Incontro con il
popolo Nasa e la sua filosofia di vita
Nel villaggio di
Toribío la popolazione resiste da decenni alla guerra. Lo fa in modo pacifico e
recuperando la sapienza ancestrale del popolo Nasa. La spiritualità indigena
che dà un senso a ogni cosa e mette al centro la relazione uomo-natura-Dio. I
Nasa fanno la proposta del Buen vivir
al mondo. Valida per tutti, in ogni contesto.
Non
molto alti, un po’ tarchiati. Volti dai lineamenti indigeni. Uno di loro ha un
cappello di paglia sempre in testa e baffetti radi. Parla con un filo di voce e
si esprime soprattutto nella sua lingua, il
nasayuwe. L’altro, più giovane, spigliato, ha un’ottima parlantina in
spagnolo.
Elicerio Vitonas Talaga e Diego Feando Yatacue Ortega
provengono da Toribío, nel Sud Ovest della Colombia, dipartimento del Cauca.
Entrambi fanno parte del popolo indigeno Nasa, che rappresenta il 96% della
popolazione cittadina (circa 26.000 abitanti). Dagli anni ‘80 la zona è
divenuta uno dei principali scenari del conflitto armato tra i gruppi
guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e milizie
paramilitari. Il popolo Nasa ha deciso di non abbandonare il territorio,
rafforzando la propria organizzazione e cercando di opporsi alle violenze e
alle intimidazioni attraverso una modalità di resistenza pacifica e negoziata
alla guerra.
Elicerio è un «Mayor», cioè un Maestro, un saggio,
custode delle tradizioni spirituali Nasa.In Colombia i popoli originari hanno sviluppato, nel
corso di migliaia di anni, una relazione profonda con la natura, imparando a
conoscee i segreti e a vivere in armonia con gli esseri viventi che ne fanno
parte.
Diego è direttore generale del Cecidic, il Centro di Educazione, Formazione e Ricerca per lo Sviluppo
Integrale della Comunità di ToribÍo. Ha ricoperto vari ruoli nei tre «cabildos
indigenas» (comunità indigene) di Toribío, Tacueyo, San Francisco, e a
beneficio del «Plan de vida» del popolo Nasa. Dopo aver diretto la Scuola
agroecologica indigena del Cecidic, da nove anni è il primo responsabile del
centro.
Li abbiamo incontrati durante una loro visita in Italia.
Il viaggio si è svolto nell’ambito del «Progetto Nasa» in appoggio alla scuola
agricola del Cecidic. Il progetto, che ha come obiettivo l’autonomia alimentare
ed economica della popolazione Nasa, vede coinvolta anche Missioni Consolata
Onlus, in partenariato con le Ong Cisv (Comunità impegno servizio volontariato)
e Msp (Movimento sviluppo e pace) di Torino. In effetti dal 1985 la parrocchia
di Toribío è gestita dai missionari della Consolata, i quali accompagnano il
popolo Nasa.
Che relazione c’è tra
l’agroecologia e il Buen vivir?
«L’agroecologia, indipendentemente da dove abbia avuto
origine, ci sembra un approccio alla vita importante, interessante. Essa
coniuga non solo lo sviluppo umano con quello economico, ma anche con il
rispetto della natura. Sono i tre aspetti della politica agroecologica, che
raggruppa una serie di proposte e strategie e accomuna esperienze di svariati
popoli nel mondo.
L’agroecologia ha molte relazioni con le proposte del Buen vivir del
popolo Nasa. Innanzitutto perché l’agroecologia riprende il concetto di
conservazione (dell’ambiente in senso globale) molto forte nel popolo indigeno.
Ma, dato che la visione indigena è fortemente spirituale, il popolo Nasa rileva
nell’agroecologia proprio una prospettiva di spiritualità. Attenzione, con
spiritualità non intendiamo religione. Per noi la spiritualità consiste in una
profonda relazione con la natura.
Il Buen
vivir, nascendo dalla spiritualità indigena, si basa
su tre principi: il primo è che tutto ha uno spirito, che ci sono spiriti che
ci aiutano e che l’uomo deve relazionarsi anche con essi; un secondo principio è
l’importanza del rispetto per la natura, per la Madre Terra; un terzo punto è
la sovranità alimentare, la produzione di cibo per la gente.
Nella realtà di oggi, si viene ad aggiungere la necessità
di disporre di risorse economiche, ma nel rispetto di questi principi.
L’agroecologia è una parte della proposta politica del
popolo Nasa.
In ambito sociale è molto importante la relazione con
gli altri popoli, non solo indigeni, ma afro, contadini e società civile in
genere».
Il Buen vivir che proposta è?
«Più che una politica il Buen vivir è un
modo di vivere, che vuole dare una risposta non solo ai bisogni materiali
dell’uomo, ma anche a quelli spirituali. Se diamo risposte solo alle questioni
umane sviluppiamo unicamente il concetto di economia. Associare all’economia la
prospettiva spirituale, dà un senso più ampio al Buen vivir, che
non si basa sugli aspetti materiali, ma parte dal fatto che noi non siamo i
padroni del mondo, siamo parte del mondo. Inoltre non è una proposta politica
per un solo popolo, ma è piuttosto una proposta condivisa con altri popoli, per
questo tollera e rispetta la differenza. Condividiamo alcuni principi
fondamentali con molti popoli originari e organizzazioni della società civile,
che stanno cercando un’alternativa al modello di sviluppo dominante.
Direi che fa parte della proposta l’idea di “non andare
avanti”, almeno non come ci hanno abituati. Non come l’Occidente vede lo
scorrere del tempo, ovvero in modo lineare. Il Buen vivir ci impone di
fermarci nel cammino, o di andare avanti senza tanta fretta, per poter pensare oggi,
sognare il futuro, sempre ricordando e dando uno sguardo al passato. Quando
parliamo di spiritualità, in pratica stiamo richiamando il passato. Spiritualità
è anche chiamare gli spiriti della natura, i nostri antenati, i nostri
famigliari. Il Buen vivir ha una differenza con l’approccio occidentale: non
bisogna correre. Forse perché c’è una differenza di ideali di vita».
Una proposta
alternativa, ma come realizzarla?
«Anche tra la nostra gente c’è varietà di modi di
pensare. Si può dire un modo diverso per ogni persona. Ci sono due questioni
storiche di cui tenere conto. Da un lato l’esistenza del cattolicesimo, che ha
formato la maggioranza del nostro popolo, e dall’altro la modeità. I nostri
giovani sono molto coinvolti dalla tecnologia, dai mezzi di comunicazione.
Per questo per noi è fondamentale quello che chiamiamo
“fare coscienza”. Non è obbligare, perché altrimenti si ottiene il contrario,
ovvero una insensibilità a questa realtà. Si tratta di una costruzione
collettiva, nella quale insieme pensiamo, riflettiamo, e, sopra questo pensare
insieme, “facciamo coscienza” sull’importanza del Buen vivir. È
quindi un lavoro lento, dispendioso, e non convince in modo immediato tutti.
Per questo dico che c’è differenza di pensiero. Ma è importante la coscienza
collettiva, ovvero avere un gruppo di persone che rendono dinamico il Buen vivir.
Grazie a questo, molte altre persone si avvicineranno alla proposta. Comprese
alcune che sono di religione cattolica o evangelica.
Ci sono poi anche le appartenenze politiche. Noi siamo
apolitici come gruppo, ma possiamo affermare che ci sono compagni indigeni che
hanno posizioni politiche distinte. Quando parliamo del collettivo del Buen vivir,
sogniamo come ci vediamo nel futuro, come comunità, e penso che non ci sia
distinzione di colore politico o posizione religiosa. Diventa molto importante
la proposta filosofica che fa il popolo Nasa».
La vostra
organizzazione come fa per «fare coscienza»?
«Nei 30 anni in cui la comunità si è organizzata, si è
sempre parlato della coscienza della gente a partire dall’aspetto comunitario.
Voglio dire che abbiamo sempre fatto uno sforzo rivolto all’essere umano, alla
persona, che forma un collettivo. La missione del Cecidic si è concentrata
sull’educazione. Sviluppare proposte che generino questa coscienza collettiva,
da differenti punti di vista. Parlare dell’aspetto comunitario, vuol dire
parlare dello sviluppo dell’essere umano, del pensiero politico, delle
tradizioni. Per questo il Cecidic realizza corsi, spazi di formazione per i
giovani. Un corso importante è quello di agroecologia, nel quale abbiamo un
progetto con Cisv, Msp e Missioni Consolata onlus. Poi c’è il corso artistico e
culturale, quello di comunicazione, formazione politica, educazione e
pedagogia. Sono cinque componenti molto importanti per sviluppare il “Piano di
vita”. Anche se nello sviluppo del Piano di vita del Buen vivir ci
sono altre componenti necessarie oltre alle cinque elencate.
C’è molta partecipazione ai nostri corsi. Se avessimo
maggiori risorse economiche, riusciremmo a formare ancora più persone.
Annualmente accompagniamo più di 1.000 giovani in modo diretto. Invece
indirettamente il Cecidic ha un impatto ogni anno su 5.000 persone nel
territorio».
Quali contatti ci
sono tra il Buen vivir e la religione
cattolica? In particolare, un cattolico può perseguire questo cammino? In
America Latina esiste una teologia (cattolica) indigena, che promuove proprio
il Buen vivir?
«Nella nostra comunità ci sono indigeni che seguono la
spiritualità cristiana sia dei cattolici sia degli evangelici. Ma penso che la
riflessione da fare sia più profonda, ovvero tornare a principi che non pongano
l’uomo al di sopra di tutto. L’uomo in relazione con Dio e con la natura e non
unicamente in relazione con Dio. Come abbiamo detto è fondamentale nel Buen vivir
riconoscere l’esistenza della natura e di tutto quello che abbiamo intorno. E
vedere che tutto ha una spiritualità. Molti compagni indigeni lo fanno. È
quello che vive la maggioranza dei Nasa, come essere umano in relazione con la
natura. C’è poi il sincretismo con la religione cattolica, che si esprime con
la celebrazione di riti, come il battesimo o la comunione».
I Cristiani si
interessano della natura, parlano di salvaguardia del creato. Non solo l’uomo e
Dio, ma tutto l’ecosistema nel suo insieme.
«Per il popolo Nasa occorre andare in profondità:
studiare una proposta a partire da un’epistemologia indigena del pensiero
indigeno originario. Non si può negare che sia presente anche un pensiero
parzialmente non indigeno, formato da principi religiosi (occidentali, ndr), ma è importante
capire che esistono queste due concezioni. Ci sono fratelli indigeni che
praticano molti rituali, vivono la “comunitarietà” (vivere in comune, ndr) e il Buen vivir. I cui
principi non sono nella religione cattolica. Quello che stiamo proponendo nel
movimento indigeno è la ricerca dei principi del popolo Nasa.
Ad esempio: abbiamo subìto 500 anni di conquista
europea. Noi ci chiediamo come saremmo oggi se avessimo avuto 500 anni di
sviluppo non interrotto come popolo Nasa, senza religione cattolica. È una
riflessione molto profonda, e c’è spazio per ricercare e approfondire.
Alcune persone lavorano su questo tema, chiamandolo
“indigenismo”, ovvero prendere dalle origini la proposta indigena, in vari
settori. Ad esempio nell’ambito giuridico, quella che si chiama “giustizia
propria”, poi la “educazione propria”, la concezione della salute, ecc.
Si lavora molto con i “saggi ancestrali”, come don
Elicerio, che hanno esperienza con le questioni spirituali, e hanno una
profondità maggiore di quella degli indigeni cattolici. I guardiani della
“spiritualità propria” sono coloro che, nonostante i 500 anni di conquista,
sono riusciti a tenere tutte le conoscenze e la saggezza (saviduria)
ancestrale, trasmettendola di padre in figlio. È un’eredità che non abbiamo
perso.
Io ad esempio lavoro nell’educazione cercando di
realizzare pratiche pedagogiche e didattiche in direzione della cosiddetta
educazione propria. Io parto dalla conoscenza ancestrale».
Cosa intende per
educazione propria?
«È una proposta del popolo Nasa e di altri popoli
originari in America Latina. Sosteniamo che prima del sistema educativo dello
stato colombiano, prima della conquista europea, noi avevamo un’educazione
derivante dalla nostra maniera di vedere il mondo, la nostra “cosmovisione”.
Facciamo ricerca su come fosse questa educazione prima della conquista, grazie
a elementi che i saggi e le guide spirituali conservano, per partire da lì e
confezionare una proposta educativa nella realtà di oggi, per scuole, collegi,
università. Dal nostro punto di vista possiamo fare una proposta distinta e
focalizzata sui popoli indigeni.
Per fare un esempio: cambiare l’aula o i docenti, per
fare un corso non tra le mura ma nella natura. Chi insegna non è solo la
maestra, ma anche la natura stessa. Leggere in un’altra maniera.
L’educazione superiore che per gli occidentali è
l’università, per noi è un saggio della comunità. Per i parametri occidentali
don Elicerio non ha studiato, ha fatto la seconda elementare. Ma per noi ha una
conoscenza che va oltre a quella che ha un docente universitario. E la sua
sapienza giunge da molta esperienza e conoscenza. Non li possiamo confrontare,
ma vale la pena vedere la differenza».
Un europeo che vive
in Europa può cercare di vivere seguendo il Buen
vivir? Per non indigeni che si ritrovano in quei principi, è possibile?
«Concretamente penso di sì. Perché se i popoli indigeni
sviluppano una proposta del Buen
vivir, altri popoli la sviluppano a partire dalla
loro visione. Non è una proposta per soli popoli originari americani nel loro
contesto. Il Buen vivir lo può ricercare ognuno di noi a partire da quello che è
e dai mezzi che ha.
Credo che popoli come gli europei che hanno camminato
molto nel mondo con il tempo lineare, dovrebbero iniziare a vedere il tempo in
modo diverso. Noi lo vediamo come una spirale, cioè stiamo andando avanti ma
sempre guardiamo ai nostri principi. Gli europei, inoltre, devono iniziare a
vedere il tempo con più lentezza, perché ricostruire una spiritualità richiede
di fermarsi a pensare. Così potrebbero imparare alcune cose da altri popoli,
come quelli indigeni. Ma è una costruzione che devono fare nel proprio popolo,
non copiando un modello, ma riflettendo. Come hanno fatto i Nasa e come io
faccio il mio Buen vivir, nel mio contesto, con il mio popolo, i miei costumi e
i miei principi. È fondamentale capire che ci sono differenze.
Il popolo indigeno non vuole influenzare tutti i popoli
e farli diventare uguali a sè, o fare sì che gli altri pensino come indigeni.
Ognuno parta dal suo contesto, ma che lo faccia considerando i principi
fondamentali. Come quello di non abbandonare la natura. Durante migliaia di
anni l’uomo ha cercato di uscire dalla natura, utilizzarla. Credo che debba
tornare un po’ verso di essa».
MC ha già pubblicato più volte sul Buen
vivir, in particolare in MC 3/2012, p. 55 e nel dossier di MC 10/2014.
Tags: Buen Vivir, Popoli indigeni, agroecologia, spiritualità, Nasa
Marco Bello