Una donna su otto: Il tumore al seno 

Le patologie oncologiche / 1


Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la
patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per
tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori:
ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo,
alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è
migliorato.

In questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi
adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è
costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che – oltre a tutto ciò che comportano – hanno un
grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie
c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui
costi – stimati per 2,5 anni di malattia – sono di circa 15.500 euro procapite
a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici,
chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente,
se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite
specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e
chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della
paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una
possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%.

Per capire meglio l’impatto sociale di questa
malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene
attualmente affrontata.

Secondo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica»
(www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori»
(www.registri-tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo
tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è
influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque
rilevante. Attualmente è a rischio di
ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo
tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla
diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella
popolazione totale è il secondo tumore più frequente, essendo primo quello del
colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana,
il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7%
degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi
casi – cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) – e muoiono circa 13.000 donne. Le
più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre
abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50
anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono
ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo
su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo
tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. 

I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di
questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del
Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di
incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e
delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi
industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci
sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati,
e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su
100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono
bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio
all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come
l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad
esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e
bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra
le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Beardino Ramazzini
(1633-1714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più
frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato
ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle
popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio,
i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti
variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli
statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini
alimentari e riproduttive statunitensi.

Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella
e assunzione di grassi,  proteine di
origine animale e di calorie totali.

Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento
riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza.
Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori
fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da
MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla
prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e
oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni.
Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35
anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che
qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto
protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo
di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che
procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza
aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri
studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un
effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della
menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di
contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza.
Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco
altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni
nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima,
così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si
tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita
di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario.
Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie
formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore,
ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio.
Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione
nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del
tumore della cervice. Le nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo
sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla
terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare
gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati
epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario
sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel
caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in
estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni
è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di
tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure
obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che aumentano il rischio di
carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni.
Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe
il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa
prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che
presentano la menopausa dopo i 55 anni.

Diversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al
giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di
1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori
mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le
radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è
risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e
all’esplosione della centrale nucleare di Cheobyl nel 1986, tra le pazienti
trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi.

Esiste una percentuale di popolazione intorno
allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2,
HER2 e p53.  Si stima che nei Paesi
occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste
mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi
di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per
predisporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente
di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario
aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti
colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio
diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre
quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario,
ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e,
nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1
ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da
chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del
tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha
inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva
delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore
mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere
certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini
netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come
la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il
monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a
partire dai 30 anni, eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo
i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di
tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile
strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di
estrogeni, senza modificare l’immagine corporea.

Altri importanti
fattori di rischio
per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali.
Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed
aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata
vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come
ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di
materiali da costruzione come calce e veici. Purtroppo, essi sono stati
riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo
umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra
Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti
ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici
policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi
grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e
l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro
pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra
cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie,
cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio
di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco,
nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene
sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è
dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità
assoluta di salute pubblica.

La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente
effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di
tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto.
Ciò a cui bisogna tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un
miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle
sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. 

Rosanna Novara
Topino


Il Seno

Il seno è costituito da un insieme di
ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In
realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una
malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto
alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria
che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di
staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e,
col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del
seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le
seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia
lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il
carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e
l’80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare:
quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno.

Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma
tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)

Glossario

Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in
un certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore:
si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex
novo; puó essere benigno o maligno.
Cancro:
è una definizione generale, che riguarda ogni
tipo di tumore maligno.
Carcinoma:
è il cancro dei tessuti di origine epiteliale,
di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole.
Menarca:
è il primo flusso mestruale della donna, che
rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara:
donna che non ha mai partorito.
Mastectomia:
è l’asportazione chirurgica della mammella.
BRCA:
geni coinvolti nel tumore mammario.

tags: salute, seno, oncologia, tumore, patologie

Rosanna Novara Topino




«La morte non esiste»

Eugenio Susani, tra i «padri» della Cooperazione in Africa


Negli anni Sessanta nascevano le prime Ong in Italia. E
partivano i primi volontari. In quell’epoca si era un po’ pionieri della
cooperazione. Così è stato Eugenio Susani. Tra i primi a partire e cofondatore
di due importanti associazioni. Una vita dedicata all’Africa e al suo sviluppo.
Ma in modo non invasivo. Una figura, una storia, che ha ancora molto da
insegnarci.

«Eugenio Susani ci ha lasciato in una calda giornata di
agosto. Lo avevamo sentito al telefono qualche giorno prima; con voce
affaticata ma ferma ci aveva semplicemente detto: “Sto male. Speriamo di
poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento non
sono in grado di prevedere nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle
parole ritrovo tutta la personalità di Eugenio: la sua sobrietà, il suo odio
per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze estreme.
Il suo stile asciutto, oggettivo, essenziale». Chi scrive è Riccardo Borghi,
già assessore alla cultura al comune di Opera e ora presidente della Unitre
locale. Borghi firma la postfazione del libro «All’ombra del baobab. Racconti
di un volontario in Africa», raccolta di storie vissute e pensieri di Eugenio
Susani.

Amico
dell’autore, ne fissa alcuni tratti essenziali: «Eugenio era uomo di grande
rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi passioni civili. (…) Quando
ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”.
Tale era la sua volontà di conoscenza, la concretezza, l’entusiasmo per
l’azione razionale che trasforma la realtà, la propensione a trasmettere il
proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto
approssimativa, ma che coglieva aspetti essenziali e nobili della sua
personalità, e dunque in qualche modo “vera”».

Tra i primi volontari

Eugenio
Susani, classe 1938, si interessò presto ai problemi del sottosviluppo e nel
1964 partecipò alla fondazione dell’Ong Mani Tese, per la quale in seguito fu
segretario nazionale (dal ’69 al ’70).

Ma è nel 1966 la scoperta
dell’Africa, quando Eugenio partì come volontario per l’Ong Coopi, fondata da
padre Vincenzo Barbieri. Arrivato a Kambia in Sierra Leone, per tre anni insegnò
lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari
Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia nascevano le Ong e la Cooperazione
internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di
missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a
partire. L’atmosfera era quella euforica della sperimentazione di qualcosa di
completamente nuovo.

Note di strada

Dai primi appunti di Eugenio
Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non
c’è un luogo dove il singolo cittadino possa rivolgersi per avere assistenza o
il semplice riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono
nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento di un’unica
persona (e dal grado di importanza del richiedente): il capo villaggio, lo chef coutumier, ossia colui che gestisce la
vita di tutti. Eppure la gente è tranquilla, serena. O almeno così pare…».

«Eugenio non smetteva di
stupirsi del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli
africani mostrassero serenità e gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella,
che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos (Istituto Sindacale per
la cooperazione allo sviluppo), l’organismo per la cooperazione del sindacato
Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei
progetti in Africa fino al 1994, quando si ritirò.

Partecipazione e formazione

Ricorda Ferruccio: «Era un
grande contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i
locali di livello paritario. La sua sfida era sempre quella di convincere le
controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva
mai una sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo
credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo attore
primo delle attività e degli interventi di cooperazione nei progetti”. Lavorava
affinché gli africani diventassero non solo partecipi e paritari nella
preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione
dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo mondo grazie a Eugenio,
Ferruccio, oggi anche lui in pensione, svolse tre anni come volontario in
Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani e ne
prese poi il testimone.

Continua
Ferruccio: «Un altro elemento fondante per Eugenio era la formazione. Non c’era
progetto senza un adeguato programma formativo, in tutti i sensi: gestione,
organizzazione, amministrazione, fino all’alfabetizzazione. Aveva il desiderio
che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero
farsela grazie al progetto. Questo affinché la gente coinvolta fosse cosciente
e potesse poi gestire direttamente le attività».

Chi lo ha conosciuto ricorda
il suo «Amore per l’Africa», che non è «Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio
era affascinato dalla lettura della cultura locale e aveva una capacità di
analisi delle cose africane che derivava dalla sua sensibilità nel cogliere la
realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva a vivere».

Scrive Borghi: «(…) nel
complesso, credo che raramente un occidentale abbia dimostrato una così totale
capacità di immergersi e immedesimarsi nella cultura profonda di popoli
lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideologico
cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua vita e i suoi
scritti ci ha lasciato un esempio alto di antimperialismo vissuto, di amore
integrale per gli oppressi del mondo, di dedizione a un ideale pratico di
giustizia e di emancipazione. In lui il gusto della vita semplice, l’amore per
gli uomini si fa spesso poesia».

Mai imporre

Come operatore della
cooperazione, come occidentale che porta conoscenze e finanziamenti per
realizzare progetti nel Sud del mondo, Eugenio si trovava spesso di fronte al
dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della
cultura locale, senza imporre una cultura «altra». «Eugenio aveva il massimo
rispetto delle culture e non voleva imporre niente. Intervenire senza
distruggere la cultura tradizionale, se possibile dando strumenti per vivere
meglio la loro cultura locale. Questo è un grande insegnamento che mi ha dato e
che è sempre valido per i giovani di oggi» ricorda Ferruccio.

Forse anche per questo era
molto apprezzato dagli africani: «Non ho mai sentito critiche osservazioni
contro il suo atteggiamento, anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio
affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo
attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata.
Il conflitto veniva superato e i locali lo rispettavano molto per questa sua
capacità di negoziatore e di affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso.
Talvolta optava per lasciare passare un po’ di tempo, ma non voleva mai imporre
soluzioni».

Continua Ferruccio Stella: «Spesso
nei progetti di sviluppo, chi ha un ruolo di responsabilità o potere nel
territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse per soddisfare i
propri interessi. Su questo Eugenio era rigido e ciò era causa di conflitti con
funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere
qualsiasi realizzazione che non andasse nel senso di una totale correttezza
nell’utilizzo dei fondi».

Racconta
l’imprenditore Luciano Cervone, coinvolto in un progetto in Senegal: «Ricordo
di Eugenio le sorde e diutue battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata
utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle
pretese delle locali burocrazie.

Dopo i suoi incontri-scontri
con i vertici locali diceva: “La battaglia si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta, cioè i
fondi, ndr) e per chi deve gestirla”. Ma non l’ho mai visto scoraggiato anzi
era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo
“amore evangelico” per quelle popolazioni e per quel continente».

Scelte di vita

Liviana Susani, moglie di
Eugenio, ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo
di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far
parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra con il Perù,
per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi tutto andò bene. Anche in
seguito».

Una volta ritirato dal lavoro
nella cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta per i
diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro
l’azienda Jelly Wax che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La
società interruppe l’attività. In seguito si candidò e fu eletto consigliere
comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08).

La sua
ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra
cui sua moglie e lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della
Università delle tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni
sull’Africa: tradizioni, problemi socio-economici e politici, colonialismo e
neocolonialismo, guerre, aiuti umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello
che sapeva non se lo teneva per sé. Cercava in tutti i modi di trasmetterlo
agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto. E con la Unitre rese questa dote
ancora più concreta».

Secondo Borghi, Eugenio aveva
una: «“Concezione quasi sacra dell’istruzione” e della cultura, l’impossibilità
di vedere la teoria disgiunta dall’azione con essa coerente, l’atteggiamento
antidogmatico e, nello stesso tempo, il grande rispetto per le tradizioni
radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede l’immobilismo che
soffoca il continente, lotta per il cambiamento e il progresso, ma
“l’importante – pensa – è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori
di fondo, che rendono ancora oggi così vitale la società africana”. In questo
passaggio è racchiuso il senso della vita e della politica di Eugenio».

Dentro la cultura

Eugenio amava penetrare nella
cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri» erano vecchi
saggi, che lui si prendeva il tempo di ascoltare. Come il vecchio Assane, che
racconta nel suo libro. «Passiamo qualche tempo in silenzio, poi chiedo: “Cos’è
la morte per te, Assane?”. “La morte non esiste” è la sua risposta. “Allora la
tua storia non è vera” lo provoco. “I miti sono miti, amico mio. Servono a
rendere la vita più sopportabile alla gente. Talvolta servono per dire una
verità. Ma, in genere, non bisogna prenderli troppo sul serio”. “Eppure la
gente muore. Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, la testa tra le mani, resta di nuovo in silenzio. Poi riprende
col tono di sempre, la voce lenta, pesando le parole come se parlasse a se
stesso, forse vedendo qualcosa che io non vedo. “Muoiono i corpi. Non le
persone. La realtà è più grande di quello che vedono gli occhi”».

Marco Bello

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Tags: volontariato, cooperazione, Susani

Marco Bello




Silenzio sulla guerra

Incontro con padre Pizzaballa


Di Siria si parla molto meno di qualche mese fa. Ma i
problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine
Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano,
«custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in
via di pubblicazione.

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno
possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa
scelta».

Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il
saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva
l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.

Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di
Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un
intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa
(che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un
allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha
favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi
coinvolti – Turchia, Arabia Saudita, Qatar – di avere mano libera nelle loro
politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?

«In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai
tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a
seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio
è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono
una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande
criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie.

Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci
sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e
all’interno del paese».

Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da
stranieri?

«In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da
Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla
guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono
persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi
stuprano.

All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più
popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza».

Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange
estremiste?

«Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni
e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano:
dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed
Iraq.

Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia
Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che
hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi».

Come
sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come
vivono i siriani?

«Il
popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli
equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste,
certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta
dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la
propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa della guerra si trova a dover
scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta.
Questa è la violenza della guerra siriana».

La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e
salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere
della guerra civile siriana?

«La
realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa.
Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di
tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le
semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi
presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci
più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli
alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti
ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile
distinguere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra».

Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e
Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa
cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è possibile fare?

«In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non
certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende
e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari,
medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono
talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione.
Spero, comunque, di sbagliare».

Israele
in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?

«Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al
potere in Siria sarà comunque anti-israeliano».

Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato
problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male
minore.

«Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che
qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».


E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono?

«I
cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani
come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i
cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono
cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad».

I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della
Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi
estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.

«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra
distrugge tutto: chiese come moschee».

E i francescani?

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il
meno possibile (quindi io, ora, davanti
a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura.
Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a
una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra
gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte
giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con
la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare
qualcuno».


Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui
il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro?

«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli
non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che
si passino i prigionieri da un gruppo all’altro».

Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan,
prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che – senza il partito Ba’ath (il partito del
presidente, ndr)
-, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non
sarebbe mai potuto esistere.

«Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e
giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare
i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche
perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare
con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto
a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla
fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».

Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie
cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è
possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i
donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le
popolazioni a cui sono diretti?

«I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non
puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a
esistere. Uno dei problemi principali è quello dei profughi sia all’interno del
paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è
bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure
mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle
famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi
ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella
maniera più cornordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire
e cornordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie
organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come
francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza
precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di
rendere conto di quello che è stato fatto».

I luoghi cristiani in Siria sono stati preservati?

«Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli
cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che
al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di
conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione».

Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione
della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe
diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi
possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma
più vicino all’Europa e filo-turco.

«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla,
effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande
Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare
i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai
una soluzione facile e pacifica».

Piergiorgio Pescali

Tags: Siria, pace, guerra, ecumenismo, jihad, fondamentalismo, cristiani

Piergiorgio Pescali




«Buon lavoro, Presidenta»

Viaggio in Cile / 1


Dallo scorso marzo, il palazzo della Moneda, sede della
presidenza, ospita di nuovo Michelle Bachelet. Nella capitale cilena abbiamo
incontrato il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, che ci ha raccontato il «suo»
Cile: da Salvador Allende al generale Pinochet fino al ritorno della democrazia.
Con i suoi problemi: le troppe diseguaglianze, la questione dell’educazione, la
lotta dei Mapuche.

Santiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo per guardarsi attorno. La
zona è residenziale e la via alberata, dando coerenza al nome del municipio: Ñuñoa,
in mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al vicino
incrocio lo sguardo corre verso un grande cartello della recente campagna
elettorale. «Más áreas verdes. Todos con
Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora
Bachelet, appena eletta presidenta. È ora di suonare il campanello. Entriamo in un curatissimo
giardino, posto tra una chiesetta in pietra e una casa a un solo piano,
elegante, ma molto semplice. È la residenza dell’arcivescovo di Santiago del
Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con un ampio sorriso.

Attraversando l’Atlantico

Nato
in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto l’egida dei
salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla volta del Cile. È il
1959. Dopo gli studi (Quilpué, Roma, Strasburgo)
e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo
vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia – racconta nel
salotto dove ci siamo accomodati – è stata una strada di pellegrino, avendo
dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il
suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti.

Negli
ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla
lunga dittatura del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il
paese ha ottenuto importanti successi economici, con elevati tassi di crescita
(4,2% anche nel 2013). Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1%
più ricco s’intasca il 31% dei redditi. La lista 2014 dei 1.645 miliardari
mondiali, stilata da Forbes2, conta 12 cileni, appartenenti all’oligarchia
storica (Fontbona, Horst, Matte, Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il
presidente uscente).

«È
vero – conferma mons. Ezzati -: nel paese esiste un grande divario sociale tra
persone che non hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella
miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza. Nel
settembre 2012, in una lettera pastorale3,
come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del Cile non può essere centrato
soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più
partecipato, più solidale, più giusto. Questo è un paese di molte speranze ma
anche di tantissime sfide».

Sfide
che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime
elezioni con Nueva Mayoría, la
coalizione di centrosinistra. Alla fine del primo mandato, nel marzo del 2010,
lei aveva lasciato La Moneda con un alto indice di approvazione dei cittadini.
Oggi Bachelet ha più esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha
affrontato la campagna elettorale sotto lo slogan Chile
de todos, promettendo più ospedali pubblici, più educazione pubblica, più
democrazia e diritti umani4.
Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta
eletta il 16 dicembre. Che vi siete detti?, domandiamo.

«Dato
che la sua coalizione va dal partito comunista alla democrazia cristiana, le
abbiamo chiesto di non avere il timbro di un partito o di una determinata
ideologia, ma soltanto quello del bene comune. Le abbiamo chiesto che la sua
politica sia illuminata dai grandi valori dell’umanesimo. Le abbiamo chiesto di
essere presidente di tutte e tutti i cileni e di mettere il potere al servizio
dei poveri e di quelli che hanno più bisogno come gli anziani e i bambini.
Abbiamo infine parlato di temi molto concreti: la giustizia distributiva, la
famiglia, l’educazione».

Già,
l’educazione, tema caldo, caldissimo nel paese.

«Capisco gli studenti»

Il
Cile ha conosciuto molte riforme dell’educazione. Quella di Allende – si
chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela
nacional unificada, Enu) – non vide mai la luce. Poi ci furono le
riforme di Pinochet – del 1981 e del 1990 (quest’ultima approvata nell’ultimo
giorno della dittatura) -, che portarono a una privatizzazione dell’istruzione.
Infine, nel 2006 Michelle Bachelet varò una riforma (legge 20370 o Lge) che,
nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle precedenti.
Senza però riuscirvi. Oggi la situazione è questa: la qualità dell’educazione
pubblica è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso
inadeguata). Questo ha portato a un sistema educativo diseguale in cui molti
studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare.

Ecco
spiegato perché in Cile, in questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono
nate proprio tra gli studenti. Prima (era il 2006) tra i giovani degli istituti
superiori, poi (2011) tra quelli universitari.

La
Chiesa cattolica cilena ha un ruolo rilevante nel sistema educativo del paese.
Vogliamo capire se questo suo essere parte in causa costituisca un impedimento
per prendere posizione. Mons. Ezzati, lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro.
Magari con qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema
educativo è però necessaria».

Ezzati
conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio
salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia
Università cattolica del Cile», un’istituzione con 26mila iscritti5 di cui oggi è gran cancelliere. «Noi
crediamo – precisa subito – che il diritto all’educazione sia un diritto
essenziale, ma è un diritto che riteniamo vada di pari passo con il diritto
alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere
un’educazione di qualità ma, insieme a questo, ha anche il diritto di scegliere
il tipo di educazione – di base, superiore o universitaria – in accordo con la
propria concezione di vita».

Anche
Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma educativa e l’ha posta tra
le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso in cui si
parla anche di un debito storico dello Stato e della società cilena nei
confronti dei popoli indigeni. Questi – secondo i dati del censimento 2012 –
costituiscono l’11% della popolazione totale (1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con
oltre 1,5 milioni di persone.

La lotta del popolo mapuche

Nel
settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il
ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche – incarcerati con
l’accusa di terrorismo e in sciopero della fame per protestare contro
l’applicazione della legge antiterrorismo varata all’epoca di Pinochet – e il
governo centrale.

«Io
preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi chiesero di
intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i
capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse, ma la situazione tra indigeni e
governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi
nei casi più gravi. La mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni
ci sono due anime, due visioni. Quella predominante è pacifica e contemplativa
vedendo nella natura il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande
preoccupazione alla scomparsa delle coltivazioni tradizionali per far posto a
pini ed eucalipti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma non
basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe medicinali, su
cui si basa l’autorità delle machi, le
guide spirituali mapuche (che in gran parte sono donne)».

Cosa
occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e governo
centrale? «La prima cosa di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei
Mapuche come popolo con la sua cultura e identità. E poi va risolto lo storico
problema della terra».

Se in
territorio mapuche la terra è finita in mano alle imprese della cellulosa
(soprattutto quelle delle famiglie cilene Angelini e Matte), anche lo
sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio
nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale
(formato da Endesa-Enel e da una società della famiglia Matte) vorrebbe
sfruttare le enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al
progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons.
Luis Infanti della Mora, italiano di Udine, vicario apostolico dell’Aysén7.

«La
battaglia di mons. Infanti nella regione di Aysén è una battaglia etica più che
economica. Ci sono istituzioni che lo appoggiano e altre che lo criticano.
Tuttavia, anche nelle correnti di pensiero ecologico ci sono posizioni diverse.
Il tema energetico è un tema forte. L’acqua sembra – dico sembra perché non
sono un tecnico – dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita.
In Cile abbiamo molte centrali a carbone, che sono veramente inquinanti. Sono
vissuto per tre anni a Conceptión dove siamo riusciti a fermare la costruzione
di una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante.
L’acqua è un bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra parte,
abbiamo anche bisogno di risolvere il problema energetico».

«Francesco è un dono»

Mons.
Ezzati non vuole parlare soltanto del suo ruolo pubblico. Vuole essere anche e
soprattutto un uomo di Chiesa. «Perché – spiega – è una condizione in cui mi
sento comodo e felice. Quella cilena non è una chiesa clericale, ma una chiesa
di popolo, dove la partecipazione dei laici è molto forte. Qui a Santiago
abbiamo una scuola di formazione dei laici (Instituto
Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che
io ho seguito da vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui
partecipano migliaia di persone. Sono tutti volontari che, dopo il lavoro, alla
sera dedicano alcune ore alla propria formazione per essere attivi nelle
rispettive comunità. E poi un secondo aspetto molto bello della chiesa cilena
sono le espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza
straordinaria, trasmessa di generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare
un esempio, la festa del Cuasimodo9 a Pasqua».

Da un
anno al Vaticano c’è un papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il
cardinale Bergoglio in alcune riunioni del Celam (Consejo
episcopal latinoamericano, ndr)10, ma
soprattutto durante l’assemblea di Aparecida – era il maggio del 2007 -, dove
eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io come membro. Dunque,
ho potuto conoscere abbastanza bene questo dono di Dio alla Chiesa universale.
Ho conosciuto un uomo molto umile, rispettoso del lavoro degli altri, un uomo
di una spiritualità semplice ma allo stesso tempo molto profonda. Una persona
di grande fede e dal tratto umano veramente squisito. Considero veramente una
grazia del Signore che lui sia il vescovo di Roma. Anche perché papa Francesco
porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa che, dopo 500 anni di
storia, può offrirci molto».

Una
Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro, una teologia
tanto affascinante quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche
feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo alla teologia della liberazione. «Come
tutte le teologie, anche quella della liberazione ha una propria storia. I
documenti della Congregazione per la dottrina della fede parlano di una
teologia della liberazione necessaria e di una influenzata da idee
sociopolitiche. Dico questo senza voler fare una critica, perché da sempre la
storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle persone e dei
popoli. Io credo che la teologia della liberazione, quella più autentica, abbia
dato un apporto significativo alla Chiesa universale».

Le ferite del passato

La
teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli
anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet contro il governo
socialista di Salvador Allende.

Mons. Ezzati
non si tira indietro quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io
posso dire che, durante gli anni di Unidad
Popular11,
c’erano grossi problemi. Quando ci fu il colpo di stato si pensava che sarebbe
durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani
furono calpestati e si generò molta ingiustizia. Allora ero un giovane e
insignificante prete di periferia, ma anch’io vissi momenti difficili. Nel
1978, con un gruppo di preti elaborammo dei testi scolastici di educazione
religiosa. Fummo denunciati come “nemici della patria e marxisti” semplicemente
perché un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel
mondo facendo riferimento a problemi molto concreti: diritti umani, giustizia
distributiva, armamenti. Quel periodo è passato, anche se ci sono ferite che
rimangono e che soltanto con il tempo si potranno rimarginare».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)
Note

1 – Questa intervista a mons. Ezzati si è svolta a Santiago del Cile
prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22
febbraio.
2 – L’annuale lista di Forbes, uscita nel marzo 2014,
quest’anno comprende 1.645 persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires.
3 – La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar
y compartir con equidad el desarrollo de Chile
. Essa è scaricabile dal sito
della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl.
4 – Il programma di governo di Michelle Bachelet si può scaricare da:
michellebachelet.cl/programa.
5 – I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università
del Cile, www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión,
www.salesianoconcepcion.cl.
6 – Tutti i dati del censimento 2012 sono scaricabili dal sito:
www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni (sono 9 quelli
riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia.

7 – Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010.
8 – Il sito: www.inpas.cl.
9 – Originaria dell’epoca della colonia, la festa di Cuasimodo si
celebra la domenica successiva alla Pasqua.
10 – Il sito: www.celam.org.
11 – Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla
presidenza Salvador Allende.

 
Biografia essenziale


Cardinale Ricardo Ezzati Andrello
 

• 1942 – Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia di
Vicenza.

• 1959 – Arriva per la prima volta in Cile per studiare a
Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei salesiani.

• 1970, marzo – Viene ordinato sacerdote.

• 1971-1990 – Ricopre vari incarichi all’interno della
Congregazione salesiana in Cile.

• 1991-1996 – È in Vaticano alla Congregazione per la vita
consacrata.

• 1996, settembre – Viene ordinato vescovo di Valdivia,
capitale della regione meridionale de Los Ríos.

• 2001, luglio – Viene nominato vescovo ausiliare di
Santiago del Cile.

• 2006, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Conceptión,
capitale della regione del Biobío.

• 2007, maggio – Partecipa alla Conferenza di Aparecida,
dove lavora a stretto contatto con il cardinale Bergoglio, futuro papa
Francesco.

• 2010, settembre-ottobre – È «facilitatore del dialogo»
nello scontro tra i Mapuche e il governo centrale.

• 2010, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Santiago
del Cile e presidente della Conferenza episcopale.

• 2014, 22 febbraio – Papa Francesco lo nomina cardinale.

Cile / 1: la
cronologia essenziale

Il ritorno di
Michelle

Nel bene e nel male, alcuni dei protagonisti della storia
cilena: Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton
Friedman e Chicago boys, Giovanni Paolo II, Sebastián Piñera, Michelle
Bachelet.

1810

Inizia il processo d’emancipazione dal dominio spagnolo. Il
Cile dichiarerà l’indipendenza il 12 febbraio del 1818.
1879 febbraio.Le truppe cilene occupano l’allora porto boliviano di
Antofagasta. Poco dopo l’azione, ad aprile, inizia la «guerra del Pacifico»,
che si concluderà nel 1883 con la vittoria cilena su Perù e Bolivia. Le
conseguenze di quel conflitto si fanno sentire ancora oggi.

1883

Termina la secolare «Guerra de Arauco». Le terre dei Mapuche
sono occupate in via definitiva dall’esercito cileno. La perdita è all’origine
di un conflitto mai più sanato.

1970 novembre.

Le elezioni sono vinte da Salvador Allende, medico e
socialista.

1973 settembre.

Il generale Augusto Pinochet guida un colpo di stato contro
il presidente Salvador Allende. La Moneda, il palazzo presidenziale dove
Allende è asserragliato, viene bombardata. Allende muore, forse per suicidio.
Il golpe ha l’appoggio concreto di Washington e di Henry Kissinger, il potente
segretario di stato Usa. È l’altro «11 settembre» della storia, il primo (ma
meno conosciuto e riconosciuto).

1975 marzo.

Il prof. Milton Friedman, economista statunitense, fondatore
della «Scuola di Chicago», visita per una settimana il Cile e incontra il
generale Pinochet. Nello stesso anno i cosiddetti «Chicago boys» (cileni
graduati alla scuola di Friedman) entrano nel governo di Pinochet, mettendo in
atto un forte piano di riforme economiche liberiste.

1987 aprile.

Papa Giovanni Paolo II visita il paese. Saranno 6 giorni
difficili e controversi.

1989 dicembre.

Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche.
Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación
de partidos por la democracia
), che goveerà ininterrottamente il Cile
fino al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo
Lagos e Michelle Bachelet, prima donna presidente della storia cilena.

2006

È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata
«rivoluzione pinguina» (a causa delle tipica divisa degli studenti: giacca blu
e camicia bianca). Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli
studenti universitari.

2010 marzo.

Inizia il mandato presidenziale di Sebastián Piñera,
rappresentante della destra (Coalición por el cambio) e miliardario.

2013 novembre.

Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento
studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato
di Nueva Mayoria, la coalizione di centro-sinistra guidata da Michelle
Bachelet.

2013 dicembre.

Al ballottaggio per le presidenziali vince la candidata
Michelle Bachelet, al suo secondo mandato.

2014 marzo.

L’11 del mese assume la presidenza Michelle Bachelet. Anche
la seconda carica del paese, la presidenza del Senato, è nelle mani di una
donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende.

Paolo Moiola

 

Cile / 2: una mappa riassuntiva


Le questioni principali

politica

La Costituzione cilena è, con poche modifiche, ancora quella
promulgata l’11 marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet.
Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo
slogan «Chile de Todos», è prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui
democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo
non sarà facile.

economia

Il Cile è uno dei paesi al mondo che più sono cresciuti
negli ultimi 25 anni. Le diseguaglianze sociali permangono però molto ampie:
l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale (contro – ad esempio –
il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di povertà è del 14,4%, che corrisponde a
2,5 milioni di cileni (dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche
sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della
Banca mondiale e della Cia), che pone il paese ai primi posti nel mondo per
diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos
cileni, pari a circa 270 euro.

salute ed educazione
Il problema dell’educazione pubblica – inefficiente, di
scarsa qualità e soppiantata da quella privata – ha generato le due rivoluzioni
studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente Bachelet
prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un
bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati:
il Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5%
del Pil) e uno dei tre – assieme agli 
Stati Uniti e al Messico – in cui la spesa sanitaria privata supera
quella pubblica.

ambiente

La questione ambientale è legata alle conseguenze dello
sfruttamento delle risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto Pascua-Lama
nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena),
delle risorse forestali (soprattutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche
(in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque
dell’arcipelago di Chiloé).

popolo mapuche

Mapuche – il principale gruppo indigeno del Cile e il terzo
per numero in America Latina – reclamano la restituzione delle loro terre a Sud
del fiume Bío-Bío (erano circa 100mila kmq), terre finite in mano a
latifondisti e compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla
disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione della Legge
anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio 1984 da Pinochet. Contro di essa si
levano non soltanto le proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle
organizzazioni inteazionali per i diritti umani e dell’Onu.

relazioni
inteazionali

Il Cile ha due contenziosi territoriali aperti, sia con il
Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della
cosiddetta Guerra del Pacifico che – tra il 1879 e il 1883 – vide contrapporsi
il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due paesi andini uscirono sconfitti
dal conflitto: il Perù perse la regione di Arica e la Bolivia il suo unico
sbocco al mare, sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio
2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia (Paesi Bassi) ha deciso sul
contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare
antistante i due paesi di un’area pari a circa 38mila km quadrati. Anche la
Bolivia aspetta per il 2015 una decisione della Corte internazionale che le
permetta di riacquistare uno sbocco al mare.

Paolo Moiola

Tags: Cile, Mapuche, Ezzati Andrello, chiesa e società, cardinali

Paolo Moiola




Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Storie e volti di Radio /1: Stella del Mare

Fondata nel 1982 da mons. Yse, la sua voce arriva fino
alle isole più piccole e remote dell’arcipelago di Chiloé. Con «Radio Estrella
del Mar» iniziamo un breve viaggio tra alcune emittenti latinoamericane. Tutte
con un Dna di servizio.

Castro (isola di Chiloé). La
sede sta a lato del Terminal rural, la
stazione da dove partono i micro
(minibus) per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa
una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal suo colore arancione.
Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores,
annunciatori o – per usare un termine ormai di uso comune – speakers. Mi
mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di tuo mette in onda un
annuncio commerciale.

Entriamo
in studio. Andremo in onda dal vivo. Sono venuto per fare un’intervista invece
mi ritrovo intervistato. Parlo con il mio spagnolo carico di sintassi e accenti
italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis
Eugenio e Clemente fanno il loro lavoro. «A esta
hora compartiendo su mañana en Estrella del Mar» (condividendo la
mattinata con voi), ripete il jingle agli
ascoltatori della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia
cilena (province di Palena e Aysén).

Dare voce a chi non ha voce

Padre
José Contreras Riquelme è direttore dell’emittente dal 2011. «La nostra è una
radio che vuole essere voce di chi non ha voce. Tuttavia, essendo un’emittente cattolica,
essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo
particolare, con caratteristiche orografiche e antropologiche molto diverse da
quelle del resto del Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo,
conferma: «Sì, anche in ragione del nostro essere isole, abbiamo mantenuto
costumi e tradizioni differenti, a ogni livello: sociale, culturale e
religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche noi ovviamente siamo
stati obbligati a cambiare e a modeizzarci, però senza mai perdere la nostra
identità».

Anche
a Chiloé e nella Patagonia cilena i progressi della tecnologia hanno portato
internet, i canali televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è
ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras. «Sì, ne sono sicuro.
La radio continua a essere un mezzo di comunicazione necessario e fondamentale.
La gente dice che “non esiste nulla come la radio”. In altre parole, nonostante
la grande quantità di mezzi di comunicazione esistenti la radio non può essere
sostituita. È uno strumento affidabile, attraverso il quale le persone possono
esprimersi, con interviste, domande, suggerimenti. Essa costituisce anche uno
strumento alla portata di tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che
risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la
nostra emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più
remote».

Dalle lotte di mons. Yse

Radio
Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura, quando ricopriva la
carica di vescovo mons. Juan Luis Yse de Arce, personalità di grande forza e
carisma, vincitore di prestigiosi premi. Nel 1976, il prelato aveva creato la «Fondazione
diocesana per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in
contrasto con il governo militare. Soprattutto quando questo diede il proprio
sostegno a un megaprogetto giapponese (Proyecto
Astillas de Chiloé) che avrebbe voluto sfruttare (e quindi
distruggere) il prezioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in
mons. Yse nacque l’idea di fondare un’emittente: Radio Estrella del Mar vide
la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8 emittenti: 4
nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e Achao), una nel piccolo
arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3 sul continente (Chaitén, Futaleufú e
Palena). Queste ultime in verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione
del vulcano Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le
risorse.

Radio
Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di vista economico. Come
sempre accade per le emittenti piccole e non commerciali, l’autofinanziamento
non riesce infatti a coprire le spese.

Lo
conferma mons. Juan María Agurto Muñoz che – nella sua veste di successore di
mons. Yse come vescovo di Ancud – è il proprietario della radio. «In questi
32 anni di vita ci sono stati momenti molto critici dal punto di vista
finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi immensi per
trovare sovvenzioni attraverso iniziative intee e aiuti di organizzazioni
inteazionali, quali Adveniat (Ong
cattolica tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni
caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come mezzo di
informazione, formazione ed evangelizzazione».

Nell’anno 2014

A
Radio Estrella del Mar lavorano circa 20 persone tra annunciatori, giornalisti,
tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore, 17 delle quali dal
vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete), ma anche alcuni spazi gestiti
autonomamente da ogni singola stazione.

Dato
che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e
non può non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è
libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una
sorta di autocensura? Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non
si nasconde né si proibisce alcun tema. Noi chiediamo soltanto a giornalisti e
annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le
informazioni, però sempre cercando di valorizzae gli aspetti positivi,
evitando morbosità e cattive intenzioni. In questo modo rispettiamo e siamo
rispettati».

Da
anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti con la politica
siano tranquilli. «Direi – risponde il direttore di Estrella del Mar – che non
abbiamo problemi particolari con i politici locali. Noi cerchiamo di essere
aperti a tutti e di essere giusti. Quando poi vediamo delle ingiustizie, le
denunciamo. Con chiarezza e con prove argomentate».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)

Questa serie


La radio non muore mai

Nei primi mesi del 2014 abbiamo visitato alcune radio
latinoamericane. Tutte legate alle Chiese locali. Tutte piccole, ma fortemente
radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la
mancanza di risorse). Tutte con la stessa forza propulsiva (l’entusiasmo dei
collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti
delle persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago García Gago,
autore del Manual para radialistas).

Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato
un dossier (Un mondo a misura di Radio) sulla realtà delle emittenti del Sud.

Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma il mondo è stato
trasformato dalla rivoluzione digitale. Incluso il mondo delle radio, che oggi
si possono ascoltare anche in streaming, ossia sfruttando la rete internet. Lo
fanno pure le radio da noi visitate, anche se la maggior parte dei loro utenti,
soprattutto quelli che vivono lontani dalle città, le ascoltano nel modo tradizionale,
non avendo alcuna connessione web, ma soltanto un banale apparecchio radio.
Immortale, almeno fino a oggi.

Paolo Moiola

Tags: Cile, radio, media, comunicazione

Paolo Moiola




L’Ong Lvia in Burkina Faso: Una storia lunga 40 anni

L’Ong Lvia ha da poco festeggiato i 40 anni di presenza in Burkina
Faso. Fondata nel 1966 da don Aldo Benevelli, 7 anni dopo i primi volontari
giunsero nell’allora Alto Volta. Da quel giorno tante realizzazioni, ma soprattutto
storie di persone, incontri, relazioni. Scopriamo
questa storia positiva che lega Italia e Africa dalle parole dei protagonisti.

Riccardo Botta è tornato in Burkina Faso per
festeggiare i 40 anni di attività dell’Ong Lvia (Lay
volonteer inteational association, www.lvia.it) nel paese. Lui
è stato tra i pionieri, nel primo gruppo di volontari che con Lvia sono partiti
alla volta del Burkina Faso. A Donsè, Riccardo metteva le basi di una storia.
Erano gli anni Settanta.

«È
ancora vivo nella memoria il momento in cui nel lontano ’73, su richiesta del
cardinale Paul Zoungrana, mettemmo piede in Alto Volta, come allora era
chiamato il Burkina Faso. Trovammo un paese sconvolto dalla siccità. Partimmo
in cinque per dar vita, con la diocesi di Ouagadougou e i ministeri della Sanità
e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo programma di cooperazione». Così
ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era poco più che
ventenne entrava a far parte del gruppo di giovani Lvia che allora – era il
1966 – si stava costituendo sotto la guida di un carismatico don Aldo
Benevelli. Continua: «Don Aldo era un prete guru; schieratissimo contro la
guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre spade in vomeri!”.
Erano anni di grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e
attivarsi».

Anni ruggenti

«Il nascente gruppo Lvia era figlio del clima post
conciliare – spiega don Aldo Benevelli, che ricorda i primi passi dell’associazione.
Con il Concilio Vaticano II si faceva strada l’idea di una Chiesa nuova e a noi
interessava soprattutto il rinnovamento del cristiano, come uomo che sta vicino
all’uomo. Nasceva a Cuneo un gruppo di giovani eterogeneo, cattolici, laici, provenienti
dal mondo del sindacato e dell’università, ma con uno sguardo sul mondo basato
sui medesimi valori».

Nel 1972 iniziava la grande siccità nel Sahel che colpì
oltre 50 milioni di persone. Una tragedia umanitaria che per la prima volta
portava alla ribalta sui grandi mass media mondiali questa, allora poco
conosciuta, regione africana. Dal contatto tra don Aldo Benevelli e i padri
Camilliani in Burkina Faso, nasce l’impegno di Lvia nel paese per affrontare la
carestia. Continua Riccardo: «Partimmo con alcuni giovani di Ivrea, dove mons.
Luigi Bettazzi aveva fondato un gruppo come il nostro. Nel villaggio di Donsè
costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo motorino ed
eravamo distanti dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate.
Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga),
raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto a base di
miglio e foglie. Eravamo gli unici cooperanti in quell’area e volevamo portare
un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza tra
noi e i cooperanti in capitale era abissale, tanto che eravamo soprannominati
“i mendicanti”».

Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile
della Diocesi di Ouagadougou, il partner che accolse Lvia in Burkina Faso. Oggi
ancora vicino all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era
stata annunciata nel 1972 in chiesa, nel quadro delle celebrazioni eucaristiche
in cui erano presentati i tre precursori della Lvia, dei “bianchi”. A seguito
di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a
Donsè, ospitati presso il Centro di formazione dei catechisti. Non tardarono a
iniziare le attività». Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e
la costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per il ricovero e
le consultazioni.

Africani: ruolo fondamentale

Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le
istituzioni erano più presenti. Ezio Elia è partito per il Burkina Faso nel 1989:
«Conoscevo la Lvia da sempre, fin da bambino andavo a messa alla cappella dei
ferrovieri da don Aldo Benevelli. La mia destinazione è stata la città di
Ziniaré. Lavoravamo con le autorità governative ma anche con i villaggi. Molti
dei miei colleghi erano burkinabè e il loro ruolo era fondamentale per
accompagnare i villaggi nella scelta delle infrastrutture da costruire – una
scuola, un pozzo, un mulino – per aiutarci a capire le dinamiche in atto
indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio un gruppo abbastanza
coeso da poter gestire una futura struttura».

Era il 1993 quando, alla fine di un lungo programma di
sviluppo integrato promosso da Lvia, il gruppo di animatori impegnati nel
progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati
raggiunti. Otto persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori
(Ask, acronimo in lingua locale, il mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è
un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central.

Un seme che dà frutto

I
quarant’anni di Lvia sono stati anche l’occasione per celebrare i vent’anni di
esistenza dell’Ask. Marcel Koutaba, il suo fondatore, ha iniziato negli anni
Settanta a lavorare con Lvia come autista. Accompagnava nei villaggi gli animatori,
che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività
agricole: «Ho potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo
dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la
crescente urbanizzazione, che stava sradicando la nostra cultura agricola e che
avrebbe ostacolato lo sviluppo del paese. Il mio interesse alle questioni
agricole ha portato Lvia a formarmi e quindi impiegarmi come animatore. Insieme
ad altri sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato
l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo
sviluppo di queste aree rurali, dove la popolazione viveva in piccoli villaggi
privi dei servizi di base. Questi interventi, però, non si sono limitati alla
foitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando maggiore
consapevolezza e competenza diffusa sul territorio. Queste competenze e lo
spirito associativo ci hanno supportato e ci hanno dato forza nella nostra
scelta di fondare l’Ask. Abbiamo cioè preso coscienza del nostro ruolo di
agricoltori e ci siamo resi conto di avere l’opportunità di rispondere ai
bisogni del nostro territorio, di unire gli sforzi per aiutare i nostri
connazionali a restare nel proprio paese vivendo del proprio lavoro».

Tra i
soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong cristiane Focsiv
– Volontari nel mondo, Gianfranco Cattai, che da molto tempo conosce
l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo dei
giovani, il pragmatismo delle donne, durante questi vent’anni l’Ask ha
sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei giovani, creando
opportunità di impegnarsi localmente e in molti casi evitando l’esodo verso la
città o l’emigrazione. L’Ask è un insieme di buone pratiche che noi in Italia
dovremmo conoscere, un percorso di persone che hanno creduto in loro stesse e
hanno avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della qualità
della vita della propria comunità».

Motivazione e passione

Oggi
l’équipe di Lvia in Burkina Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro
cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è
stata una scelta professionale. Ma c’è anche altro: «Ho colto l’opportunità del
servizio civile internazionale e sono partita con Lvia, facendo una prima
esperienza di cooperazione con cui ho potuto mettermi alla prova e capire se la
vita del cornoperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello
scegliere questa strada, c’è la consapevolezza che non si tratta solo di un
lavoro ma di una passione, di una forte motivazione, un credere nella
possibilità di generare cambiamento».

Dallo
stesso spirito sono mossi Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè
che non solo lavorano con l’Ong, ma sono protagonisti di questo movimento
associativo.

A
problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che si fa in
Burkina può influenzare gli stili di vita in Italia, le decisioni che si
prendono al Nord possono avere ripercussioni anche al Sud. Così, mentre lavora
in Burkina Faso per migliorare, ad esempio, sicurezza alimentare e ambiente, in
Italia Lvia cerca di sensibilizzare i cittadini a un consumo attento e
responsabile.

Marco
Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per lui, la
cooperazione non è solo una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo
realizzare, ad esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro
questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne
garantirà la sua conservazione e sostenibilità. Si ha la tendenza a immaginare
l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se si trattasse di
un flusso unilaterale. Invece, Lvia ha sempre messo l’accento sulla reciprocità
nel suo cammino e, in questi anni di cooperazione, i legami e le relazioni tra
gli uomini restano uno dei patrimoni più importanti. C’è una grande differenza
tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli
effetti, come partner. Non si tratta di svilupparle, ma di sostenere
un’iniziativa locale. Bisogna tirarsi su le maniche per lavorare e camminare
insieme. Per fare ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per
comprendere. Si dice che conoscere un villaggio significhi conoscere il mondo …».

Lia Curcio*
* Lia Curcio lavora all’Ufficio
Stampa Lvia in Italia.

Tag: Burkina Faso, Lvia, cooperazione, volontariato

Lia Curcio




L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella




Passione per Gesù e il suo popolo

Celebrare cent’anni di chiesa locale e un nuovo vescovo.

Il 27 gennaio scorso a Manzini, città principale
del regno dello Swaziland e sede dell’unica diocesi cattolica, c’è stata una
doppia celebrazione: si sono ricordati i cento anni dall’arrivo dei primi
missionari, ed è avvenuta l’installazione del nuovo vescovo, mons. José Luis
Ponce de Leon, missionario della Consolata. Seguiamo l’avvenimento con gli
occhi dello stesso vescovo.

La
preparazione

Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di
Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore, dalla morte del
vescovo Ncamiso Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato
di Igwavuma di cui ero vescovo, e subito mi ero reso conto che a genanio 2014
sarebbero stati cento anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del
regno, un’occasione eccellente per rinnovare l’impegno missionario della
diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è arrivata
anche la notizia della mia nomina. Passato il primo momento di panico, con i
miei collaboratori abbiamo pensato che la celebrazione del centenario avrebbe
ospitato anche la mia installazione.

Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando
dai vescovi del Sudafrica, che non solo hanno accettato di partecipare ma hanno
anche deciso di fare a Manzini l’incontro annuale di tutta la Conferenza
episcopale proprio la settimana prima. Naturalmente sono state invitate le
autorità, e anche sua Maestà il re Mswati III. Il primo ministro e diversi
ministri hanno accettato.

I giornali locali ci hanno aiutati a far conoscere a tutti la buona
notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la
celebrazione. L’avvenimento stava diventando sempre più grande e importante,
creando seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto si
sarebbe svolto nella cattedrale. Ma dopo le prime adesioni ci siamo resi conto
che troppa gente sarebbe rimasta fuori a guardare il cielo. Per questo abbiamo
spostato tutto nel salone polifunzionale del «Bosco Youth Centre», un grande
spazio coperto, quasi un palazzetto dello sport. Volevamo essere tutti
insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di
riempirlo.

Il libretto
del centenario

Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel quale si
evidenziavano alcuni punti importanti della storia della Chiesa swazi. Ne
riporto alcuni.

«Cento anni fa, il 27 gennaio 1914, i primi missionari cattolici
arrivarono in Swaziland. Erano membri dell’Ordine dei Servi di Maria (Osm)
mandati come gli apostoli a condividere la gioia del Vangelo, portando in cuore
una profonda passione per Gesù e per il suo popolo.

Lo sguardo sulla nostra Chiesa di oggi e il ricordo dei nostri inizi
ci richiama subito alcune immagini evangeliche:

* il seme di senape che è il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,31-32);
* i cinque pani e i due pesci che permisero a migliaia di persone di
mangiare a sazietà (Mc 6,34-44);
* e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la
parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua
presenza e guida.

«La celebrazione di questi primi cento anni è l’occasione per tutti noi
di ricordare con gioia tantissimi momenti del cammino fatto. Quanto è scritto
in questo libretto è davvero ben poca cosa rispetto a quanto celebriamo. Allo
stesso tempo ci ricorda che “è di vitale importanza che oggi la Chiesa continui
a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni occasione, senza
esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne
deve restare escluso” (Evangelii Gaudium 23).

Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere
Buona Notizia per tutti in ogni angolo del nostro paese e in tutto il mondo».

Mbabane, dove tutto è cominciato

La celebrazione del centenario si è svolta a Manzini, un posto
centrale. Ma ciascuno qui sa bene che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi
missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e andarono a Mbabane dove,
alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi «Mater
Dolorosa».

Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i
vescovi del Sudafrica proprio là. Venuti a Manzini per la loro assemblea
annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare
una visita a Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro.
Accolti dal Consiglio Pastorale, dopo la foto di rito, siamo andati in chiesa
per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con l’inno God’s Spirit is in
my heart
e dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata
– Omi, di Bloemfontain) ha presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt
28,16-20: il mandato missionario in cui Gesù dice ai suoi «Andate e fate
discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono con voi per sempre». E abbiamo pregato
così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare il Vangelo a tutto il
mondo e che hai guidato i missionari nella tua vigna in Swaziland, ti chiediamo
di continuare a guidare la tua Chiesa pellegrina e missionaria nel proclamare
il Vangelo a tutti. Attraverso lo Spirito Santo che ha animato gli apostoli
all’inizio della tua santa Chiesa, guidala oggi e sempre perché il tuo
messaggio d’amore possa raggiungere le orecchie dei poveri e dei ricchi per
farli diventare docili al tuo Santo Spirito, e il Regno di Dio nel tuo amore
giunga al suo compimento. Amen».

Cammino non
processione

Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere
assolutamente puntuali, così il 26 gennaio, domenica mattina, alle 9.00,
preceduti dalle majorette della St. Theresa’s School e dalla Salesian
Band
, siamo andati a piedi dalla cattedrale al Bosco Youth Centre.
Non era una processione. Non c’era un ordine preciso: i chierichetti sì
marciavano dietro la banda, ma tutti gli altri – vescovi, preti, laici e
religiosi – camminavamo insieme, fianco a fianco.

In verità molto prima dell’inizio della messa il palazzetto era già
pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un migliaio di
sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era decorato in modo splendido con
striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un
modo davvero creativo per dire: «Siamo qui, anche noi celebriamo il nostro
cammino nel regno dello Swaziland».

Entro le 9.30 noi preti e vescovi eravamo indaffarati a vestirci e
prepararci per la celebrazione. Ho approfittato del momento per salutare i
sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero stato vescovo fino a
quel giorno e di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del
Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo entrati in processione accolti da
un’esplosione di gioia.

Chiamato a
servire in un’altra diocesi

La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg,
mons. Buti Tlhagale, Omi. Era affiancato da mons. Stephen Brislin, arcivescovo
di Cape Town e presidente della Conferenza episcopale del Sudafrica, e dal
cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto sedere in mezzo
agli altri vescovi a lato dell’altare.

L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella
storia della diocesi che il nuovo vescovo non era consacrato a Manzini, ma solo
installato. Ha continuato citando una frase di papa Francesco ai preti: «Questo
vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore».

The Swazi Observer, il giornale nazionale,
ha così sintetizzato il suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la
celebrazione del centenario [dell’arrivo] dei Cattolici Romani [in Swaziland]
al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di Johannesburg
Buti Tlhagale ha sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che
distingue la Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il nuovo
vescovo José Ponce de Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che
un buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che era come dire
che il vescovo deve sempre identificarsi col popolo di cui è guida. Puzzare
come il proprio gregge
significa diventare uno con la gente. Quando le tue
pecore hanno fame, tu patisci la fame con loro, e quando condividono un buon
raccolto anche tu giornisci con loro. Puzzare come il gregge significa diventare
parte del tutto, piangendo con esso nei momenti di dolore e danzando con esso
quando c’è da celebrare. Tu diventi parte del gregge a tal punto da essere
sufficiente farti annusare per far sapere quello che sei.

Questo spirito è probabilmente lo stesso vissuto da Gesù durante il
suo tempo sulla terra. Ed è molto incoraggiante vedere che la Chiesa cattolica
romana vive di questo supremo ideale, in uno sforzo di semplificazione dei miti
della religione, e aprendo nello stesso tempo le porte a tutti, per dimostrare
che tutti sono benvenuti.

La Chiesa cattolica romana è stata veramente esemplare in tutto ciò, e
i suoi missionari hanno vissuto questo ideale fin dall’inizio. Questa è la
ragione che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i cuori
del popolo».

Quando è stato letto il Mandato papale, sono stato invitato a sedere
sulla «cattedra» (la sedia che nella cattedrale solo il vescovo in carica può
occupare). Una volta seduto mi hanno consegnato il pastorale. Non uno nuovo,
non l’ho voluto, ma quello del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo
di Manzini dal 1985 al 2012.

I vescovi sono poi venuti uno a uno a salutarmi mentre la segretaria
generale della Conferenza episcopale, suor Hermenegild Makoro, li presentava ai
fedeli di Manzini. Di seguito sono venuti i sacerdoti, i religiosi e i laici (i
presidenti dei consigli pastorali delle 15 parrocchie) per dare il benvenuto al
loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui.

A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium
di papa Francesco che tratta dell’impegno di annunciare il Vangelo
nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata sul centenario
dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato che l’esortazione fosse lo
strumento migliore per cominciare i prossimi cento anni.

Una volta installato, è toccato a me presiedere la celebrazione, come
nuovo padrone di casa. Le letture sono state proclamate in portoghese (la
lingua dei molti immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la
lingua locale), come si usa da queste parti durante le celebrazioni più
importanti.

La mano di
Dio al lavoro

Durante la predica ho insistito sull’idea che ora tocca a noi
continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati da Gesù
a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle tenebre e pescatori di
uomini e donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero ancora
un seminarista, un prete aveva detto in una predica che «Solo i matti credono
nelle coincidenze». «No – ho continuato -, noi non crediamo in coincidenze. Noi
crediamo nella mano di Dio al lavoro nelle nostre vite. Non ho scelto le
letture di oggi. Sono quelle ordinarie di sempre, che ogni cattolico può
ascoltare oggi in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo
giorno. Non è coincidenza, è la mano di Dio al lavoro tra noi oggi.

«Pensateci:

* Nel vangelo di Matteo
(4,12-23) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia,
insegnando e guarendo – e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso
ministero nel regno dello Swaziland a opera dei primi missionari cattolici
arrivati cento anni fa.

*  Vediamo Gesù che chiama
Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di
uomini – e noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di
uomini per noi: i padri Gratl, Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari
Serviti.

*  Vediamo Gesù andare in giro nella Galilea toccando la vita di ognuno – e
noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei primi missionari da Mbabane a
Mzimpofu, da Bulandzeni a Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi,
vogliamo anche ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri
Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e
di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite dello
Swazi, le suore missionarie del Perpetuo Soccorso, … e con loro anche tutti i
sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità.

Ma la Missione non è compito solo di preti e suore. Come Gesù nel
Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per
essere preparati e mandati a evangelizzare: i catechisti. I pochi preti e le
suore che hanno servito nel paese agli inizi, non avrebbero potuto ottenere i
risultati raggiunti senza l’aiuto dei catechisti».

Ho detto anche molte altre cose, troppe da
riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui per ricordare.
Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo Dio per tutto quello che ha fatto
per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre: Questo
non è un museo!
Non siamo qui solo per ricordare. Noi qui vogliamo
rinnovare il nostro impegno a continuare quello che abbiamo sentito nel Vangelo
di oggi. Noi ci impegniamo non solo a proclamare (con le parole) la “Buona
Notizia”, ma a essere (coi fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne diciamo troppe!
Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di Gesù. Discepoli missionari
che vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri».

Tutto bene

Durante l’offertorio ho scambiato poche parole con padre Sakhile
Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo
paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi ha rassicurato: tutto sarebbe
andato bene. E così è stato!

I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io ero
felicissimo di essere mandato nel punto più lontano dall’altare. Restare al
posto centrale non mi piaceva proprio, preferivo andare fra quelli che erano «più
lontani». E mi hanno accontentato. La gente aveva obbedito all’invito di non
scattare fotografie durante la celebrazione. Tutti erano stati fin troppo bravi
fino a quel momento. Ma quando si sono trovati il vescovo in mezzo a loro, la
tentazione è stata troppo forte!

Prima della benedizione finale ci sono stati i discorsi con
particolari ringraziamenti al Vicariato di Ingwavuma per aver donato il nuovo
vescovo allo Swaziland. Il primo ministro Sibusiso Dlamini ha ricordato il
grande contributo della Chiesa allo sviluppo del paese, e il principe Simelane,
che rappresentava il re Mswati III, ha sottolineato la scelta preferenziale dei
poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree attorno ai
Grandi Laghi, ndr) come una delle caratteristiche particolari dei
cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che accettano chiunque senza
distinzione di merito e di ceto sociale, dando a tutti la possibilità di avere
un’educazione di base.

Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco: «Fa’
di me uno strumento di pace». «Ditela tutte le mattine. La prima cosa da fare!
Imparatela a memoria. “Fa’ di me”: è il mio impegno. Non delego ad altri.
Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato, amato,
consolato, ascoltato? Sono stato luce, pace e speranza? Preghiera la mattina,
verifica la sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di
Dio. Niente è impossibile per Lui».

José
Luis Ponce de Leon
*

* Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato
prete nel 1986 e vescovo dal 2009.
_________________________

Testo tradotto e adattato da
Gigi Anataloni da bhubesi.blogspot.com


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José Luis Ponce de Leon




Malindi paradise! Per chi? (4)

In un groviglio di contraddizioni


Un altro turismo è possibile


Malindi
è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e
acqua limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del
commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. Abitata
da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina
cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto italiani e
tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le
tribù vi si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della
grande torta.

Ricordo bene una statistica: ogni giorno-turista equivale
a un giorno-lavoro per un keniano. Più turisti ci sono, più gente lavora.
Niente turisti, niente lavoro. è
una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo
vacilla a causa di disordini, attentati terroristici o gravi eventi inteazionali.

Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di
ogni programma governativo. Malindi, in tale contesto, offre incentivi di
prim’ordine: alle splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo
Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a
iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e a una serie di
servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che,
appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere, coinvolge i visitatori nel sostegno
a progetti di sviluppo in favore della parte più povera della popolazione
locale: scuole, dispensari, centri per bambini abbandonati e denutriti,
esperienze pilota con i disabili, e tanto altro.

Anima di questo turismo diverso spesso sono proprio i
nostri connazionali che vivono sulla costa da anni, facendone la loro seconda
patria.

Ma dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di
travalicare, di corrompere, di prendere scorciatornie è sempre molto forte. Così
Malindi attrae solo persone di sani principi e provata onestà. Speculazione
edilizia, corruzione, gioco d’azzardo, pedofilia, prostituzione, escorts
e droga hanno trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono sia i cosiddetti
investitori stranieri (si dice che la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato
per il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese partecipi dei facili
guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova.

Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli
indigeni pensano a rifornire il mercato di «carne fresca». Salvo l’esplosione,
di tanto in tanto, di qualche campagna anticorruzione o moralizzatrice,
soprattutto nella vicinanza di elezioni.

Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un valore
simbolico.

Un medico italiano gode della fresca compagnia di una
fanciulla locale per un mese pagando 100 dollari. Beneficiario della somma: il
padre della ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo stesso padre offre la
seconda figlia, e in seguito la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per
ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato con gli amici?

Una bambina o un bambino di 10-12 anni con una
prestazione o due la settimana guadagna più di suo padre che sgobba dodici ore
al giorno in un cantiere, a pescare o a far da guardiano alle ville dei ricchi.
E la famiglia è «contenta» perché almeno così tutti mangiano.

Una maman ben vestita e piena di soldi, da aprile
in avanti va nei villaggi più remoti in cerca di fanciulle che hanno appena
saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non hanno la
possibilità di continuare gli studi, per offrire loro un «lavoro sicuro sulla
costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi dopo quelle giovani si
trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di
sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro
famiglie.

Una studentessa universitaria, approfittando delle
vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa per pagarsi gli studi: la famiglia
infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non ha più mezzi
per gli altri sette e la tesi finale.

Un giovanotto di belle speranze di una tribù
dell’interno lascia il suo villaggio di campagna dove non ha prospettive e
sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in visibilio il pubblico
con danze autenticamente tradizionali.

Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu
e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta a un ring
di prostituzione.

Di questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta,
ne avrei ancora molti da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati
per dire che quanto scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma un
problema reale e preoccupante sia a livello keniano che internazionale.

La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di
Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa, l’Associazione nazionale delle suore e
diverse Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in Distress – vedi
box), hanno programmi specifici sia per prevenire che per curare e recuperare.

Non è nostra intenzione puntare il dito contro il
turismo in quanto tale. Desideriamo solo che coloro che vanno in vacanza in
Kenya, o sulle sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si rendano conto
della situazione e vedano la realtà con occhi critici. Il turista non va in
vacanza per fare il missionario e vuole qualità corrispondente ai soldi che
paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone
che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di 80
euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di
candidati pronti a prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è
consderato un ricco agli occhi degli indigeni. La maggior parte di loro non può
permetteri una vacanza, tantomeno in Europa.

Prostituzione, pedofilia, traffico di persone, droga,
gioco d’azzardo, corruzione… sono prodotti di importazione. Essi hanno
attecchito bene, certo, ma prosperano perché la domanda è alimentata da un
mondo in cui con i soldi si pensa di potere avere tutto, anche le persone.

Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti
hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia
del bene a tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto reciproco.

Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con gli
occhi aperti e il cuore in mano.

Gigi
Anataloni

SolWoDi

Solidarity with Women in Distress:

Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa
suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa, opera soprattutto con ragazze ad alto
rischio tra i 6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi, Kwale e
Kilifi.

Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha una vita migliore.
Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini
vittime di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle persone a
ritrovare la propria dignità, migliorare il loro stato legale e
socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro
potenzialità umane».

Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle prostitute;
contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione
dei bambini; sostegno economico e football per ragazze.

Contatto: www.solwodi.co.ke

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Gigi Anataloni