Storie sconvolgenti di migrazione e
mercanti di carne umana.
In questa storia la realtà supera la
fantasia più perversa di un film dell’orrore. Donne, uomini, bambine, bambini
sono rapiti, venduti, torturati. Molti muoiono. Nel silenzio internazionale.
Eppure i dati ci sono, le testimonianze pure. Qualche associazione combatte per
salvae alcuni. E far conoscere le loro storie.
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Il
naufragio dei migranti a Lampedusa, il 3 ottobre 2013, con i suoi 396 morti,
ha commosso l’Italia. Molti di loro erano eritrei. Ma per quasi tutti quello
era solo l’ultimo passaggio di un viaggio terribile iniziato nel loro paese. Un
percorso che ha avuto una tappa dolorosa nei «campi di tortura» del Sinai. Dai
quali molti altri non sono usciti vivi.
Piccolo migrante
«Ho 11 anni e vivo al Cairo. Non sono egiziano. Non ho né
papà né mamma qui. Vivo con mio fratello di 8 anni e le mie sorelle di 13 e 15
anni. Eravamo insieme nel campo di tortura. Ah sì, c’è anche il mio fratello
maggiore con noi. Nel mio paese devi fare l’ultimo anno di scuola al servizio
militare. Se non vai ti vengono a prendere. Ma i miei genitori avevano sentito
brutte cose sul servizio. Così mio padre decise di portarci via, in un luogo
sicuro.
Lasciammo mia madre e partimmo nascosti dietro a un pick
up. Arrivammo in un altro paese. Non capivo la lingua, ma c’erano molte
persone del mio paese. Mio padre andò in una grande città. Ci avrebbe aiutati
da laggiù. Quando fummo soli nel campo vennero alcuni uomini e ci obbligarono a
partire con loro. Eravamo di nuovo su un’auto e fu un viaggio molto lungo. Il
mio fratello maggiore ci disse di stare nella macchina, così non ci avrebbero
uccisi. Lui sarebbe scappato per cercare aiuto. Penso che sarebbe stato meglio
se fossimo scappati tutti. Nel luogo in cui arrivammo ci picchiarono e ci
fecero molto male. Eravamo tutti doloranti. Fecero delle cose con le mie
sorelle, ma non posso parlare di questo. Alla fine non potevo neppure piangere,
ero troppo stanco.
Poi, un giorno, ci dissero di andare. Mio fratello ci
aspettava al Cairo. Si era procurato molto denaro.
Qui adesso abbiamo diversi problemi. Non abbiamo un buon
posto dove stare e la gente è sempre arrabbiata con noi. Vengono e prendono le
nostre cose.
Abbiamo parlato con mio padre al telefono e ci ha detto
di essere coraggiosi. Gli ho chiesto perché non può venire. Mi ha detto che ci
vuole tempo per i documenti. Non
capisco, voglio vederlo.
Ho parlato anche con mia madre. Ringraziava Dio che mi
stava parlando. Non so perché fosse così contenta. Voglio andare a casa».
Nella rete dei mercanti di uomini
Eritrea. Paese definito «Una grande prigione a cielo
aperto», dalla quale tutti cercano di scappare. E sono infatti in maggioranza
eritrei coloro che, lasciato il paese a rischio della vita, finiscono nella
rete dei trafficanti di esseri umani, venendo venduti da un gruppo all’altro
fino ad arrivare nel Sinai. Qui si trovano i «campi di tortura» vergogna
dell’umanità.
Quella riportata sopra è solo una delle terribili
testimonianze raccolte nel rapporto The human trafficking Cycle: Sinai and
Beyond realizzato da due ricercatrici olandesi e da una giornalista eritrea
(vedi box). Il rapporto descrive i
meccanismi del traffico, le persone implicate, i luoghi, i numeri. Il 3
dicembre scorso è finito sul tavolo di Cecilia Malmström, commissario europeo
per gli Affari interni, e una settimana dopo è stato presentato alla Camera dei
deputati a Roma.
I numeri del business dei mercanti di uomini sono
impensabili. Il rapporto calcola in 25-30.000 le persone trafficate dal 2009 a
oggi, con un «giro d’affari», perché di affari si tratta, dovuto ai riscatti,
di oltre 622 milioni di dollari. Ma circa il 25% di chi è finito nei campi di
tortura del Sinai non ce l’ha fatta, e sarebbero 5-10.000 persone uccise o
morte di torture e maltrattamenti nel periodo considerato. La lista di torture
inflitte secondo le testimonianze è agghiacciante. «La mercificazione
dell’essere umano, dell’ostaggio, si ottiene anche con atti di violenza che lo “spogliano
delle sue qualità umane”» scrivono le ricercatrici.
Un passo indietro
«Negli ultimi 13 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È
un paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani
che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato
per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L’assenza totale di una prospettiva
diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare
gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c’è totale
assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono
essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato
una schiavitù legalizzata. Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro
diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più».
Chi parla è don Mussie Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati
eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia (vedi
box). Don Zerai, che vive tra Roma e la Svizzera, è diventato un riferimento
per i migranti eritrei, che gli telefonano dalle situazioni più difficili.
L’inizio della «via del Sinai»
«I primi a contattarci sono state persone respinte
dall’Italia verso la Libia. Era il 2009, l’epoca dei respingimenti. Quei
migranti avevano cercato un altro percorso, volevano passare da Israele, e sono
stati i primi a essere sequestrati nel Sinai. Erano un’ottantina. Quando, sotto
tortura, hanno detto loro di chiamare i famigliari per il riscatto, hanno
chiamato me, perché eravamo in contatto quando erano in Libia. Così abbiamo
scoperto un traffico immane: in quel periodo c’erano più di 1.500 ostaggi in
quella zona». I prigionieri sono incatenati nei sotterranei di ville e case
delle città del Nord del Sinai, Al Arish, Al Rafah e altre. Qui avvengono
violenze, stupri di gruppo e torture. Queste prigioni sono spesso costruite con
i soldi del traffico.
«Abbiamo cercato di aiutare le famiglie di quei
sequestrati, per salvare soprattutto donne e ragazzine incinte, o che
rischiavano di essere vendute nei paesi arabi e finire nel giro della
prostituzione o usate come schiave. Abbiamo raccolto fondi ma le richieste sono
presto aumentate da 8.000 a 40-50.000 dollari a persona (da 6.000 a 40.000
euro, ndr). Abbiamo aiutato una quarantina di persone a salvarsi. Ci ha dato una mano anche un beduino
contrario al traffico, che di notte faceva fuggire gli ostaggi e noi pagavamo
loro il trasporto».
Ma come inizia il terribile viaggio del migrante
eritreo? «È una catena che parte dall’Eritrea, al confine con il Sudan, nella
regione di Kassala: il primo sequestro avviene lì. Se paghi immediatamente e
sei fortunato, ti rilasciano e puoi continuare verso Khartum, se invece non
puoi pagare, ma talvolta anche se paghi, ti vendono ad altri gruppi, così il
viaggio prosegue verso l’Egitto» continua don Zerai.
Molti rapimenti avvengono nei tre campi profughi di
Shagarab, nella provincia di Kassala. L’Unhcr ha registrato 114.500 rifugiati
eritrei in Sudan. Senza contare quelli non registrati. Per arrivare lì i
migranti hanno già dovuto pagare 2-3.000 dollari ai «contrabbandieri» di esseri
umani per farsi portare fuori dall’Eritrea. Altri vengono rapiti nei campi
profughi in Etiopia, dove sono presenti oltre 70.000 eritrei.
Ma il rapporto delle ricercatrici racconta anche di
sequestri avvenuti in territorio eritreo,
nelle città di confine, come Teseney e Golij, e addirittura in capitale, ad
Asmara. Spesso i sequestri di giovani avvengono negli stessi campi militari
eritrei e sono auto ufficiali a portarli oltre confine. Nell’ottobre 2013 si
sono verificati 211 rapimenti di minori nel campo militare Sawa, per ognuno dei
quali è stato richiesto un riscatto di 10.000 dollari. Racconta don Zerai: «Stando
alle testimonianze di molti ragazzi ci sono militari eritrei coinvolti negli
attraversamenti dei confini: basta pagare e vieni accompagnato con auto di
stato fino alla frontiera, in alcuni casi addirittura in territorio sudanese.
C’è un business, e qualcuno dei pezzi grossi militari ci sta
guadagnando. Questa migrazione, inoltre, viene usata come valvola di sfogo dal
regime: tenere tutti i giovani in casa senza cambiamento e prospettive si
rischierebbero delle rivolte, come le primavere arabe in Nord Africa».
Esseri umani contro esseri umani
Elementi dell’Unità di controllo dei confini (Border
surveillance unit, Bsu) sono coinvolti nel «contrabbando» di persone. I
rapporti di monitoraggio delle Nazioni Unite citano il coinvolgimento del
governo eritreo e di alti ufficiali nel traffico. In particolare il generale
Teklai Kifle (detto Manjus), comandante della Bsu, e il colonnello Fitsum
Yishak sono stati identificati dalle Nazioni Unite come i vertici del traffico
in Eritrea.
In Sudan i trafficanti sono elementi delle tribù Rashaida
e Hidarib, spesso accompagnati da loschi individui eritrei. Queste tribù
sono imparentate a livello linguistico ed etnico con i beduini del Sinai ed è
con loro che è nata l’intesa per il traffico. I Rashaida rapiscono i
migranti eritrei in Sudan (anche dentro i campi profughi gestiti dall’Unhcr) e
li trasportano in Egitto dove li vendono ad altri gruppi che li portano nelle
prigioni clandestine (i campi di tortura) nel Sinai. Qui i beduini applicano le
torture più atroci e obbligano i prigionieri a chiamare parenti e amici per
chiedere di mandare i soldi del riscatto. I trasferimenti avvengono tramite Money
Transfer verso intermediari in paesi terzi (ad esempio Arabia Saudita)
senza alcuna tracciabilità. Nonostante il pagamento talvolta i prigionieri non
vengono liberati, ma venduti ad altri trafficanti. Gli ostaggi liberati cercano
di andare verso la Libia e poi tentano di attraversare il Mediterraneo con i
barconi. Come molti dei morti del 3 ottobre. Altri ancora vanno verso
l’Etiopia. In alcuni casi il riscatto viene pagato dai parenti direttamente in
Eritrea, e questo fa pensare a coperture altolocate, in un paese dove nulla si
muove senza che i servizi segreti lo sappiano.
Negli ultimi mesi del 2013 l’Egitto ha bombardato la
zona dei campi di tortura per questioni di sicurezza con Israele. Questo ha
fatto sì che alcuni trafficanti li spostassero altrove: «Le nuove “prigioni”
sono a Sud dell’Egitto, nel triangolo Libia, Egitto, Sudan ma anche verso il
Ciad. I testimoni ci dicono che sono passati di lì, da quell’inferno. Tenuti in
container roventi dove venivano torturati per richiedere il riscatto con
il solito sistema. Se non paghi ti vendono verso il Ciad. A novembre un somalo è
stato arrestato a Lampedusa perché riconosciuto dagli eritrei come
collaboratore dei trafficanti che li tenevano prigionieri. Lui li picchiava e
abusava delle donne. E questo avveniva al confine Libia-Ciad. Adesso hanno vari
punti di prigionia, anche verso il Niger. In Sinai i campi di tortura
continuano a funzionare, ma non più come prima». «Sono circa 400 gli eritrei
tenuti in ostaggio, oggi in Sinai. Alcuni sono incatenati nelle cantine delle
case dei beduini, altri in case e altri ancora in tende nel deserto, ma è
difficile localizzarli con esattezza. I metodi di tortura sono sempre gli
stessi». Chi parla è Meron Estefanos, giovane giornalista eritrea che ha curato
il rapporto citato insieme alle due ricercatrici olandesi.
Perché eritrei?
Il traffico pare molto più redditizio con gli eritrei
che con etiopi, somali, sudanesi. Si stima che il 95% degli ostaggi in Sinai
siano eritrei. Questo è dovuto a diversi fattori. Intanto la fuga di massa dal
paese. Sono circa 5.000 gli eritrei che lasciano il paese ogni mese (4.000 per
Unhcr). In secondo luogo i legami famigliari e sociali in Eritrea sono molto
forti e la famiglia rimasta in patria mobilita interi villaggi per racimolare i
soldi del riscatto. Vengono poi presi di mira figli e parenti di eritrei della
diaspora, per la maggiore
disponibilità economica. Molte vittime del traffico sono minori, si contano
anche bambini e bambine
piccoli e molti adolescenti in fuga dal servizio militare eritreo. Le ragazzine
subiscono i traumi maggiori e spesso restano incinte.
La lotta al traffico di esseri umani non sembra essere
prioritaria per i paesi di transito. «Non si può fare affidamento sui governi
di Sudan ed Egitto, perché il
sistema è totalmente corrotto». Nel 2010 e
2011 l’Ong di don Zerai raccoglieva indicazioni precise sulle localizzazioni
delle prigioni clandestine e le segnalavano alla polizia egiziana: «I militari
sapevano dove stavano le prigioni clandestine ma non intervenivano, erano
spesso a libro paga dei trafficanti. Inoltre questi ultimi sono molto armati,
ed è successo che assaltassero le stazioni di polizia per prendere gli eritrei,
profughi arrestati dai militari egiziani mentre cercavano di attraversare
illegalmente la frontiera con Israele».
«Gli interessi militari egiziani in Sinai - continua
Meron Estefanos - riguardano solo la caccia agli islamisti. Molte case prigioni
sono state distrutte e 150 eritrei liberati. Purtroppo gli stessi sono stati
poi arrestati dalla polizia egiziana. Il Sudan sta facendo molte promesse di
lotta al traffico, ma esso è invece in forte aumento nel paese».
Deboli le voci di Ue e Italia
L’Unione europea e l’Italia non sembrano intervenire.
Continua don Zerai: «È dal 2010 che bussiamo alla porta della Ue. All’inizio
fecero una risoluzione affinché le autorità egiziane intervenissero contro
questi campi di tortura nel loro territorio, ma l’Egitto negava l’esistenza del
problema, anzi ci accusava di denigrare l’immagine del paese. Poi ha riconosciuto
i fatti, quando Cnn e Bbc hanno documentato corpi martoriati e ferite dei
sopravvissuti del Sinai, ma non ha fatto niente. Non vediamo i risultati delle
pressioni diplomatiche della Ue. Anche in Italia è lo stesso: ci hanno promesso
una commissione d’inchiesta sull’Eritrea. Ma, finora, è una delusione». Rincara
Meron: «Non abbiamo avuto reazioni né dalla Ue né dall’Italia. L’unica notizia
positiva è che la Svezia, a fine dicembre, ha dato asilo a 54 donne e un bimbo
vittime del traffico in Sinai».
L’Italia è uno dei paesi che continua a mantenere
contatti con il regime Afewerki. Denuncia ancora don Zerai: «Ue e Usa chiedono
all’Italia di non rompere le relazioni, per essere un canale di contatto. Ma
secondo quello che ci dicono alla Faesina (ministero degli Esteri italiano, ndr)
il rapporto è piuttosto conflittuale. Poi ci sono degli affari loschi tra i due
paesi. L’ultimo rapporto dell’inviato speciale dell’Onu accusa l’Italia di aver
violato l’embargo sulle armi. Ci sono state vendite strane da parte di aziende
e personaggi italiani all’Eritrea. Inoltre, i pezzi grossi del regime sono di
casa in Italia quando invece non dovrebbero ricevere i visti. Questo rapporto
non è ancora approvato, perché uno dei paesi che ha messo il veto è l’Italia».
Marco Bello
La testimone
Interviste che lasciano il segno
«Quello che è duro in questo lavoro è parlare con gli
ostaggi, l’attaccamento con loro. Diventano parte della mia famiglia. Sono
molto colpita quando qualcuno con cui ho parlato muore. O quando magari sono io
che devo comunicarlo alla famiglia. Una donna alla quale mi ero legata morì, e
questo mi toccò moltissimo. Piango sempre quando sento il suo nome. Lei era
stata rapita con suo figlio ed è stato difficile per me accettare la sua morte.
Adesso sto cercando di adottare il suo bimbo. In questo senso la parte più dura
del lavoro sono le loro storie. Continuerò a monitorare il traffico finché non
finirà».
Meron Estefanos
Meron Estefanos è una giovane giornalista eritrea che vive
in Svezia. Attivista dei diritti umani, fin dall’inizio ha lavorato sul
traffico di esseri umani in Sinai. È coautrice di Human trafficking in the
Sinai: refugees between life and death, e di The human trafficking cycle: Sinai
and beyond, insieme a Mirjiam van Reisen e Conny Rijken (entrambe docenti alla
Tilburg University, Paesi Bassi) e di numerosi articoli. Meron è cofondatrice
della Inteational Commission on Eritrean Refugees in Stoccolma e nel 2011 ha
ricevuto il Dawit Isaac Award.
L’Ong Agenzia Habeshia
Una goccia di solidarietà
L’associazione fondata da don Mussie Zerai si chiama Agenzia
Habeshia. È costituita da eritrei e italiani. Oltre alla missione di informare,
fare conoscere le traversie dei migranti eritrei e la situazione dei diritti in
patria, l’associazione è diventata riferimento per rifugiati e richiedenti
asilo.
Dopo aver aiutato a salvarsi diversi migranti finiti nella
rete dei trafficanti del Sinai, oggi concentra le sue attività in progetti di
educazione. Offre borse di studio a giovani eritrei, in particolare donne, nei
campi profughi dell’Etiopia. Lo scopo è permettere loro di studiare per cercare
di costruirsi un futuro.
Don Zerai: «È un tentativo di frenare i giovani che spesso
fanno scelte dettate dalla disperazione. Vivere nei campi profughi vuol dire
stare fermi, senza speranze per il futuro. Più della metà dei morti del 3
ottobre sono partiti dai campi profughi degli eritrei in Etiopia. I giovani
dicono: “Sappiamo che c’è il rischio, ma tra morire lentamente qui e morire
tentando la sorte preferisco questa seconda opzione”».
Facendo visita ai campi don Zerai nota diverse tombe. Gli
dicono che sono ragazze morte di parto all’interno del campo, perché, oltre a
subire le violenze, poi non hanno nemmeno strutture sanitarie a disposizione:
«In un campo di 14.000 persone c’è una sola ambulanza. Perché non formare
infermiere e ostetriche che poi possano tornare nei campi a lavorare? Abbiamo
scelto donne che hanno subito violenze sessuali e abbiamo proposto loro di
studiare tre o quattro anni. Occorrono circa 3.000 euro all’anno per far
studiare una ragazza. «Siamo una goccia» conclude il sacerdote.
Ma.Bel.
Marco Bello