Malindi padadise! Per chi? (3) 

1. Turismo sessuale, mercato senza frontiere
2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi

3. La diocesi di Malindi contro prostituzione, pedofilia e traffico di persone
4. Per un sorriso: discriminazioni stradali

1. Turismo sessuale, mercato
senza frontiere


Wanja, le altre e gli altri

Il
turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25%
del Pil. Lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle
tradizioni tribali attirano turisti da tutto il mondo. Richiamano grandi
investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti
negativi. Uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera
nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione
alimentata dai facili guadagni. Coinvolgendo anche i minori, sia bambine che
bambini.

A differenza della maggior parte delle ragazze della sua
età, la ventiquattrenne Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come
segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i fine
settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti
che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre crescente di vacanzieri
visita il Kenya specificatamente per sesso, specialmente nelle città costiere
(Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi).

La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età compresa
tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di
riaccendere le loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti con
adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat –
l’organizzazione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
minori – sfata anche alcuni luoghi comuni: soltanto una minima parte dei
turisti sessuali sono patologici, la maggior parte di essi è semplicemente in
cerca di nuove emozioni, approfittando delle situazioni.

Come in molti paesi asiatici e latinoamericani, anche in
Kenya il sesso con minori, sia bambine che bambini, è molto richiesto. Secondo
varie statistiche, sulla costa del paese africano oltre il 30% degli
adolescenti sono coinvolti in modo saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10%
delle ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12 anni. Oltre il 35,5% degli
atti sessuali tra minori e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi.

Se i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti
sono però sotto gli occhi di tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario
comboniano, che ha avviato case per i bambini di strada a Nairobi, ha
raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo la costa nord di Mombasa,
normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della forte presenza di
turisti da quel paese. Era marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo
pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere una birra fresca e siamo stati
colpiti dalle strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi anziani con
ragazze molto giovani o ragazzi adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi
che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro nipoti. Nel giro di poco
tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di
ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere».

Il turismo del sesso si è strutturato in una rete
complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere,
club, bar, sale di massaggio, parrucchieri.

Robert Nyagah, ex giornalista,
oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i
turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come
differenziare una ragazza giovane che sta cercando un compagno per la vita
(turista o no) da una prostituta?».

Eppure, il fascino del turismo del
sesso è reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando
sempre più ragazze – anche sposate – sulla strada della prostituzione. Ci sono
casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per strada «a
offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va
aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è
già in età da matrimonio. La gente locale non capisce quindi dove stia il
problema.

Il commercio non è limitato alle ragazze: anche i
ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti giovani (la maggior parte dei
quali ha interrotto la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite stringendo
amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per
attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni che cercano sesso,
principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate dal mito
della potenza sessuale del maschio africano e arrivano promettendo ai giovani
keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi.

Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche una
prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano
le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in realtà vogliono reclutarle
per l’industria del sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e costrette ad
avere rapporti con clienti sotto la supervisione dei loro «datori di lavoro».

Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il
turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche.
Troppi sono i soldi in gioco.

redazione MC

* Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in
Kenya», pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight against
child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin news, 28 aprile 2011 e da
www.ecpat.net.

2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi


Ammaliatrici ammaliate

Storie
di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di Malindi. Donne di una certa età
in cerca di compagni più giovani. Il fenomeno è più esteso di quanto si
immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. La scrivente, pur
non facendo cenno al punto di vista della popolazione locale, biasima senza
mezzi termini le «turiste» in questione. L’«amara tenerezza» che prova per
quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine
di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del
nostro mondo.

Ho lasciato il Kenya 13 anni fa eppure ogni volta che ci
too continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore» che vi si intrecciano
e da come questi travolgenti sentimenti – che lì sembrano travolgere più che
altrove – si manifestino in immagini concrete, non del tutto edificanti, né di
buon gusto.

È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano
che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano
perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono
si direbbe proprio di sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto sbalorditiva.

Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in
particolare verso le appartenenti al mio stesso sesso. Signore eleganti, spesso
facoltose, che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli
anni e si attaccano con i denti e con le unghie a stagioni definitivamente
perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come
donne fatali, come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»:
spietate ammaliatrici che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla
totale rovina.

Naturalmente quegli uomini più che ingenui erano deboli
e psicolabili. Incapaci di governare gli istinti e di ordinare con
responsabilità la scala dei propri valori di riferimento.

Oggi pare che un folto numero della versione odiea di
quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono
curiosamente invertiti. Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a
essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava
nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e generoso, dottore della
Cittadella di Cronin?

Macché! Il loro moderno ammaliatore è un beach boy,
rasta semianalfabeta che si esprime in un idioma raffazzonato, compendio di
diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul
bagnasciuga delle candide spiagge coralline.

Lui promette amore imperituro e le inonda di rancidi
effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa risplendere pettorali e bicipiti
e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e vanificata dal
caldo e dal sudore.

Dov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile?
Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura? La donna matura,
la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il
trascorrere del tempo e l’esperienza di vita hanno via via valorizzato. Perché
giocarsi tutto nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto
d’ora di spasimo professionalmente provocato?

È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce
come «l’unimento spirituale de l’anima e della persona amata»?

Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal ruolo che
una imperturbabile natura continua comunque ad assegnare loro, in fondo
suscitano una sorta di amara tenerezza.

Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e
dell’emancipazione della donna. Hanno pensato che quell’emancipazione, oltre a
restituire loro i diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la
gioventù perduta.

E questa è forse la più triste delle illusioni.
Monica

3. La diocesi di Malindi


Contro prostituzione,
pedofilia e traffico di persone

Pedofilia,
prostituzione e traffico di esseri umani sono problematiche presenti nella
diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento
del governo. Noi, come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad esempio nessuno
straniero può visitare o fare delle foto nelle nostre scuole senza permesso.

Per il problema della pedofilia la diocesi ha un «Ufficio
per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono
segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta.

Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe
trovare un’alternativa appetibile per le persone coinvolte, al fine di
toglierle dalla strada. Molte prostitute arrivano dall’interno del paese
proprio per fare quello e guadagnare denaro alla svelta.

Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i
bambini delle nostre scuole che l’educazione è importante per il loro futuro.
Loro vedono che quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a trovare un
lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite
migliori.

A
livello operativo la diocesi di Malindi ha messo in campo programmi nei vari
settori: educazione, micro finanza, dialogo e azione, genere e gioventù. Il
settore educazione è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno stile di vita
responsabile fin dalla tenera età. In particolare parliamo loro di
autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e altre
malattie.

Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un
approccio globale di protezione dell’infanzia.
Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è
importante.
Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le
famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di
prostituzione.
Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per
mettere in guardia sui problemi del matrimonio precoce.
Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non solo i
nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la
gioventù».

padre Ambrose Muli
parroco della cattedrale di Malindi

4. Per un sorriso: discriminazioni stradali


Occhio al poliziotto

Il
Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli
italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti
sulla costa del Kenya che lamentano una disparità di trattamento tra loro e gli
autoctoni per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a quelle conceenti
la circolazione su strada.

«Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta,
senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi,
parcheggiano dove pare a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile… Tutto
sotto lo sguardo indifferente della polizia, ma se noi commettiamo anche la più
piccola di queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le manette e le
estenuanti comparizioni in corte. Questa non si chiama discriminazione?».

Sì.
Dovremmo chiamarla proprio così e non si tratta di una gran rivelazione perché
l’esercizio di queste differenze è quotidianamente sotto gli occhi di tutti.

Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi):
nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due,
se non tre, spremuti come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a
condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però,
che la polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche volta ferma anche loro e
applica una modesta tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente rapportata
alle loro tasche. È ovvio che, quando l’infrazione è commessa da un «viso
pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene molto più
rigoroso, ma non direi che si tratta di vera e propria discriminazione basata
sul colore della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al
portafoglio del trasgressore.

Come
possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e
neri, incontrino gli stessi rigori della legge. Sarebbe giusto, ma anche
estremamente faticoso e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più spesso
infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa più semplice e indolore:
rispettare le regole e non metterci dalla parte del torto?

Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa franca
infrangendo la legge, autorizza gli altri a fare impunemente altrettanto.

Artemide
(un italiano in Kenya dagli anni Sessanta)

Redazione MC e Out of Italy




Malindi padadise! Per chi? (2)

Incontri ravvicinati con
ragazze locali
Vivere l’ultima giovinezza
Sono
forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. Il
direttore di «Out of Italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del
turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una
spiegazione. Immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i
rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni
di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di
distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.

Ha dovuto, per l’ennesima volta,
recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni,
e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a
convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.

Il bicchiere di Tusker lo
aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma
che importa? Lui sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è
disposto a sciuparla.

Al tavolo c’è una splendida e
giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi
ammiccanti carichi di prorompente sensualità.

C’è anche un giovane rasta
con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il
merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e
l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato che questa è una
traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore,
ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr).

Si può non essergli riconoscenti?

Siamo onesti. Chi di noi
ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana
mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica
dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure
accorgersi che esistiamo.

È triste, lo so. Soprattutto quando
si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la
loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante,
l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda
questo vecchio porco!».

Lui, l’anziano, non ha neanche la
possibilità di sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo
non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al
poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei – almeno tra quelli
che soffrono della stessa patologia – e lì, tra loro, sfogarsi a dovere
liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più
giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo
nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi
vecchietti!».

È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa
nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che
in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e
di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove
l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso
ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti.

Certo,
lo spettacolo che foiamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così
intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in
Kenya. E si viene qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un
po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non
pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di
tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.

Se la bella «studentessa» nera non cade in totale
deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se
intriso di una certa dose di finzione.

C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto
condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle
panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei
nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate
catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a
scopa e dei «bingo» parrocchiali?

No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da
questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che
ingombranti, inutili fardelli.

Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello
spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa»
ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola
vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.

Smettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in
noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti
non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo
rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o
spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora
non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli,
le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il
nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il
nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici.

Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio,
abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei
si è innamorata perdutamente di noi, allora abbiamo scatenato un vero disastro.
Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait
della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la
stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un
carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo
schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli
veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un
senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella
vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che
spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che
credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e
disperatamente, soli.

Dico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli
ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come
consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi
epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto
uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e
cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta
anche la libertà e la stessa vita.

Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso
fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho
viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove,
anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste
insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli
dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano
di costruirsi una nuova, romantica esistenza.

Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste
irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro
permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni
maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano
la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con
pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!

Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano
d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della
lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno
(compagna) di cui hanno piena e incondizionata fiducia?

E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e
la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora,
la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi
distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.

A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E
quando essi finiscono, finisce tutto.

Ecco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli
della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una
giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.

È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel
briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.

Franco Nofori

 

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Franco Nofori




Malindi paradise! Per Chi? (1)

Turismo: l’ultima spiaggia dell’eterna giovinezza
In collaborazione tra la redazione di Out of Italy e di MC – Foto  Stefano Labate


«Out of
Italy» – Gli Italiani in Kenya

In Kenya vive una numerosa comunità italiana.
Probabilmente più di tremila persone, visto che tale è il numero necessario per
costituire i Comites (Comitati per gli Italiani residenti all’estero). La comunità è variegata. Oltre a missionari e
missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci sono gli Italiani nati in
Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la
guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la prigionia, trovarono
lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi»
italiani, un tempo così alto da avere una propria parrocchia italiana con sede
a Nairobi sotto la responsabilità dei missionari della Consolata, oggi è molto
ridotto anche per semplici ragioni anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con
le grandi compagnie industriali italiane come Agip, Alitalia, Impresit e altre,
e si sono stabiliti nel paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e nei
servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e dei vari organismi
inteazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite per
l’Ambiente. Questo personale è in continuo cambiamento e movimento. Non mancano
dei pensionati che si ritirano in Kenya per passare gli ultimi anni della loro
vita in un clima mite come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche,
purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite dalla giustizia italiana e
discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro prosperano
anche i cacciatori di fortuna, gli amanti dell’avventura, gli impresari senza
scrupoli, gli approfittatori, i mafiosi…

A Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una
nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di lungo corso,
ci sono i nuovi arrivati, come quelli che decidono di provare a investire nel
paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i
turisti: quelli che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti di amici
residenti, quelli che vanno nei villaggi vacanze coi viaggi organizzati che
promettono mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e quelli che sbarcano
alla ricerca della vacanza esotica e magari trasgressiva. Una comunità
variegata.

Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono
la presenza di mafiosi e investitori senza scrupoli, hanno fondato una decina
di anni fa il periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa»,
una rivista di 48 pagine a colori che viene pubblicata senza una cadenza troppo
fissa.

Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai
ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’ vecchia maniera e attaccato ai
valori di un tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autornironia. Da alcuni
anni è un attivo membro del Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il
registro degli italiani residenti all’estero) e collabora col consolato di
Malindi per risolvere i problemi di tanti connazionali, turisti e non.

In questo dossier a molte mani, riprendiamo, e
integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy» che stigmatizzano uno dei tratti
più negativi della presenza europea sulla costa del Kenya: il turismo sessuale.
In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un po’ in
autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare
l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che
umiliano il nome del nostro paese, gli autori mettono a nudo una triste realtà.
Pur non condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere
come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya.

Redazione MC


La voce degli onesti


Non solo faccendieri (sulla
costa est)


Chi
sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un
vecchio italiano ci presenta il suo punto di vista, appassionato e anche
orgoglioso. La voce di uno che vive sulla costa keniana da oltre 30 anni e ha
forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e degrado che
attanaglia anche il nostro paese.

Sono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e
discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni
irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non
ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti tra loro, conflitti da cui
i contendenti escono sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non annoverano nei
loro libri paga poliziotti e giudici corrotti.

Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando lavoro a
migliaia di persone e alle loro famiglie. Sono loro che aiutano, senza
ostentazione, la popolazione locale alla quale mettono a disposizione
opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi.

Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni
a connazionali sprovveduti. Hanno investito qui il proprio denaro e i propri
risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato
riposo dopo una vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con
varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai
assunto un carattere squisitamente italiano.

Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano
vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza,
per la fantasia, e per l’eclettismo che ci sono da sempre peculiari.


Cosa sarebbe Malindi senza di loro? La più diretta
risposta la riceviamo dalla popolazione locale: «No Italians, no Malindi».
Ed è una semplice verità.

Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare notizia
di altri comportamenti che offendono la nostra dignità nazionale, siamo ben
consapevoli che le prime vittime di queste immagini deleterie e sventurate sono
proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire
impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva.

Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei giudizi
approssimativi – spesso anche indebitamente malevoli – sa bene che nell’Italia
malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri
senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e quello degli
italiani onesti che hanno il solo torto di non fare notizia.

Ma quanto valgono l’onestà e l’etica? Un giusto criterio di misurazione non può prescindere
dalle condizioni dell’ambiente in cui questi valori si esprimono. È certamente
meno difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in
un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto spesso
addirittura gratificata.

Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge
il vero eroismo.

Franco
Nofori



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Out of Italy e MC




Una bussola per L’Europa 

Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane
aderenti alla Fesmi (Federazione della
Stampa Missionaria Italiana
) tra cui anche Missioni Consolata.

Oggi la percentuale degli europei che
non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera di 8 punti quella di coloro
che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano oltre il 30% in
più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti
della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale.

Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini
di 28 paesi. Scegliere una lista e individuare un candidato da votare, quindi,
non possono essere atti stanchi e inconsapevoli.

Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento – l’unico – in nostro
possesso per indicare un nuovo percorso, per incamminarci sulla strada di
un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza,
della pace.

Per questo, come riviste missionarie, riteniamo
che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore
almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico);
la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la
cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa.

1. Con gli Accordi di
partenariato economico
, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico)
di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le
nazioni africane, togliendo i dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono
all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a basso costo perché
sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze
potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere.

2. Per uscire dalla crisi,
Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali, con
l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una
scelta intollerabile per chi ricerca le vie del dialogo e del disarmo per
risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un nuovo modello di
difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla
costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa
alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria
e dell’Ucraina sono un monito per tutti.

3. Sui temi dell’immigrazione,
è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel 2003 per
chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è
rivelato uno strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione
dei rifugiati. Più in generale, l’Europa deve dimostrare che quello
dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi.

4. A ciò contribuirebbe
l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione.
L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le
sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco
efficaci. La cooperazione deve diventare lo strumento principe per una politica
di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei
diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito
e volontario della società civile.

5. Infine, c’è il tema della libertà
religiosa
: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio Continente.
Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di
violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze
religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi
religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni europee nei
confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi
membri dell’Ue.

I candidati parlamentari attraverso i loro
programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i cittadini attraverso la
scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del
cambiamento.

Federazione Stampa Missionaria Italiana


Vedi anche

ecco alcune delle riviste che hanno già pubblicato questo editoriale:

Su la rivista Nigrizia

Su la rivista Popoli

Sulla rivista Africa

Su la rivista Andare alle Genti

Fesmi




Terra di pescatori e migranti (3)

1. Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo
2. 
L’angelo dei rifugiati
Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo

Un quartiere di Catania oggetto di politiche
di risanamento fin dagli anni Venti del Novecento. Un «porto di mare» che da
decenni accoglie l’umanità più emarginata, dalle prostitute alle trans, dai
tossicodipendenti ai migranti, raccontato da chi lo vive, e da chi, come padre
Giuseppe Gliozzo, parroco del Crocifisso della Buona Morte dal ‘72, lì spende
la sua vita per gli altri.


Oggetto
di scellerati piani di sventramento e risanamento dal «degrado», lo storico
quartiere di San Berillo, a Catania, è invece uno straordinario esempio di come
la convivenza con l’altro non solo è possibile, ma è già una realtà. Come
testimonia padre Giuseppe Gliozzo, parroco della chiesa del Crocifisso della
Buona Morte.

Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli
immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici
che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il
periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da
quel momento entrano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi
nelle nostre città.

A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato
ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio
verso Nord: il quartiere di San Berillo.

Berillo, originario di Antiochia, città dell’allora
provincia romana della Siria, avrebbe portato, secondo la tradizione, il
Cristianesimo in Sicilia, divenendo il primo vescovo della città etnea.

Mentre camminiamo per le vie del quartiere, veniamo
fermati da un uomo distinto che ci avverte, con garbata gentilezza e affabilità
tipicamente siciliane: «Qui ci sono le cocotte». Poi ci prende sotto
braccio, con l’intento di allontanarci da quella zona «poco raccomandabile».
Insiste per offrirci un caffè. Ci sediamo al bar di Piazza Beini, davanti al
Teatro Massimo che è in sciopero: «Un paese senza teatro è un paese morto», c’è
scritto sugli striscioni appesi a un coicione.

Scopriamo così, di fronte a un caffè, la storia del
quartiere più centrale e antico di Catania, oggetto di una serie di piani «sventramento»
e «risanamento» sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando la fiorente industria
dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi della demolizione
radicale: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una
urbanizzazione caotica e fittissima, con la stazione e il porto era troppo
angusto per una città che aspirava a diventare la «Milano del Sud». La II
Guerra Mondiale bloccò il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventramento
venne effettivamente realizzato: i 30.000 abitanti furono deportati a San
Leone, che da quel momento diventò San Berillo Nuovo, e del quartiere
originario rimase solo un pezzetto.

In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e
nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arrivati di recente, o quelli
storici come i senegalesi e i tunisini, convivono pacificamente con un’altra
umanità emarginata: nel 1958, anno della Legge Merlin, si riversarono infatti a
San Berillo le prostitute di tutta Italia, trasformando la zona in uno dei
quartieri a luci rosse più importanti del Mediterraneo. Solo nel 2000 fu
affrontata la questione: un blitz della polizia «ripulì» la zona, e le case
furono murate. Restarono solo le trans e le prostitute residenti.

Da qualche tempo si parla di un ennesimo piano di «risanamento».


Un emblema della diversità

Entrando nel quartiere, incontriamo Franchina che vive a
San Berillo dai primi anni ’80 – quando il «reato di travestimento» era ancora
punito con il carcere -. È l’intellettuale della zona, forse la persona che più
ha coscienza della vita e del futuro di San Berillo. «Risanare vuol dire
inserire il quartiere alla città, farlo uguale, identico, dargli la stessa
faccia… mentre questo quartiere è stato sempre diverso dagli altri e sarebbe
giusto lasciarlo così com’è: San Berillo è come l’elefante in piazza Duomo, un
emblema di Catania».

In Piazza delle Belle c’è un’edicola dove il Cristo
dipinto sul muro ha sembianze femminili. «Ci sentiamo rifiutati dalla gente, ma
amati da Dio. La gente non immagina che anche noi possiamo pregare. Ogni
mercoledì ci riuniamo a casa mia, per recitare il rosario», conclude Franchina.

La messa della domenica alla parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, celebrata da Don Giuseppe Gliozzo, è molto
partecipata dalla comunità locale.

Lungo 50 anni di storia

Nel nostro incontro, padre Gliozzo ripercorre i suoi
cinquant’anni di sacerdozio, di cui più di quaranta passati come parroco a San
Berillo.

I primi anni del suo lungo apostolato li trascorre a
Bronte, suo paese natale, nel seminario minore, dove ricopre il ruolo di
assistente spirituale dell’Azione cattolica. «Feci un’esperienza che non
esisteva: far uscire i ragazzi dal seminario». Nel 1970, passa al seminario
maggiore di Catania dove cerca di applicare quella stessa politica: vuole che i
giovani seminaristi vadano a studiare nei licei, che abbiano la possibilità di
conoscere la vita fuori dal seminario.

L’azione di padre Gliozzo suscita però critiche da parte
delle gerarchie ecclesiastiche locali e non solo. «Aizzarono i ragazzi contro
di me; quando mi incontravano, cambiavano strada. Poi fecero una raccolta firme
e fui costretto a lasciare. Di quel gruppo di 150 seminaristi pochi
intrapresero la strada del sacerdozio, e di quelli che continuarono, molti
l’abbandonarono qualche anno più tardi».


Cosa è successo dopo?

«Nel 1972 mi proposero di prendere in mano la parrocchia
del Crocifisso della Buona Morte, così chiamata perché nella zona sorgeva il
vecchio carcere borbonico, dove i condannati a morte, prima di essere
giustiziati, ricevevano la visita di un cappellano che gli porgeva un
crocifisso affinché, baciandolo, ricevessero l’ultima assoluzione. Lo
sventramento del quartiere di San Berillo si era concluso alcuni anni prima del
mio arrivo, e, quando vi fui mandato, trovai il vuoto, perché i vecchi abitanti
erano stati deportati in altre zone. Corso Sicilia tagliava in due la città e i
borghesi insediatisi nella nuova via signorile non interagivano con la
parrocchia. C’erano solo contrabbandieri di sigarette e prostitute. La chiesa
era in dismissione, trasformata in una specie di bisca dove gli uomini si
riunivano a giocare a carte. Con loro misi su un gruppo di preghiera al sabato
sera: sbadigliavano di continuo e mi chiedevano quanto tempo mancasse alla
fine.

Appena arrivato ridussi le messe da sei a tre, poi ne
lasciai solo una, quella della domenica alle 10 del mattino. Nella cappella
adiacente, dedicata a Sant’Agata martire, si celebra la liturgia con rito
ortodosso: ho voluto fare un passo verso chi ha un altro credo. La numerosa
comunità rumena presente a Catania non aveva ancora un luogo di culto. È venuto
anche il patriarca da Bucarest, ed è rimasto sorpreso da questa accoglienza,
visto che in Romania la chiesa cattolica ha fatto fatica a trovare spazi.

Negli anni ’80 abbiamo iniziato a lavorare con i
tossicodipendenti, e sono arrivato a pensare di aprire una comunità. Ne parlai
anche con Don Ciotti, che mi disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”.
Ma io volevo restare aperto a tutti, non volevo limitarmi a una tematica
specifica.

Vedi, qui è sempre stato un porto di mare. Le
prostitute, i trans più anziani del quartiere, venivano da me spontaneamente, e
cominciai a lavorare anche con loro. Non conoscevo ancora la realtà della
prostituzione.

Dal 1990 la parrocchia diventa punto di riferimento di
un gruppo di omosessuali credenti, i “fratelli d’Elpìs”.

Adesso alla nostra messa partecipano anche tante persone
di altri quartieri, che non trovano risposte nelle parrocchie di appartenenza».

Cosa
ispirava la vostra azione?

«Lo spirito del Concilio. Quell’idea dell’Eucarestia per
tutti. Prima le prostitute non si avvicinavano per rispetto: non si sentivano
degne, in quanto peccatrici. Invece è proprio questo senso di indegnità che le
avvicina a Dio.

Abbiamo adottato una pastorale essenziale fondata sulla
gratuità dei Sacramenti, sull’accoglienza e l’attenzione riguardo alle persone
e alle situazioni più diverse».

Ha
conosciuto direttamente la realtà dell’immigrazione?

«Tra il 1988 e il 1989, sono arrivati i primi senegalesi.
Qui, nella nostra casa, ne abbiamo ospitati una trentina. Era una prima
“emergenza”. Poi sensibilizzammo gli abitanti perché affittassero le loro case
agli stranieri, in città o in campagna. Realizzammo la prima festa degli
immigrati. Molti di loro sono andati via quasi subito, mentre quattro sono
rimasti con noi per un po’. Poi abbiamo inserito anche loro al Nord: uno lavora
in un caseificio in Emilia Romagna e mi manda sempre il parmigiano. Ogni tanto
mi scrive: “Prego per te ogni giorno, per quello che hai fatto per me”. Sposato
con un’italiana, è venuto a trovarmi con i figli.

Una comunità musulmana del Senegal mi ha mandato una
lettera in arabo, per ringraziarmi di aver accolto in quegli anni tanti suoi
membri».

Come
vede questi nuovi arrivi, la situazione dei nuovi migranti?

«È una questione delicata che deve essere gestita dalle
istituzioni. Io sono stanco, non me la sento più di stare in prima linea. A noi
spetta preparare agenti moltiplicatori, sensibilizzare la cittadinanza ad
attivarsi, come facemmo quando arrivarono i senegalesi».

Ha
mai pensato di mettere per iscritto la sua esperienza, per farla conoscere di
più?

«No, Gesù non scriveva. Mi piace raccontare e ascoltare
storie. Spesso mi invitano a parlare sul tema delle tossicodipendenze o
dell’omosessualità come esperto. Ma io non ho competenze specifiche. Tutto
quello che so lo devo all’incontro, all’ascolto. Per me non c’è il
“tossicodipendente”, l’“immigrato”, c’è Francesco e c’è Tarik».

Come
immagina la Chiesa del futuro?

«Come una comunità dove la figura del sacerdote non sarà
più necessaria. Una comunità auto-gestita, che si riunisce per leggere e
ascoltare la parola, come accadeva prima della Chiesa-istituzione. Non siamo più
una minoranza, ma occorre una “maggioranza qualificata”. C’è qualcuno che
ancora resiste. I cambiamenti nella Chiesa oggi sono possibili grazie al lavoro
che noi abbiamo iniziato. Siamo andati avanti come esploratori in
perlustrazione, in avanscoperta, siamo stati un’avanguardia che ha aperto e
illuminato il percorso che ora sta emergendo. Non a caso il Papa si è scagliato
contro la politica dei seminari attuali che formano “piccoli mostri”1.
Abbiamo lavorato in silenzio e poi ci siamo messi a guardare, in attesa di
quello che sta succedendo oggi, perché doveva succedere».

Accolti anche senza essere stati invitati

Non ha fatto carriera, padre Gliozzo. Non gli piace
apparire o fare proclami, e non ama le etichette. Anche quella di «prete di
frontiera» lo lascia perplesso.

Preferisce continuare a fare il suo lavoro nell’ombra,
mischiandosi tra la gente, soprattutto tra i poveri, gli afflitti e i
diseredati.

Prima di salutarci, ci mostra le fotografie che
tappezzano le pareti del parlatorio: sono le tappe più significative del suo
lungo sacerdozio, è un viaggio nel tempo, uno scorcio di storia d’Italia,
attraverso i suoi segmenti più emarginati. Fino a quelle più recenti, scattate
nella sua casa di campagna a Bronte, dove c’è pure Franchina, e dove si è
accolti anche senza essere stati invitati.

Note alle pagine 48-51:

1  Cfr.
La civiltà Cattolica, 3/1/2014. Svegliate il mondo. Colloquio di Papa Francesco
con i Superiori generali.

 


L’angelo dei rifugiati

Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

A bba Mussie Zerai, noto anche come «angelo dei
rifugiati», è stato candidato al Nobel per la pace 2015. Eritreo di nascita, è
arrivato in Italia come richiedente asilo nel 1992. Nel nostro paese ha
frequentato l’università e, nel 2010, è stato ordinato sacerdote. Da anni
denuncia le condizioni disumane che i richiedenti asilo affrontano sul loro
cammino. In particolare dei profughi provenienti dal Coo d’Africa. È grazie
alle sue denunce (e a quelle della suora comboniana Azezet Kidane) che l’azione
dei trafficanti di uomini nel Sinai è divenuta di dominio pubblico e, in parte,
è stata affrontata dall’Egitto. Più volte sentito dall’Alto Commissariato
dell’Onu per i rifugiati, nel 2012 è stato ricevuto dall’allora Segretario di
Stato Usa, Hillary Clinton. Oggi vive in Svizzera dove segue le 14 comunità
eritree sparse nei vari cantoni.

Abba Mussie Zerai da dove provengono i
migranti che dalla Libia cercano di partire verso l’Europa?

«Arrivano dall’Africa orientale (Eritrea, Etiopia,
Somalia, Sudan) e dall’Africa occidentale (Mali, Niger, Nigeria, Ghana, Costa
d’Avorio). I primi passano dal Sudan, i secondi dal Niger».

Una volta entrati in Libia dove si spostano?

«Solitamente convergono verso Tripoli per poi tentare di
imbarcarsi verso Lampedusa. Ma non è così scontato che arrivino a Tripoli.
Alcuni gruppi finiscono in Cirenaica (la regione al confine con l’Egitto).
Difficile dire come arrivino laggiù. Di solito però le guide, per evitare i
posti di blocco organizzati dalle milizie, fanno fare giri molto lunghi ai
gruppi di migranti. Alla fine però vengono presi lo stesso dai miliziani».

Chi gestisce il traffico
dell’immigrazione?

«I trafficanti di uomini portano i migranti dal Sudan o
dal Niger in Libia. Qui entrano in contatto con i libici. I libici, uomini
legati alle milizie, prendono i migranti mettendoli in centri di detenzione e
si fanno pagare un migliaio di dollari a persona per rilasciarli. Una volta
rilasciati i migranti possono continuare il viaggio. Ma se sul loro cammino
trovano altre milizie che li imprigionano, sono costretti a pagare di nuovo».

Quanto costa un
viaggio dall’Eritrea a Lampedusa?

«Costa in media 6-7mila dollari. È una cifra consistente
che si può permettere solo chi ha parenti all’estero disposti a pagare per lui.
Chi non ha parenti all’estero si ferma in tappe intermedie (in Sudan e in
Libia) per lavorare e raccogliere il denaro necessario ad affrontare la tappa
successiva. Per chi ha i soldi, il viaggio può durare anche solo un mese. Chi
non ne ha ci può impiegare cinque o sei anni».

In quali condizioni
vengono tenuti i migranti in Libia?

«I migranti vengono stipati in capannoni industriali,
senza luce, acqua corrente, servizi igienici e, soprattutto, senza la
possibilità di uscire. Dopo pochi giorni le persone sono costrette a vivere tra
i loro escrementi, con un caldo insopportabile e senza potersi lavare. I
miliziani poi sono persone crudeli. Per spaventare i migranti sparano in aria,
li percuotono. Le donne sono vittime di violenze sessuali».

La situazione attuale
è peggiore di quella dei tempi di Gheddafi…

«In passato le violenze erano le stesse. L’unico
vantaggio rispetto a oggi era il fatto che esisteva un’autorità costituita e
centri di detenzione statali. Quindi era possibile, in casi particolari,
inviare i commissari dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i
rifugiati) a fare ispezioni. Oggi invece le milizie sono moltissime e chi vuole
aiutare i migranti non hai mai un punto di riferimento. Anche l’attraversata
del mare è durissima. Ai tempi di Gheddafi, i profughi sceglievano di partire
quando volevano e solitamente lo facevano nella stagione migliore. Adesso le
milizie li costringono a partire quando vogliono loro: anche con il mare
tempestoso e in condizioni climatiche terribili. Da qui gli affondamenti e i
molti morti».

Enrico Casale
 

Per seguire Abba Zerai:
http://habeshia.blogspot.it/ voce della Agenzia Habeshia per la Cooperazione
allo Sviluppo (Ahcs) da lui fondata.
Abba Zerai era stato intervistato da MC per il dossier «2014:
Fuga dall’Eritrea», marzo 2014

 

Silvia Zaccaria e Enrico Casale




Cari Missionari

IL SEGNO DEI CRISTIANI

Egregio Padre,
sovente mi chiedo perché il segno dei cristiani debba ricordare la croce e non
la risurrezione, visto che, come dice Paolo di Tarso, «se Cristo non è
risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra
fede» (1Cor 15,14); non solo, ma la risurrezione include in ogni caso anche la
morte. Dopo due millenni di cristianesimo possibile che non si sia affrontato
l’argomento, al di là delle speculazioni sui primi cristiani? Da un po’ di
tempo quando entro in chiesa mi segno dicendo: «Nel nome del Padre che ha
risuscitato il Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Amen». Gradirei un suo
parere in proposito. Grazie.

Vincenzo
Palumbo
Moncalieri (TO)

Caro
Vincenzo,
trovo molto interessante la sua domanda. Credo che la risposta non stia tanto
nella modifica delle parole quanto nella comprensione dei significati nascosti
in quell’umile segno cui siamo così abituati. Due i livelli da considerare: le
parole e il segno.

Le parole.
L’espressione si trova in Mt 28,19: «Battezzandoli nel nome del Padre del
Figlio e dello Spirito Santo». È messa in bocca a Gesù stesso e riflette
certamente il modo di battezzare della comunità cristiana primitiva. Le parole «nel
nome» indicano un rapporto personale, una relazione con qualcuno vivo. Nella
Bibbia il nome è la persona. E certo ricorda la scena di Mosè che chiede a Dio
il suo nome (Es 3,13-14). Conoscere il nome di qualcuno o dare il nome è molto
più della banalizzazione burocratica a cui siamo abituati oggi, quando il nome
diventa una cifra in un computer. È invece entrare in un rapporto personale di
amicizia e di famigliarità. In questo caso è entrare nella comunità trinitaria,
Padre, Figlio e Spirito. Pronunciare quindi queste parole ha una doppia
valenza: è un atto di fede nel Dio Uno e Trino, ma è anche riconoscere con
meraviglia e timore che Dio mi ama e mi accoglie, mi rende parte del calore
della sua famiglia.

Il segno.
Ricorda la croce di Cristo: palo del patibolo, albero della vita, trono della
gloria dal quale Gesù attrae tutti a sé, scala che congiunge cielo e terra,
fontana e sorgente del fiume di acqua viva che rigenera l’umanità nuova,
torchio del vino nuovo. Le citazioni bibliche e patristiche in proposito sono
innumerevoli. Basti ricordare come Giovanni racconta la crocifissione (cfr. Gv
12,32; 3,14; 8,28; 19,16-37). Nella comprensione della fede, la croce non è mai
solo morte, ma è il segno rivelatore del trionfo dell’amore di Dio che nel dono
totale di sé vince una volta per tutte la morte e il peccato. In più questo
segno è carico di altri significati:
– toccandoci la testa, il petto e le braccia ricordiamo l’espressione «amare
Dio (e il prossimo) con tutto il cuore, con tutta la mente e tutte le forze»
(Dt 6,4-5; Mc 12,29-31) e rinnoviamo quindi il nostro impegno di coinvolgere la
totalità della nostra persona – pensieri, affetti e opere (e cose possedute) –
per «fare bene il bene» (Allamano), affinché «vedendo le vostre opere belle
rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16);


il braccio verticale della croce ci ricorda che nel Crocefisso è ristabilito il
legame, la comunicazione tra cielo e terra, già spezzato col peccato presso il
primo albero (Gn 3,1-6); la croce ci rimette in comunione con Dio;

– il braccio orizzontale ci richiama alla
comunione con gli altri, l’abbraccio di Gesù per tutta l’umanità e per ciascuno
di noi; la croce ci permette di costruire relazioni nuove con tutti gli uomini;

– è
anche scudo di protezione contro la tentazione, contro il male;

– è
segno di speranza perché proclama la vittoria della vita sulla morte, della
luce sulle tenebre, dell’amore sull’odio, della gratuità sull’utilitarismo e il
calcolo.

MC, troppo polemica?

Rev. padre,
da tempo mi porto nel cuore una obiezione che trattenevo per timidezza. Preciso
che nel 1973 fui in contatto con voi per verificare se la vita missionaria
fosse adatta per me […] e così conobbi alcuni dei vostri missionari come p.
Mura Salvatore e p. Vincenzo Pellegrino. La vostra rivista, mi perdoni, è
troppo polemica (virtù che ascrivo ai torinesi e a pochi altri in Italia) in
religione, in politica, in tutto. Si narra che Madre Teresa di Calcutta
dicesse: «Chiedo di lavorare in carità, non guardo i governi». Conosco anche
altre comunità missionarie e nessuno parla di politica. Accetto volentieri una
sua, ma la penso così da decenni.

Lorenzo B.
email, 19/01/2014

Caro
amico,
anzitutto grazie di averci scritto. «La virtù della polemica è da ascriversi ai
torinesi», scrive lei. Vorrebbe proprio dire che in redazione ci siamo
inculturati bene, perché di torinesi veri e propri qui non ce ne sono: tutti
acquisiti! Facezie a parte, mi preme precisare che i missionari della
Consolata, nella loro storia, non hanno mai fatto delle scelte di campo in base
all’approvazione o disapprovazione di un governo o un regime. Hanno sempre
scelto in obbedienza a direttive specifiche di Propaganda Fide o secondo
una lettura dei bisogni oggettivi di un paese alla luce del Vangelo. Con una
scelta preferenziale: i posti più difficili, più poveri, più impegnativi. Basti
pensare all’impegno nel Nord del Congo. Con questo non legittimano situazioni
politiche discutibili, piuttosto vivono il principio che il missionario non è
un agente politico ma un servo del Vangelo.

Il
che non significa che un missionario non faccia politica, perché con le sue
scelte in favore dei poveri, degli esclusi, dei popoli minoritari e delle
periferie, di fatto fa politica. E diventa una spina nel fianco di poteri
ingiusti, illiberali e diseguali, ma anche di quei poteri che in nome della
democrazia in realtà sfruttano e schiavizzano intere popolazioni. Volente o
nolente il missionario fa politica anche quando semplicemente propone la pace
invece della guerra, il perdono invece della vendetta, la gratuità invece del
profitto, il rispetto della diversità invece dell’omologazione, la difesa della
vita per quello che è invece che per quello che rende, la giustizia invece dei
privilegi.

Come
rivista cerchiamo di essere prudenti per non danneggiare chi vive sul terreno e
potrebbe pagare per nostre espressioni troppo esplicite. Preferiamo far parlare
la Chiesa locale, evitando nostre opinioni personali e usando invece documenti
o interviste di religiosi e vescovi dei diversi paesi di cui scriviamo.

Troppo polemici? Non è
nostra intenzione. Cerchiamo il più possibile di offrire un’informazione onesta
e documentata. Riteniamo però alienante parlare di poveri senza affrontare le
cause della povertà, di orfani senza approfondire il perché del loro abbandono,
di malati senza capire perché non hanno cure, di guerre e violenze senza
analizzae le cause immediate e remote. Ci sembra un nostro dovere, scrivendo
su una rivista mensile, fornire un’informazione approfondita e non edulcorata
sulla realtà del mondo.

I non cristiani si salvano?

Mia nipote mi ha posto alcune domande partendo dal fatto
che ha un ragazzo albanese di famiglia musulmana.

La prima domanda è: chi è nato in una nazione non
cristiana e pertanto assume per default la religione del posto,
qualunque essa sia, sarà convinto della sua verità e del suo Dio. Se Dio si
presenta loro in punto di morte e loro non possono accettarlo avendone sempre
avuto un altro, sono tutti destinati all’Infeo? O in un altro caso,
ammettendo che alcuni di loro decidano di accettarlo e questo sia sufficiente
per la salvezza, perché mai noi dovremmo fare tanta fatica per tutta una vita
se poi basta sinceramente pentirsi alla fine?

La seconda domanda è: come sai che qualsiasi libro che
sia stato scritto in materia, Bibbia inclusa, non contenga in parte o in
totalità delle cose non vere visto che non esiste possibilità di verifica?

Figlia della luce
20/12/2013

Cara
lettrice,
noi (cristiani) crediamo che Dio è uno solo: ieri, oggi e sempre, anche quando è
conosciuto sotto nomi differenti. E questo Dio «vuole che tutti gli uomini
siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,3-4). E gli uomini
sono fatti per conoscere e amare Dio perché portiamo il suo imprint:
sono fatti a sua immagine e somiglianza. Da sempre nella storia dell’umanità la
fede nell’esistenza di Dio è una dimensione fondamentale di ogni cultura. È
solo negli ultimissimi secoli, e nella nostra cultura occidentale che degli
uomini si sono ufficialmente dichiarati agnostici o atei e sostengono che Dio
non esista e sia solo un’invenzione.

Attraverso
i secoli e i continenti, popoli diversi hanno imparato a conoscere Dio a
tentoni (At 17,24-28) e ciascuno l’ha chiamato secondo la propria lingua,
celebrato con i propri riti e capito secondo la propria teologia. Dalla
comprensione di Dio e dall’esperienza quotidiana, ogni popolo si è dato regole
di vita in base alle quali una persona è considerata giusta, buona e
rispettabile. Parafrasando le parole di s. Paolo nel testo sopra citato,
possiamo dire che seguendo il meglio delle proprie tradizioni umane e religiose
ogni uomo ha potuto realizzare la sua vocazione fondamentale: quella di essere
immagine («stirpe») di Dio (cfr. Gn 1,26).

È
vero che nella storia della Chiesa questa visione è stata spesso dimenticata ed
è prevalsa l’idea che tutti i non battezzati fossero destinati alla dannazione
eterna, con conseguenze anche gravi, come il battesimo forzato dei popoli
latino-americani. Ma il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avuto il merito di
purificare la Chiesa da queste visioni non evangeliche della storia della
salvezza. Basti per questo la costituzione Gaudium et Spes: n.16, sulla
coscienza retta; n.17 sulla libertà; n.58, su Vangelo e culture; oppure Lumen
Gentium
: n.16 sui non cristiani; o la brevissima dichiarazione Nostra
Aetate
firmata da Paolo VI.

Così,
circa la prima domanda, questo è ciò
che si pensa oggi nella Chiesa. Ogni uomo ha una capacità naturale di
relazionarsi con Dio, perché creato da Dio. Ognuno è chiamato a vivere una vita
retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza; su questo sarà valutato
e  non su quello che non conosce. Gesù è
morto e risorto per salvare tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni angolo del
mondo, non solo chi espressamente lo riconosce e aderisce a lui liberamente e
coscientemente con un atto di fede e col battesimo. La «condanna» è per chi
coscientemente non vive secondo gli standard migliori della sua cultura. Non si
tratta quindi di una decisione all’ultimo minuto per il Dio dei cristiani, ma
di un modo continuo di essere persona degna, onorata e giusta, secondo una
coscienza retta. Ciascuno è chiamato a rispondere per quello che sa, non quello
che ignora senza colpa. Questo vale per il non-cristiano quanto per il
cristiano. Non c’è illuminazione dell’ultimo minuto.

La
seconda domanda: «Chi ci assicura che la Bibbia non contenga
sbagli?».
Nessuno. La Bibbia contiene sbagli scientifici, geografici e storici
perché non è né un libro di storia né di geografia né di scienze. Scritta
nell’arco di oltre 1000 anni, la biblioteca della Bibbia è condizionata dalle
conoscenze degli uomini contemporanei a ciascuno dei suoi libri. Anche dal
punto di vista religioso la Bibbia contiene una progressione tra le idee ed le
esperienze raccontate nei suoi libri più antichi e quelle contenute nei libri
conclusivi come quelli del Nuovo Testamento. Questo perché  non è un unico libro «di religione» scritto
da un solo autore che ne ha poi revisionato attentamente ogni parte per una
perfetta armonizzazione di tutto e l’eliminazione delle contraddizioni o degli
elementi sfavorevoli. La Bibbia riflette il cammino di fede di un popolo che a
fatica è cresciuto nella sua comprensione delle cose di Dio e si racconta,
offrendo ai lettori una testimonianza del proprio cammino spesso faticoso. Fino
alla testimonianza di Gesù Cristo, figlio dell’uomo e figlio di Dio.
Testimonianza ancora una volta affidata alla fragilità di altri uomini.

Come possiamo
verificare allora che la Bibbia dice parole vere su Dio? Prima che un libro di
idee e di dogmi, la Bibbia è un libro di persone che hanno creduto e offrono
liberamente la loro testimonianza su quello che hanno visto, toccato, udito,
incontrato e amato (cfr. 1 Gv 1,1-4), su quello che ha dato senso alla loro
vita. La verità si scopre solo accettando di entrare in relazione con dei
testimoni e attraverso loro con Colui che loro hanno conosciuto e amato.

 

Non sono d’accordo

Carissimo direttore.
Sono un fedelissimo della vostra rivista missionaria e apprezzo sempre leggere
gli articoli sui/dei missionari della Consolata […]. Vorrei farle notare, per
la mia esperienza di missionarietà acquisita sul campo a fianco di padre Noè
(Cereda) nell’isola dei lemuri (Madagascar), che non sono per niente d’accordo
sull’introduzione del suo editoriale «Santa audacia» (gen. 2014) quando
confonde il potere temporale della Chiesa con la vera storia della nostra
cristianità , «con la nostra fede che ha perso sapore per non essere più in
grado di creare Chiese di bellezze straordinaria» … (sic!).

Personalmente credo che Papa Francesco nel suo dire si
riferisca ad altre giornie, ad altre bellezze e ad altra audacia. è un richiamo a essere meno succubi
alle realtà dorate di questo millennio. È il denaro, la ricchezza e la fame di
vanagloria che la nostra società ci presenta come l‘inizio di una felicità
eterna. Riuscire a non farci trascinare nel «così fan tutti» e superare le
barriere di chi sposa il faceto e le tendenze dell’egoismo più sfrenato è
sicuramente l’audacia che ci chiede Papa Francesco. Una frase che ha detto ai
cristiani è sulla bocca di tutti: «I fondatori della chiesa Cattolica non
avevano il libretto degli assegni».

Nel mio piccolo ritengo, senza supponenza, che ne passa
di acqua nella storia fra scelte condivise e oppressioni tipiche del medioevo
verso i più deboli, depredati dai pochi ricchi che avevano anche i privilegi
dello ius primae noctis.

In terra di missione è la fede della gente che fa la
differenza, e non certamente le chiese gotiche che da ai nuovi cristiani la
gioia di amare, la bellezza della loro anima e l’audacia di professarsi
cristiani e distinguersi nel sacrificio verso i propri fratelli a scapito della
loro vita. Da noi è l’egoismo che impera nella società, è l’indifferenza di
tanti nuclei famigliari che davanti a tanti fratelli meno fortunati si chiudono
in «chi se ne frega». L’importante è che a noi non
manchi nulla. Non si può certo fare di ogni erba un fascio dimenticando che per
chi vuol essere «credente» la carità è la massima espressione del cristianesimo
sia nelle parrocchie che nelle missioni sparse in tutto il mondo, una carità
che parte dal cuore e irradia l’universo di gioia, di bellezza e di audacia
senza se e senza ma come tantissime persone impegnate in associazioni che
sacrificano per un messaggio solidale la loro vita per i propri fratelli.

Per chiudere l’argomento credo che le chiese debbano
essere dignitose in ogni parte del mondo, con un imperativo: «Non essere
bellissime scatole, ma senza fedeli». Vuote.

Giovanni
Besana
Missaglia (Lc), 30/01/2014

Caro
Sig. Giovanni,
grazie del suo interessante commento. Mi permetto solo di precisare che la mia
frase è leggermente diversa da come lei l’ha riportata. Scrivevo: «Basti
pensare a molte delle chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso
livellate da un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco
della giorniosa bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di
una fede che ha perso il sapore, che non osa più». Con quello non intendevo
certo esaltare il potere temporale della Chiesa, ma mi riferivo a un periodo
della nostra storia, il Medioevo, su cui abbiamo delle opinioni diverse. Le
chiese gotiche non sono frutto di un periodo cupo e triste della nostra storia
ma espressione di un mondo pieno di luce, colore, slancio e speranza. Le
comunità cittadine che costruirono tali cattedrali vivevano tempi d’intensa
vitalità economica e culturale e di relativa pace, nei quali, accanto a mura e
castelli, era anche possibile costruire, con il lavoro di tutti, la casa della
comunità, in cui celebrare le feste, dare rifugio ai pellegrini e viandanti,
trovare asilo in tempi di calamità e di abusi da parte dei poteri politici.

Quanto
alle oppressioni verso i deboli da parte di pochi ricchi predatori, credo
proprio che noi oggi abbiamo ben poco da insegnare a riguardo, giacché,
nonostante la crisi economica tocchi tutto il mondo, i ricchi diventano sempre
più ricchi, i poveri impoveriscono sempre di più e la classe media scompare.
Storia di oggi, non del Medioevo. E lo «jus primae noctis» lasciamolo al mondo
delle bufale rinascimentali cui appartiene, come tanti altri luoghi comuni sul
Medioevo come scrive Alessandro Barbero (vedi l’articolo su La Stampa del
28.8.2013, pag. 30-31 e l’intervista su Zenit.org del 16.9.2013). «Tutti quelli
che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi, la associano a un’alterità
barbarica, all’esotismo dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran
fascino, che è l’esotismo del passato. Ed è il motivo per cui da queste
leggende è così difficile liberarsi. Non importa se da cento anni nessuno
storico serio le ripete più, e se grandi studiosi come Jacques Le Goff hanno
insistito tutta la vita a parlare della luce del Medioevo. Nel nostro
immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata
un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che
vivevano allora».

La
realtà è che nella storia la costruzione di una cattedrale non ha mai portato
alcuna città alla bancarotta, mentre, ad esempio, certe faraoniche costruzioni
olimpiche hanno invece rovinato delle nazioni.

Rirsponde il Direttore




San Giuseppe Maria Gambaro

Antonio Beardo Gambaro nasce a Galliate il 7 agosto del
1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili.
Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo
e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del
Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli
vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici
e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai
superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si
imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il
7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hen-tceu-fu, capitale della
provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo
abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida
quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un
fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del
1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia
che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse
opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che
uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di
tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la
morte.

Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione
in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui
Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre
percepito la forza della tua presenza.

Proprio
vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde
del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di
coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi
anni è stata un polo tessile di una certa importanza.

Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è
il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in
abbondanza nel Celeste Impero.

A dire
il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava
sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove
ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui
mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei
Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina.

Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi
di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.

Proprio
così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio
pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone
parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a
quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di
salvezza di Gesù Cristo.

Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?

Io
arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva
invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione
dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa
imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua
immensa popolazione.

Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina,
era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro
vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a
disintegrarsi.

A quei
tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla
mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi,
facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e
ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro
influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei
confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso
tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una
sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento
locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano
perseguiti perché godevano di immunità.

L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti
ostili nei confronti degli europei?

Diciamo
che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal
1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da
allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si
passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro
dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La
popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli
stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del
popolo cinese.

È da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?

Sì.
Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a
pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali,
ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra,
artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore
l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la
comparsa sui grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una
famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano
verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatorni, telai, ecc., loro pensavano
che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro.

Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora
l’impressione di voler impadronirsi della Cina.

Proprio
così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia
semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era
malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano
dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò
che non apparteneva alla loro cultura.

Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso
quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo?

La
gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli
stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il
cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese.
Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti
aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano,
venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un
unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la
difesa degli stranieri.

Questa misura però non ottenne il risultato previsto.

Infatti
il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la
presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i
crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità
cinesi.

Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra
zona.

Certamente,
Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio
1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e
cristiani cinesi.

Con conseguenze tragiche per di voi.

Informato
di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante
fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede
episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo
riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui
viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo
immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.

Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche
di quella terrena.

Mentre
ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci
abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi.
Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri
erano veramente giusti!».

Il 7 luglio 1900 i
corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro,
vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedie la
sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo
di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000,
Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di
tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe
Maria Gambaro.

Don Mario Bandera – Direttore Missio
Novara

Mario bandera




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo




Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
1

Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Missione difficile, Presidente

Il paese tra
corruzione e deficit

Joyce Banda è la seconda
presidente donna dell’Africa. Già militante nella società civile, è chiamata a
guidare il suo paese fuori dal guado di corruzione e crisi economica. Scoppia
però l’ennesimo scandalo e tutto l’esecutivo viene licenziato. Intanto si
avvicinano le elezioni generali di maggio.

Da subito è indicata come la figura più adatta a
riformare la disastrata economia nazionale e far fronte alla corruzione
endemica nel suo paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi
Joyce Banda, la seconda donna a raggiungere la massima carica di uno stato in
Africa dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia.

Il
Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania, Mozambico e
Zambia, in cui più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia
di povertà e che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite, risulta il
settimo più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è affetto
dall’Aids ma gli ospedali sono costretti a chiudere perché non hanno i soldi
per acquistare le medicine più banali come gli antibiotici.

Dopo
il decesso improvviso del suo predecessore Bingu wa Mutharika, Joyce Banda
diventa presidente ad interim con il benestare
della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema
in cui la corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli
dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici
estei.

Da attivista a
presidente

Il
cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese dell’Africa
australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel
2009 da Mutharika a ricoprire la carica di sua vicepresidente, dopo tre anni al
dicastero degli Affari esteri di Lilongwe, più che altro nel ruolo di una
figura di rappresentanza da mostrare sulla scena politica internazionale.

La morte di Mutharika, dopo otto anni di governo, e la
capacità di Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato
istituzionale, hanno contribuito a fare di lei quel volto di cui necessitava il
paese per continuare ad avere il sostegno internazionale.

In politica dal 1999, Joyce Banda è stata ministro per la
Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi,
guidato fino al 2004 dall’allora presidente Bakili Muluzi, dopo una carriera
passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per
l’emancipazione della donna. La sua storia e le sue prime dichiarazioni da
presidente, come quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del Millennio in favore di una maggiore legittimazione
del ruolo delle donne e dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso
del presidente statunitense Barack Obama e dell’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton.

Tra le sue prime azioni una volta salita al potere dopo
la morte del suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo
presidenziale e il dimezzamento del suo stipendio come esempi lampanti del suo
impegno a ridurre le spese della classe politica.

Corruzione in agguato

Nonostante
ciò, alcuni scandali recenti legati ancora una volta alla corruzione cominciano
a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti
funzionari governativi. Alcuni di questi sono ora sotto processo proprio a
ridosso delle elezioni generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le
quinte organizzate in Malawi dopo la svolta democratica del 1999.

Tutto
è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un controllo della
polizia stradale di un impiegato ministeriale, il cui stipendio si aggira
intorno ai 100 dollari al mese. Nel bagagliaio della sua auto sono state
rinvenute valigie piene di banconote per un totale di 25.000 dollari. Pochi
giorni dopo, il direttore del bilancio presso il ministero delle Finanze ha
subito un’aggressione e rimanendo gravemente ferito da diversi colpi di
pistola: i giornali locali hanno sostenuto che era sul punto di recarsi dalla
polizia per denunciare una serie di frodi e pratiche di corruzione che
avrebbero sottratto almeno 80 milioni di dollari alle casse dello stato,
coinvolgendo direttamente una settantina tra funzionari, uomini politici e
imprenditori.

La
presidente Banda ha agito con prontezza sospendendo immediatamente tutta la
squadra di governo, chiedendo a ciascuno che dimostrasse la propria estraneità
ai fatti e licenziando in tronco il ministro della Giustizia e quello delle
Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più invischiati nelle
pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio del dirigente ministeriale.

Uno
scandalo di tale portata non poteva non riflettersi su colei che solo due anni
prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate»,
questo è il nome che i giornali locali hanno dato allo scandalo di corruzione e
al processo in corso, è infatti solo la punta di un iceberg. Secondo gli
investigatori del governo, negli otto anni di presidenza di Bingu wa Mutharika
la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici, imprenditori e
funzionari corrotti sarebbe di gran lunga superiore ai 500 milioni di dollari.
La quasi totalità dei quali proveniente dai fondi concessi da donatori
inteazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la
Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran Bretagna, che
garantiscono ogni anno più del 40% delle necessità del bilancio statale del
Malawi e che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere i
pagamenti.

Banda sotto accusa

Come
fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro, Joyce Banda che solo
all’inizio del 2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la
donna più potente dell’Africa si è trovata, alla fine dello stesso anno,
costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi
concittadini del fallimento della sua azione di governo. Le accuse più aspre
provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In
un’audizione fatta di fronte al parlamento di Lilongwe, il presidente della
Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito
la presidente: «II più grande ladro del mondo», sostenendo che lei fosse «parte
integrante e fondamentale» del Cashgate e
che la genesi dello scandalo fosse da rintracciare nel tentativo della Banda e
dei suoi sostenitori di raccogliere fondi in vista delle prossime elezioni.

Il
rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è probabilmente
uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da
Allan Ntata, un avvocato di Lilongwe che ora vive in Gran Bretagna, ex
consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine
l’avvocato elenca laconicamente decine di episodi di corruzione, molti dei
quali avvenuti durante il periodo della sua consulenza, e ricostruisce lo
schema tipico delle frodi.

In
sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale
dell’amministrazione pubblica per trasferire i fondi a società di comodo per
servizi mai resi, preoccupandosi poi di cancellare tutti i dati relativi alle
società stesse di modo che fosse impossibile risalire a esse. Un procedimento
tutto sommato semplice, che induce Ntata alla seguente considerazione: «La
corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si
occupava deliberatamente di come coprire lo schema utilizzato per sottrarre il
denaro».

Taglio dei fondi

Numerosi
sono però i commenti che vedono la sospensione del sostegno finanziario
internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo come il
problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia
nazionale e combattere la corruzione che Joyce Banda aveva assunto non sia
un’azione che si possa portare a termine dall’oggi al domani.

Lo
scrittore somalo Hassan Abukar sul portale d’informazione African
Arguments, curato dalla prestigiosa Royal
African Society, e l’economista sudafricano Greg Mills sul
quotidiano di Johannesburg Business Day
sono, per esempio, solo due tra le tante autorevoli voci che in Africa hanno
cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di una visione più
ampia della storia del suo paese per comprenderne meglio il ruolo a pochi mesi
dal voto con il quale i cittadini del Malawi dovranno eleggere il loro futuro
presidente, rinnovare i 194 parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la
prima volta dopo 14 anni, anche i rappresentanti presso i consigli
amministrativi locali.

Mezzo
secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il reddito pro capite in
Malawi è oggi pari a poco più di 230 euro all’anno – superiore solo a quello di
Burundi e Repubblica democratica del Congo – con un’economia prevalentemente
basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il 90% dell’intera forza
lavoro. Su una popolazione che supera di poco i 16 milioni di abitanti, sono
ancora più di otto persone su dieci coloro che vivono nelle zone rurali del
paese. Tuttavia proprio l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi
concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce solo per circa un terzo alla
formazione della ricchezza nazionale, ed è subordinata al prezzo sui mercati
inteazionali del tabacco, il quale rappresenta più della metà delle
esportazioni del paese.

Economia in
difficoltà

Il
Malawi è un importatore netto, dai prodotti alimentari a quelli petroliferi.
Infatti nel 2012 la sua bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di
poco inferiore al miliardo di dollari. La fine nel 1994 del regime di Hastings
Banda (nessuna parentela con l’attuale presidente), che aveva governato il
paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il passaggio a un regime
democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli
abitanti del Malawi si aspettavano.

«La
transizione alla democrazia fu gestita male – ha scritto Greg Mills – il minore
controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento delle libertà civili non vide
un corrispondente miglioramento della capacità politica delle istituzioni,
mentre sul versante economico le poche industrie esistenti dovettero soccombere
in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le
aspettative dei cittadini, allo stesso tempo cresceva anche il numero
complessivo dell’intera popolazione e i partiti politici si trovavano nella
necessità sempre più incombente di trovare fondi per mantenere la loro base di
sostenitori».

È in
un sistema come questo che si manifesta la corruzione: un’economia politica
fatta di intermediari che pretendono la loro parte sulle importazioni, sui
contratti governativi, sulle aste del tabacco. La presidente Banda si è
ripromessa di portare avanti un programma ambizioso di riforme: in primo luogo
delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei
si era sognato di realizzare, diminuendo la dipendenza finanziaria dall’estero
e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette,
importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per
riuscirvi dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda sembrava
essere cosciente della sfida quando, in un incontro lo scorso dicembre, poco
prima della fine dell’anno, con un gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava:
«Non è soltanto una questione di corruzione – riferendosi in particolare alla
questione della chiusura degli ospedali – ma è qualcosa che riguarda più da
vicino noi in quanto cittadini del Malawi e le priorità che vogliamo darci».

Nei
primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente
dall’estero in termini economici.

Michele Vollaro


Contenzioso con la
Tanzania per le prospezioni petrolifere

Il lago che dà vita,
e non solo

Per decenni ha interessato direttamente solo i
pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago Niassa o Malawi si
contendevano le risorse ittiche. Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe
ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi fondali, la
questione ha assunto un’altra ampiezza. Il lago è infatti al centro di una
disputa sempre più accesa tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al
vicino Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca.
Subito dopo la concessione della licenza esplorativa alla britannica Surestream
Petroleum
e le proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie
di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e
individuare una soluzione che fosse accettabile per entrambe le parti. Ma i
colloqui si sono risolti in un nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si
sono dovuti rivolgere al Forum degli ex
capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo dell’Africa australe

(Sadc). Anche questo tentativo di mediazione sembra però essere arrivato a uno
stallo e non è ancora chiaro se la questione sarà affrontata direttamente al
prossimo vertice della Sadc dagli attuali capi di governo oppure riferita alla
Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.

È evidente però che il Malawi non è in alcun
modo intenzionato a lasciarsi scappare la possibilità di trarre beneficio
economico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò lo scorso gennaio
ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream
per portare avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi giorni la
società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e
geologici nelle acque del lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica
infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di un accordo del 1890
tra le allora potenze coloniali di Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si
appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale
utilizza la linea media delle acque intee per stabilire i confini tra due
paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla
sconfitta della Germania durante la seconda guerra mondiale e le perdite delle
sue colonie in Africa.

Michele
Vollaro

Michele Vollaro