Chi finanzia lo
sviluppo? E chi la cooperazione allo sviluppo? Un’istantanea sul flusso dei
finanziamenti ai paesi del Sud del mondo e una panoramica sull’Italia. Con uno
zoom sul ruolo – in crescita – dei fondi privati e un cameo sulle Ong italiane
e l’otto per mille.
Aiuto pubblico allo sviluppo: quanto aiuta?
Centotrentaquattro miliardi di dollari, ecco la cifra che i paesi donatori hanno speso nel 2013 - ultimo dato disponibile - per aiuto pubblico allo sviluppo (Aps): la più alta mai raggiunta. L’incremento, precisa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), è stato di sei punti percentuali rispetto all’anno precedente e la tendenza all’aumento potrebbe essere confermata anche dai dati 2014.
Ma quanto sono 134 miliardi di dollari? Non poco, constata l’Ocse, se si considera che la maggior parte delle economie dei paesi è alle prese con sempre più severi tagli alla spesa imposti dalla difficile congiuntura economica internazionale. Pochino, invece, se li si confronta con i 1.700 miliardi che il mondo destina annualmente alle spese di difesa, o con le altre voci che compongono i flussi di risorse economiche verso i paesi in via di sviluppo. Bisogna moltiplicare per almeno quattro i 134 miliardi di aiuto, ad esempio, per ottenere il totale degli investimenti stranieri diretti nei paesi del Sud del mondo, quelli cioè che sono puri investimenti senza agevolazioni e che vanno rimborsati fino in fondo con gli interessi. Quanto alle rimesse dei migranti, cioè il denaro che i lavoratori immigrati inviano nei loro paesi d’origine, ammontano a più di tre volte l’aiuto pubblico: nel 2014 hanno raggiunto i 435 miliardi di dollari.
Questi paesi, insomma, crescono più grazie ai soldi dei loro migranti e degli investitori stranieri che alla cooperazione bi/multilaterale. Ma è anche vero, notano vari osservatori, che i flussi in sé non inducono automaticamente miglioramenti a infrastrutture, sanità, sistema educativo. Sempre l’Ocse, nel rapporto 2014 sulla cooperazione allo sviluppo, sottolinea ad esempio come le rimesse siano «tradizionalmente percepite come risorse da utilizzare per i consumi diretti (medicine, cibo, automobili, ecc.) più che per investimenti produttivi, e questo può generare dipendenza da ulteriori rimesse». Accanto a casi positivi in cui una correlazione fra rimesse e salute o rimesse e investimenti si è effettivamente registrata, ce ne sono altri nei quali questi flussi di denaro hanno anche creato sperequazioni nella distribuzione del reddito. Evidentemente molto dipende dalle decisioni politiche locali nei paesi beneficiari e dal grado di consapevolezza e responsabilità con cui questa fonte di ricchezza viene gestita. L’aiuto pubblico allo sviluppo ha invece in questi miglioramenti sistemici il proprio principale obiettivo; il dibattito semmai è su quanto efficacemente lo raggiunga.
I primi dieci paesi beneficiari dell’aiuto pubblico allo sviluppo sono l’Afghanistan, con cinque miliardi di dollari, seguito da Myanmar, Viet Nam, India, Indonesia, Kenya, Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia e Pakistan. I dieci principali donatori sono gli Stati Uniti, con 31 miliardi di dollari, seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, Canada e Australia; ma a superare la soglia dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo destinato all’aiuto (fissata dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione del millennio come impegno da realizzare entro il 2015) sono solo Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito.
Un discorso a parte meritano poi i paesi cosiddetti non Dac, cioè non membri del comitato per l’assistenza allo sviluppo dell’Ocse (il cui acronimo in inglese è, appunto, Dac) a cui invece si riferiscono i dati sin qui riportati. Si tratta dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e di una ventina di altri stati fra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Israele, Kuwait. La loro quota d’interventi assimilabili all’aiuto pubblico allo sviluppo perché i criteri per definirlo in questi paesi sono diversi da quelli dell’Ocse - ammonterebbe a quasi 17 miliardi di dollari. L’aiuto fornito da questi stati sembra essere in aumento e il principale donatore è la Cina, con cinque miliardi e mezzo di dollari.
Aiuto privato: a quanto ammonta?
Una fonte di finanziamento per lo sviluppo in forte crescita è data dai fondi privati: organizzazioni non governative, fondazioni, aziende, associazioni non profit. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 questi fondi erano pari a 45 miliardi di dollari, due terzi dei quali provenienti dagli Stati Uniti, il cui aiuto privato allo sviluppo eguaglia quello pubblico. Oltre la metà dei fondi provengono dalle organizzazioni non governative, mentre il resto è diviso abbastanza equamente fra fondazioni e donazioni da parte di aziende. Questo tipo di finanziamento sta ricevendo crescente attenzione da parte dell’Ocse e degli altri enti che si occupano di misurare il polso della cooperazione allo sviluppo. Questo perché, se è vero che la quantità di fondi è relativamente limitata a confronto con i flussi di cui abbiamo parlato prima, è anche vero che - come l’aiuto pubblico e a differenza di rimesse e investimenti - ha come scopo dichiarato proprio lo sviluppo e ha quindi un potenziale molto più elevato di incidere su quello rispetto ad altri tipi di risorse in entrata nei paesi beneficiari.
Si tratta però di una categoria della quale è difficile tracciare contorni chiari sia per quanto riguarda i soggetti, che vanno da colossi come la Bill & Melinda Gates Foundation alle piccole realtà associative, sia relativamente all’impatto e alla tracciabilità dei fondi erogati, cioè a quanto e come questi fondi arrivano ai beneficiari finali. In mancanza di dati certi, è molto difficile inserire questa risorsa nella programmazione degli interventi di cooperazione: se si tratta di un ente come la Gates Foundation, infatti, il suo contributo ai programmi di cooperazione è noto e spesso cornordinato con quello dei partner pubblici. Ma nel caso del volontariato, delle piccole associazioni, delle realtà meno strutturate, la presenza di forme di cornordinamento è molto più episodica. Anche per questo tipo di fondi occorre tener conto dei flussi privati dai paesi non Dac, che ammonterebbero a trentacinque miliardi di dollari.
L’Italia ha destinato in aiuto pubblico allo sviluppo 3,4 miliardi di dollari nel 2013, pari allo 0,17 per cento del proprio Pil e al 2,5 per cento del totale dei paesi donatori. Al contrario della media degli altri paesi donatori, la maggior parte dell’aiuto italiano raggiunge i paesi beneficiari tramite il canale multilaterale: oltre il settanta per cento, infatti, consiste in fondi girati dal governo italiano alle istituzioni inteazionali, specialmente all’Unione europea. L’Italia è il quarto maggior contribuente al budget della cooperazione allo sviluppo comunitaria dopo Germania, Francia e Regno Unito.
Per la parte bilaterale, cioè di rapporti diretti fra il governo italiano e i paesi riceventi, una parte consistente degli 850 milioni di dollari totali è data dall’assistenza ai rifugiati in Italia, pari a 403 milioni. La cancellazione del debito ai paesi beneficiari, anche questa considerata parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo, si è ridotta a poco più di tre milioni di dollari ma nel 2011 era un’altra delle voci più «pesanti»: 648 milioni, il 37% del totale. Tentiamo un’analisi di questo quadro. L’Italia ha certamente fatto passi avanti nel dare credibilità al proprio impegno per lo sviluppo. Come conferma l’esame effettuato dall’Ocse nel 2014, il nostro paese ha invertito la tendenza aumentando il volume dell’aiuto. Ma la limitatezza del canale bilaterale dà l’impressione di un paese al traino, che non ha una propria strategia chiara e si affida più alle agenzie multilaterali che a una propria pianificazione diretta con i paesi beneficiari. Non solo. Assistenza ai rifugiati e cancellazione del debito sono certamente voci fondamentali, tanto più che la seconda vincola in teoria i paesi altamente indebitati a impegnarsi in politiche di riduzione della povertà in cambio della cancellazione. Ma, come sottolineava lo scorso giugno nel sul blog ZeroVirgolaSette il consigliere del Ministero degli esteri Iacopo Viciani, «in passato varie Ong, da ActionAid alla piattaforma Concord, avevano contestato che le operazioni di cancellazione del debito o le spese per sensibilizzare il pubblico ai problemi dello sviluppo globale o quelle per accogliere i rifugiati nel paese donatore o le spese amministrative e di gestione dei progetti fossero registrate come Aps. Non costituirebbero infatti un trasferimento effettivo di risorse al paese». Sarebbe, cioè, una forma di aiuto «passiva» non in grado di incidere sulle cause della povertà e non basata su una effettiva concertazione fra paesi donatori e beneficiari per individuare e realizzare interventi che portino ad esempio a un miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, a un potenziamento delle infrastrutture, a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi che ricevono i flussi di aiuti.
L’aiuto italiano e le Ong
In Italia, riporta l’esame (peer review) Ocse 2014, il settanta per cento dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un dieci-quindici per cento, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali.
È da questi fondi che vengono i finanziamenti per i cosiddetti progetti promossi dalle Ong. Secondo i dati Ocse, l’Italia gestisce attraverso le Ong circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo e la più ampia fetta di questi fondi va a progetti decisi dal donatore istituzionale (ministero) e affidati alle Ong per la realizzazione; meno del dieci per cento resta per i progetti che nascono dall’iniziativa delle Ong.
Per avere un’idea della situazione, basta pensare che la previsione per il 2015 è che il Maeci destini ai progetti delle Ong circa dieci milioni di euro, la stessa cifra che la Chiesa valdese mette a disposizione per la cooperazione allo sviluppo grazie alle entrate che le derivano dall’otto per mille. La Chiesa cattolica, attraverso la Conferenza episcopale italiana, nel 2014 ha allocato 85 milioni di euro alla voce «interventi caritativi nei paesi del Terzo Mondo» (contabilizzati comunque come aiuto pubblico allo sviluppo nei dati che l’Italia fornisce all’Ocse), mentre la Caritas Italiana ha distribuito fondi per dieci milioni di euro di cui otto milioni in programmi di sviluppo e il resto in aiuti d’emergenza e micro-progetti. Quanto alla quota di otto per mille Irpef assegnata allo stato italiano e teoricamente destinata a «fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali», il governo l’ha utilizzata nel 2013 per coprire altre voci di bilancio, mentre nel 2014 ha finanziato quattro progetti per un totale di quattrocento mila euro su 170 milioni di entrata totale dall’Irpef.
La Corte dei Conti ha di recente pubblicato uno studio nel quale si sottolinea che allo stato attuale il meccanismo dell’otto per mille non permette una vera scelta da parte del contribuente: la maggior parte dei fondi derivano di fatto dalla quota inespressa di preferenze, cioè dal denaro dei contribuenti che non hanno messo la croce né sullo stato né su una delle dieci confessioni religiose nella loro dichiarazione dei redditi, ma che vedono comunque la loro quota di otto per mille trattenuta e ripartita secondo le proporzioni determinate dai contribuenti che invece hanno espresso la preferenza. Il profilo che emerge dallo studio è di uno sbilanciamento dei fondi in favore delle confessioni (un miliardo e cento milioni di euro, di cui un miliardo e cinquanta alla Chiesa cattolica) e di uno stato che si disinteressa completamente della propria quota di otto per mille e tradisce così il «patto» con i contribuenti. Ma, al netto del dibattito sulla necessità di ripensare l’otto per mille e di quello sull’utilizzo effettivo dei circa 350 milioni di euro che le Ong gestiscono fra (pochi) fondi pubblici italiani, fondi pubblici europei e donazioni dei sostenitori - questa rivista ha affrontato l’argomento in Carità? Per carità!, MC giugno 2013 -, l’impressione di massima che emerge è quella di una cooperazione italiana che si è sin qui limitata, peraltro con altei successi, a «fare i compiti» abdicando completamente alla possibilità di avere autorevolezza e prestigio sulla scena internazionale attraverso una relazione diretta e costante con i paesi beneficiari e una valorizzazione più decisa della propria società civile.