rete di benefattori, l’incredibile sviluppo di Rumuruti non sarebbe stato possibile. E neppure sarebbe possibile quella vasta rete di progetti educativi e sanitari di cui tutti, indistintamente traggono beneficio. «Noi guardiamo ai bisogni della gente, e non alla loro religione», dice con forza padre Mino. «La nostra parrocchia è tutta per i poveri, proprio come vuole papa Francesco».

 


3.

Un universo multietnico Convivere in pace o perire

di Henry Onyango

Una terra contesa da uomini e animali, agricoltori e pastori, latifondisti e senza terra. Ci sono spazi immensi e molte opportunità, angoli di paradiso e distese brulle, ma l’acqua è scarsa e molto dipende dai capricci del tempo. La grande piana che gravita attorno a Rumuruti è una terra di contrasti e tensioni, che hanno già causato morte e distruzioni. L’impegno per la pace e la riconciliazione è essenziale per il suo futuro.

«Ongea lugha ya taifa», parla la lingua della nazione, fu l’invito che padre Mino Vaccari si sentì rivolgere quando, arrivando per la prima volta a Rumuruti, salutò i cristiani in kikuyu, come era abituato a fare a Tetu, vicino a Nyeri, dove era stato parroco per tanti anni. Avrebbe imparato ben presto che la sua nuova parrocchia era abitata da molte comunità provenienti da una ventina di etnie diverse, tutte molto suscettibili a ogni discriminazione tribale.

Rumuruti si trova al centro di un’area abitata da pastori e agricoltori, rinchiusi in piccoli spazi accanto ai grandi latifondi. Nel distretto prevalgono gli agricoltori che occupano altre aree periferiche più fertili, ma nel territorio della missione vivono soprattutto i pastori. Tra questi ultimi ci sono quelli che si sentono i padroni (la «nostra» terra ancestrale, dicono) e trattano tutti gli altri come degli immigrati abusivi. Le razzie di bestiame sono così un metodo convincente per intimidire le comunità arrivate per ultime.

La violenza a volte è tale da tenere in scacco anche la polizia locale. Padre Nicholas Makau pensa che all’origine di questi conflitti si trovino anche pratiche culturali retrograde, mancanza d’istruzione e isolamento. Il padre commenta: «Ci sono giovani che hanno fatto anche l’università, o che sono impiegati governativi, ma quando tornano qui non fanno nulla per aiutare le loro comunità di origine a capire che devono sostenere la pace… ci sono i Turkana che vogliono tagliare tutti gli alberi per produrre carbonella e poi, quando tutto diventa secco, andarsene in altri posti. I Samburu si assicurano i punti di abbeveraggio per i loro animali occupandoli, mentre i Kikuyu e Kalenjin fanno loro guerra per poter usare la stessa acqua per  l’irrigazione dei loro campi. Rifiuto del dialogo e tribalismo intollerante hanno causato morte e distruzione».

 

I Wazee wa Amani

Questa violenza dura da decenni e solo ora alcuni cominciano a capire che non ci sarà modo di sopravvivere se non si accetta di coesistere. Le comunità assistite dalla Chiesa, con l’aiuto di Ong, sono impegnate a lavorare per una pace duratura accettando di controllarsi reciprocamente tramite un comitato locale di anziani col compito di presentare le proprie necessità a un «senato» chiamato Wazee wa Amani, Anziani per la Pace.

David Koskey, uno di essi, conferma che il senato ha già contribuito molto a mettere in moto il processo di pace. «Mentre cinque anni fa membri di tribù diverse si odiavano, oggi le cose sono cambiate per il meglio».

I Wazee wa Amani hanno il compito di prevenire, controllare e risolvere i conflitti facendo dialogare le parti interessate, e monitorando e valutando la situazione. Sono circa settanta anziani, uomini e donne, provenienti da tutto il distretto che si avvalgono di una rete permanente di altri anziani sparsi nei vari villaggi i quali possono facilmente rintracciare il bestiame rubato e provvedere alla restituzione prevenendo in questo modo le possibili vendette.

Lo mzee Koskey dice che collaborano «strettamente anche con gli organi governativi come il Comitato distrettuale per la sicurezza, la polizia locale e il servizio segreto. Ci siamo guadagnati la loro fiducia e così confidiamo che la nostra gente goda sicurezza».

Stando alle parole dell’anziano, l’iniziativa dei Wazee wa Amani ha ridotto in modo significativo le razzie nella regione e assicurato che le varie comunità si proteggano a vicenda. Rimangono ancora piccole trasgressioni, ma senza questa iniziativa le razzie e i conflitti tra i vari gruppi di pastori, e tra questi e i piccoli contadini, avrebbero affondato Laikipia Ovest in un bagno di sangue.

Un cammino lungo

Padre Makau, nel suo realismo, ammette che malgrado gli sforzi fatti resta ancora una mancanza di fondo: non c’è fiducia fra le diverse etnie.

Secondo un ufficiale di polizia le vere razzie che avevano infestato la regione per decenni, ora non ci sono più. Al momento ciò che ancora persiste sono furti di bestiame perpetrati da pochi individui che attaccano qualche casa, soprattutto le più isolate. Dietro queste attività criminali ci sono persone senza scrupoli che pagano della gente locale per rubare il bestiame che poi è venduto a Nairobi o in altre città del Kenya. Il poliziotto, però, riconosce che grazie a una crescente cooperazione delle comunità, attraverso il comitato degli anziani, la polizia può agire con più efficacia nel prevenire i furti e nell’arrestare i colpevoli. Purtroppo non tutti, ancora, cornoperano con le forze dell’ordine rendendo con la loro omertà più arduo il lavoro per garantire sicurezza e pace.

La missione, sostenuta dalla diocesi e dall’istituto della Consolata, è attivamente presente nelle zone dove la violenza è più acuta e dove le forze dell’ordine non osano entrare. Attraverso la Commissione di Giustizia e Pace parrocchiale ha formato i Miviringo ya Mazungumzo ya Amani, cioè i «Circoli di formazione alla pace», e stabilito posti per la discussione pubblica, dove dieci membri di ogni tribù discutono i loro problemi e propongono delle soluzioni.

Padre Nicholas assicura che questi incontri hanno aiutato molto a promuovere la riconciliazione e a superare non poche difficoltà a livello personale e comunitario. Il missionario crede che alla fine, però, saranno i matrimoni misti tra le varie tribù a sanare la situazione. Infatti i matrimoni misti sono in aumento. A Rumuruti risiedono Borana maritati a Kikuyu, Somali sposati con Meru e Pokot con Samburu. Padre Makau conclude: «Alcuni di questi matrimoni misti mi hanno molto sorpreso, perché hanno messo insieme persone di tribù che prima si odiavano profondamente».


4.

Nomadismo e Lavoro Minorile
Una Silenziosa Minaccia

di Lourine Oluoch

Per uno che viaggiasse nelle vaste pianure del Laikipia, non sarebbe difficile incontrare qualche ragazzino o ragazzina sui nove, dieci anni, che, invece di essere a scuola, sta pascolando centinaia di pecore e capre. Non sempre il bestiame è di proprietà della famiglia, spesso il ragazzo è alle dipendenze di qualcuno per questo lavoro.

Le comunità dei pastori nomadi in Kenya hanno tradizioni, come il far sposare ragazze ancora minorenni, la mutilazione genitale e le razzie di bestiame, che fanno a pugni con lo stile di vita di una società multietnica, scolarizzata e sedentarizzata. Ma oggi c’è un altro male silenzioso che sta emergendo, proprio come conseguenza dell’incontro-scontro tra due modi di vita contrastanti, quello tradizionale e quello moderno: il lavoro minorile.

Ogni anno all’apertura della scuola, a gennaio, ci sono presidi che non sono mai sicuri se tutti i loro allievi ritorneranno sui banchi di scuola. Lo stesso accade all’inizio di ogni trimestre a maggio e settembre. La scuola di Matigari, diretta dal professor Hosea Ole Naimado (un maasai), è una primaria mista del tutto speciale nel distretto di Laikipia West. È stata pensata per aiutare i figli dei nomadi dando loro vitto e alloggio mentre le loro famiglie si spostano seguendo le mandrie. Per il preside questa incertezza è causa di grave preoccupazione per il corpo insegnante. Ragazzi e ragazze molto intelligenti, che sono stati nella scuola per un intero trimestre, al successivo non si ripresentano. Potrebbero essere andati in Samburu, a Baragoi o Isiolo (località a oltre 100 km di distanza) seguendo il bestiame di famiglia, ed essere impossibilitati a tornare. Il preside racconta di avere avuto una ragazzina brillante in prima media, era la capoclasse. Ora è scomparsa, e non c’è verso di rintracciarla.

Dove vanno a finire questi ragazzi? Il professore risponde sconsolato: «Per le ragazze c’è il matrimonio precoce; per i ragazzi, invece, se dopo l’iniziazione (il rito di passaggio che li rende moran – guerrieri, ndr) non riescono a mantenersi, si offrono per lavori dipendenti, anche mal pagati, perdendo la possibilità di ricevere una buona istruzione. Crediamo che tutti – volontariamente o forzati dalla miseria – si mettano a lavorare. I ragazzi si prestano a fare qualsiasi tipo di lavoro. Lungo i fiumi dove fiorisce un po’ di agricoltura, è facile vederli lavorare nelle coltivazioni. Sono lavoratori che costano poco».

C’è tutto un mercato per il lavoro minorile. I ragazzini poveri, che non si possono permettere il convitto, sono facilmente indotti a servire come pastori dalla stessa famiglia o da altri. Molti lasciano la scuola per il lavoro non perché non vogliano studiare ma per far fronte alle necessità della famiglia.

«È triste per gli insegnanti perdere degli studenti all’inizio di ogni nuovo semestre e non sapere dove siano finiti. Si può allora capire perché ci pensino due volte prima di lasciare andare a casa uno scolaro a prendere del denaro sia per la tassa scolastica o per comperarsi cose necessarie alla scuola. Il rischio più grande è che il bambino non torni più. Se ci si appella ai genitori, la risposta è che non hanno mezzi sufficienti per mantenere il figlio o la figlia a scuola. Così ci sono insegnanti che spesso si sobbarcano anche le spese del ragazzo: quadei, matite, divisa, e perfino le scarpe», dice la signora Jane Ndegwa, preside della scuola a Simotwa. Succede così che i genitori lascino che i figli frequentino la scuola solo se tutto è gratuito. In questo modo l’alunno diventa in tutto dipendente dall’insegnante o da chi lo aiuta.

Anche Peter Mwangi, incaricato distrettuale per i giovani di Laikipia Ovest, riconosce che la gioventù della regione non ha buoni modelli da seguire: «I ragazzi non trovano nella loro comunità esempi da emulare e con cui identificarsi. Anche le figure politiche locali, quando sono invitate a venire a parlare ai ragazzi, come durante la giornata internazionale della gioventù, evitano il problema. Noi vorremmo che appoggiassero di più il nostro progetto educativo e che dicessero chiaramente alla comunità di finirla con tradizioni arretrate e di impegnarsi di più ad aiutare i loro figli a ricevere l’istruzione di cui hanno diritto per migliorare la loro vita».

Peter Mwangi fa pure notare che i bambini soffrono per la negligenza dei genitori che per ignoranza valutano di più il lavoro che i piccoli possono svolgere a casa che non l’educazione. «L’ottanta per cento della comunità non ha un vero lavoro: o sono pastori nomadi oppure lavoratori avventizi. Nonostante tutto, non si deve dimenticare la Sezione 53 della Costituzione che stabilisce in modo chiaro che i genitori hanno l’obbligo di provvedere per i loro figli. La scusa che non hanno lavoro fisso non tiene, infatti riescono a provvedere alle loro necessità giornaliere e potrebbero risparmiare qualcosa anche per i loro figli». Purtroppo la comunità è anche affetta dalla sindrome di dipendenza ed esige di essere aiutata appena ne vede l’opportunità.

 

Pensata per i nomadi

La Chiesa, per loro fortuna, si è fatta avanti, e per aiutare i bambini dei pastori nomadi ha comperato il terreno dove il governo ha costruito la scuola di Matigari. «Questa è la sola scuola pubblica con convitto nella regione, aperta soprattutto ai bambini maasai, samburu, turkana, pokot, somali e borana. Non ci sono solo gli scolari che risiedono al convitto, ma anche quelli che, vivendo vicino, possono andare e venire dalle loro case».

Nelle vicinanze della scuola si è già stabilita una piccola colonia di nomadi che non potendo pagare le tasse scolastiche hanno costruito le loro capanne permettendo ai figli di venire a scuola senza stare nel convitto. I piccoli sono accuditi dalle nonne mentre i genitori si spostano con gli armenti in cerca di pascoli. Il direttore, che è padre e insegnante, insiste sul fatto che in questa area è urgente soccorrere i bambini che per ragioni varie non vanno a scuola. «Il ragazzino che si deve fare una decina di chilometri per venire a scuola o all’asilo va aiutato. I bambini vogliono imparare ma la povertà è un grosso ostacolo per loro. Se qualcuno potesse aiutarli ad entrare nel convitto, potrebbero essere salvati».


5.
Curare gli infermi
di Cynthia Awor

I pastori nomadi hanno sempre creduto nell’efficacia della medicina tradizionale e nell’uso di erbe medicinali. Ma non tutto si può curare con esse, e allora normalmente sopportano i loro mali in silenzio e solo quando non ne possono più cercano aiuto all’ospedale della missione. Questo è ciò che ci dice suor Anna Muturi (nella foto), delle Suore Dimesse, che dirigono il Dispensario Cattolico a Rumuruti.

Le Suore Dimesse aprirono il Dispensario di Rumuruti nel 1992. Suor Anna dice che «in questa area c’era veramente un grande bisogno di un centro per la salute, così la missione pensò all’ospedaletto che assiste gioalmente i malati. Ogni primo giovedì del mese offriamo servizio oculistico e odontoiatrico. Abbiamo pure un reparto di maternità e pediatria».

Secondo la suora il servizio che il dispensario offre, incontra molti problemi, non ultimo quello finanziario, perché la gente pensa che essendo il dispensario cattolico, i servizi debbano essere gratuiti. Naturalmente tutti gli ammalati vengono curati, e nessuno viene mandato a casa senza essere stato esaminato. Spesso però si presentano persone che, oltre alle medicine, hanno bisogno di altro e allora, quando si può, il dispensario provvede per i più poveri anche vestiti e cibo. Suor Anna dice: «Un gran numero di infermi soffrono di depressione. Allora li ascoltiamo e consigliamo. Parliamo loro di Dio e diamo loro informazioni su come migliorare la loro salute. Questo è il nostro modo di evangelizzare». L’orario del dispensario è molto flessibile e sempre le suore rispondono alle emergenze, sia di giorno che di notte, e sovente perfino durante le funzioni religiose.

In Thome, a sedici chilometri da Rumuruti, c’è un altro piccolo dispensario con tre letti e con un piccolo reparto maternità. È stato fatto nel 2011 grazie all’aiuto di un gruppo di medici italiani di «Africa nel Cuore» che hanno voluto sostenere gli sforzi della missione. Il dispensario ha allargato oggi i suoi servizi in altri settori: una falegnameria, un allevamento di galline, un orto sperimentale e un servizio di acqua potabile.

Ambedue i dispensari, Rumuruti e Thome, offrono servizi di prim’ordine: consulte, analisi, accertamenti, distribuzione di farmaci, e fa l’impegnativa presso altri ospedali regionali nei casi più complessi. Sono dotati anche di farmacie ben foite, grazie all’aiuto di amici e Ong. Ogni dispensario è servito da un’infermiera, un farmacista e un tecnico di laboratorio. Occasionalmente si uniscono anche i medici italiani. Per il futuro, Suor Anna vorrebbe anche un reparto maternità più ampio, in quanto gli ospedali del distretto sono inadeguati e tante donne devono andare fino a Nyahururu.

Questi dispensari cattolici sono orgogliosi dei servizi che offrono alla gente; non trattano solo corpi ma in primo luogo persone. Costituiscono un investimento per il futuro e aiutano a creare stabilità sul territorio. Il loro contributo non si può valutare solo in termini economici, ma va visto e misurato soprattutto col numero di vite che toccano e migliorano.


6.
Un uomo, una missione

Dopo 55 anni di servizio missionario, padre Vaccari è ancora sulla breccia. Con il suo passo quieto, il cuore grande, l’occhio attento ai bisogni delle persone e la capacità di dar fiducia ai collaboratori, continua a camminare con la gente di Rumuruti nell’ostinata ricerca della pace, non fondata sulle promesse dei politici, ma su Cristo Gesù, il solo che può far di tutti un’unica famiglia.

Francesco (per la Chiesa) Mino (per il comune) Vaccari, nato nel 1930 a Baiso (Reggio Emilia), entra ragazzino nei missionari della Consolata il 1° ottobre 1942, durante la guerra. Ordinato sacerdote nel 1959, arriva in Kenya il 28 agosto 1960. Apprendista di lingua e cultura kikuyu a Kiangoni nel Nyeri, conosce due missionari speciali che saranno suoi modelli di vita: padre Enrico Manfredi (1896-1977), vero «uomo di Dio», e padre Bartolomeo Negro (1903-1967), l’«uomo di tutti», che voleva un gran bene alla gente. Nel 1962 è mandato a Nyahururu (sull’equatore) con l’incarico di cornordinare le scuole. Vi rimane fino al 1969, vivendo il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, e lascia il posto a don Luigi Paiaro, sacerdote fidei donum di Padova, che nel 2003 diventerà il primo vescovo di Nyahururu con l’omonima diocesi che comprende la Nyandarua County e il distretto di Laikipia West.

Nel 1970 è trasferito a Tetu (fondata nel lontano 1903), una missione dalla gente «difficile» (si diceva allora), ma non povera, perché grazie alla fertilità dell’ambiente tutti hanno il necessario per vivere. Sono gli anni del post-concilio, tempi di contestazione, sì, ma soprattutto rinnovamento.

Lui, missionario sbarazzino (come lui stesso si definisce), ma dal carattere quieto e tollerante, si butta nella pastorale parrocchiale affascinato dalla nuova visione conciliare di Chiesa «popolo di Dio». Il confronto spirituale con altri missionari amici e l’amore dato alla gente e ricevuto in cambio, lo aiutano a superare anche i momenti più difficili. Rimane a Tetu 17 anni, fino all’87, godendo anche dell’amicizia e stima del vescovo di Nyeri, mons. Cesare Gatimu. Visita tutte le famiglie casa per casa, promuove le piccole comunità cristiane, forma catechisti, leader e animatori della liturgia domenicale e costruisce ben 22 cappelle periferiche, il tutto grazie alla capacità di coinvolgere persone e comunità nel cammino.

Eletto superiore regionale del Kenya nell’ottobre 1987, serve per due mandati e a fine 1993 è nominato parroco di Rumuruti facendo staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939), eletto vice superiore regionale. Abituato a parlare kikuyu, a oltre sessant’anni deve imparare sul campo il kiswahili, la lingua franca necessaria in quella realtà multietnica. L’impatto iniziale è duro: isolamento, comunità sparse, grandi distanze, mancanza di strade, povertà, molti rifugiati interni con tanti orfani, nomadismo. È la missione di frontiera, ai margini delle fiorenti comunità cristiane del Nyeri e del Nyandarua, terra di conflitti e conquista. Si rimbocca le maniche cominciando dalla formazione dei catechisti e focalizzandosi su quello che è più urgente: l’educazione e la lotta alla povertà per costruire una comunità cristiana che viva in pace. Ma non fa tutto da solo, con la sua pacatezza riesce a mobilitare una marea di collaboratori sia in loco che in Italia, soprattutto nelle generose terre dell’Emilia e della Brianza.

Dietro la storia di queste pagine c’è lui, un missionario d’azione e di poche parole. Uno che fa bene il bene, senza far rumore.

Gigi Anataloni

The Seed e Gigi Anataloni




Quaresima (in)differente?

Nel messaggio di Quaresima, papa
Francesco, con la sua usuale franchezza, ci invita a confrontarci con una
malattia che ci sta distruggendo dal di dentro e sta alterando i nostri
rapporti con noi stessi, con gli altri e con Dio: l’indifferenza. «Succede che
quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli
altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le
loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade
nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di
quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha
preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una
globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani,
dobbiamo affrontare», scrive papa Francesco.

L’indifferenza è micidiale: non fa vedere, non fa sentire e non fa parlare.
Rinchiude ciascuno nel proprio mondo e il resto non esiste più. Più facile
ignorare che lottare contro il male. L’altro, il diverso da me, ciò che è fuori
dai miei interessi, non mi riguarda. Che pianga o rida, sia libero o schiavo,
sano o malato: se non esiste, perché preoccuparmi?

Il mio cellulare costa milioni di morti in Congo? I miei vestiti sono
confezionati da schiavi? Le mie patatine sono cotte in olio ricavato da palmeti
che distruggono le foreste? Il contadino che coltiva i miei fiori preferiti
lavora senza protezioni e ha un salario da fame? La benzina per la mia auto
finanzia il fondamentalismo islamico? La famiglia è attaccata da tutte le parti
nel nome della non discriminazione, dei diritti, del gender? L’aborto, che è
omicidio, è presentato come un diritto che esalta la dignità della donna?

Non mi riguarda; non ci posso far nulla; così è la vita; il mondo
cambia, bisogna adeguarsi.

«L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione
anche per noi cristiani», ricorda il papa. Da qui la sua proposta di reagire a
tutti i livelli: di Chiesa, di comunità locale e di persona.

Non voglio ripetere qui quello che il
pontefice scrive molto meglio di me. Mi permetto solo di condividere due
considerazioni che faccio anzitutto per me stesso. Per vincere la battaglia
contro l’indifferenza occorrono conversione e resistenza. Conversione
come confronto continuo della propria mentalità con i parametri del Vangelo, resistenza
come capacità di impegno quotidiano fatto di proposte e scelte controcorrente,
non omologate e non scontate.

«Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15), sono le prime parole
di Gesù nel Vangelo di Marco, un invito a modellare il nostro modo di essere su
di Lui, secondo le sue priorità, il suo stile, il suo modo di «uscire» verso le
persone. Conversione è allora rivoluzione. Infatti anche solo la pratica
dei tre punti focali del Padre nostro (1. Dio al centro / la sua volontà;
2. uso «povero/sobrio» dei beni di questo mondo / pane di ogni giorno; 3. amore
per gli altri / perdono; gli stessi punti richiamati nella liturgia del
Mercoledì delle Ceneri: preghiera, digiuno, elemosina) manda a ko
l’egocentrismo, l’accumulo di risorse e il consumismo che ci paiono normali e
necessari, e l’orgoglio e la litigiosità senza fine di cui sono ammalate le
nostre relazioni. E così, sono scalzate le radici stesse dell’indifferenza. La
conversione obbliga a creare relazioni, a uscire da sé, a incontrare le
persone, a pensare, sognare e agire con gli altri: l’altro diventa parte della
propria vita e la propria di quella dell’altro. Il riferimento non è più l’io,
ma il noi, non il mio, ma il nostro.

E resistenza. Per non lasciarsi scoraggiare, per non soccombere
al suadente grigiore della normalità, che in teoria lascia liberi di fare tutto
quello che si vuole purché si continui a consumare sempre di più per mantenere
un sistema che arricchisce pochi alle spese di miliardi di «schiavi felici».
Resistere è prendere coscienza, interessarsi, approfondire ed essere testimoni.
Resistere è prendere posizione per la verità, la luce, il bello,
l’autenticamente umano e quindi autenticamente divino. Con tre armi «pesanti»:
fede, amore e speranza, come dice san Paolo in 1Tess 5,8.

Non diciamo che siamo immuni all’indifferenza. La lotta è appena
cominciata. Per questo preghiamo Cristo in questa Quaresima insieme a papa
Francesco: «“Rendi il nostro cuore simile al tuo”. Allora avremo un cuore forte
e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e
non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza».

Gigi Anataloni