Senza dono, che Natale è?

Il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure, al contrario, una spina nel fianco del materialismo?

Una conversazione col teologo Roberto Repole.

Dopo il lungo mese di Novembre, quello in cui le giornate si accorciano drasticamente e inizia a fare freddo, in cui si sente una certa malinconia, ecco finalmente Dicembre, il mese del Natale.

Si accendono le luci colorate per le strade, in casa si crea spazio per il presepe e l’albero, quotidianamente i bimbi aprono le finestrelle del calendario dell’Avvento dietro cui si nascondono dei poco sobri cioccolatini. Chi ha una vita spirituale si confronta con la realtà dell’incarnazione di Dio, con le figure di Maria, Giuseppe, Gesù bambino, Elisabetta, e così via. E si pensa ai regali.

Spesso, proprio riguardo ai regali, capita di sentire una lotta interiore: la spinta spontanea al dono si scontra con la sensazione di essere usati dal mercato, di renderci complici della riduzione del Natale, delle nostre relazioni, del mondo intero a una corsa consumistica.

Ci è così tornato alla mente un piccolo libro dal titolo Dono, che parla proprio di questo dilemma, e abbiamo conversato con il suo autore: don Roberto Repole, classe 1967, sacerdote della diocesi di Torino che insegna alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e che, dal 2011, è presidente dell’Associazione teologica italiana.

Cominciando da Babbo Natale

Il primo capitolo del libro di Repole si apre proprio con il racconto dell’attesa di una bimba per il suo regalo di Natale, e pone subito al lettore una domanda piuttosto provocatoria: il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure è, al contrario, una spina nel fianco del materialismo? Per arrivare alla conclusione che il dono (quello vero) è una spina nel fianco del materialismo consumista, il testo compie un percorso che inizia da un’interpretazione molto bella, a nostro modo di vedere, della figura di Babbo Natale. «Nell’era del capitalismo e del consumismo – ci dice don Repole -, anche una tradizione come quella del regalo natalizio rischia di essere assorbita dai dinamismi consumistici. Ciò non toglie però che l’atto di scambiarsi doni a Natale riveli la nostra resistenza umana proprio ai meccanismi del consumismo, perché dice che gli uomini non sono soltanto mercato. Ad esempio la figura di Babbo Natale, individuo che porta regali venendo da un luogo sconosciuto, rappresenta simbolicamente il fatto che la vita stessa ci è stata data da qualcuno, e arriva da lontano». Babbo Natale è un uomo anziano. Sembra più un nonno che un babbo. Don Roberto suggerisce che anche questo è un simbolo, quello del legame tra le generazioni: «Ciò di cui viviamo è frutto non soltanto di chi ci ha immediatamente preceduti, ma ci è donato da tutta l’umanità vissuta prima di noi. Cosa su cui non riflettiamo mai a sufficienza, soprattutto perché la logica capitalistica ci spinge a pensare che siamo noi gli unici protagonisti e artefici di noi stessi». Babbo Natale esprime una comunione più profonda di quella che i nostri occhi carnali possono vedere: «Siamo in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto, non fosse altro che per il fatto che loro hanno permesso a noi di vivere la nostra vita così come la viviamo. La consapevolezza del legame tra le generazioni andrebbe recuperata, perché in questo momento storico corriamo il rischio di mettere una generazione contro l’altra invece di sottolineare il debito che ciascuna ha nei confronti della precedente e la responsabilità nei confronti della successiva».

Il pranzo di Natale

Anche l’invito al pranzo di Natale o alla cena della vigilia, come la figura di Babbo Natale, ha un suo senso profondo che oltrepassa quello della gioia dello stare assieme: invitare qualcuno a un pasto singnifica donargli qualcosa di nostro allo scopo di nutrirlo, donare la vita. «Dal punto di vista del cristianesimo è fonte di grande riflessione il fatto che Gesù ci abbia consegnato la certezza della sua presenza proprio dentro un pasto. Il pasto ha per gli uomini qualcosa di altamente simbolico. Il bisogno di nutrirci non è soltanto a un livello biologico. Con il pasto esprimiamo la consapevolezza fondamentale che non ci diamo la vita da soli, e che abbiamo bisogno di prenderla da fuori. E il fatto stesso di mangiare insieme dice che noi umani riceviamo e nello stesso tempo offriamo la vita agli altri. L’invito al pasto, soprattutto in contesti di grande povertà, significa “io, per una volta, mi prendo cura della tua vita”».

Il dono contraffatto

Ma, domandiamo a don Roberto, la realtà del dono è sempre positiva? Pensiamo ad esempio ai regalini dei pacchetti di merendine, per nulla disinteressati, alle donazioni che i paesi ricchi fanno ai paesi poveri potenziando un circolo vizioso di dipendenza dei secondi dai primi, a un certo atteggiamento di «dispensare carità» che, con il donare ai poveri, certifica e rafforza la loro condizione di emarginazione invece di includerli. «Il dono può essere contraffatto nel momento in cui non si riflette a sufficienza su quello che c’è in gioco in esso. Ad esempio il dono diventa negativo quando è sempre e soltanto unidirezionale. In un caso del genere si crea una strutturale disuguaglianza tra gli uomini. Qualcuno dona e qualcuno riceve senza possibilità di scambiare i ruoli. Nel dono autentico invece, nel momento in cui doniamo riceviamo.
Quando faccio un dono a qualcuno, come minimo ricevo da lui la possibilità di fargli un dono. Sono attivo, ma nello stesso tempo anche passivo: tutti siamo insieme donatori e donatari».

Il mercato è una grande cosa

Don Roberto con la sua voce cordiale pronuncia le parole «dono autentico», ma a noi viene da chiederci se il dono vero sia possibile, soprattutto in un mondo che sembra sempre più ridotto a mercato, in cui la logica del mercato, dello scambio, sembra un destino a cui non possiamo sottrarci. Viviamo in un tempo in cui la speranza fatica a sopravvivere. «Il mercato è una grande cosa, ma è una realtà dentro un’altra realtà ben più grande che è la società umana. La crisi economica in cui oggi viviamo è solo una parte di una crisi più ampia: il concepire la società come fosse nient’altro che un mercato. In tutti i settori, l’educazione, la scuola, la salute, gli affetti, noi rischiamo di pensare secondo la logica del mercato, cioè secondo una logica del pareggio: io dò qualcosa per ricevere in contraccambio qualche cosa di uguale e contrario.
Quando riduciamo la società a questo, perdiamo qualcosa di fondamentale della nostra umanità. Mi pare che oggi abbiamo ridotto la società alla logica del pareggio, e reagiamo alla crisi prodotta da essa con la stessa logica. Incapaci di vedere che noi siamo ben altro».

Sembra quasi che la mancanza di speranza nella nostra epoca derivi in qualche modo dall’idea che il mercato sia una specie di destino inesorabile, contro cui non si può fare nulla. «È così! La speranza fiorisce laddove c’è l’imprevedibile. E il dono, la gratuità, è sempre qualcosa di imprevedibile perché non lo possiamo produrre noi, viene dalla generosità altrui, gratuita. La speranza secondo me invece muore laddove abbiamo ridotto la società soltanto a ciò che possiamo prevedere e governare».

La «banalità» del dono

Dalla conversazione con don Roberto sembra emergere che il dono sia una realtà meno banale di quanto sembri a prima vista. Ad esempio, nel suo libro dice che, mentre il mercato ha una logica dello scambio proporzionato tra dare e avere, il dono invece ha una logica dello scambio sproporzionato. Mentre il mercato elimina il rischio, la gratuità, la relazione, la libertà, la responsabilità; il dono li prevede tutti. «Il dono funziona secondo una logica della sproporzione. Quando io ricevo un dono, viene a crearsi un disequilibrio tra me e il donatore, tant’è che mi viene spontaneo dire “grazie, non dovevi, non era il caso”. Queste parole servono a dire che tra me e il donatore si è creato un disequilibrio che a sua volta esprime qualcosa di fondamentale, cioè l’assoluta libertà di chi fa il dono e la sua imprevedibile generosità. Lo squilibrio però non viene mantenuto perennemente. Io infatti posso contraccambiare, sempre secondo la logica del dono: non sarà qualcosa di dovuto, sarà qualcosa di libero e gratuito. All’affermazione della mia persona che c’è stata da parte di chi mi ha fatto il dono, rispondo con l’affermazione della persona dell’altro contraccambiando il dono». Si tratta di uno scambio, ma di uno scambio totalmente differente da quello economico. Perché legato alla gratuità, alla libertà, alla fiducia.

«Nella sproporzione, nella disuguaglianza che si crea donando, si afferma un interesse fondamentale: l’interesse alla persona dell’altro. Per questo mi sembra che una società umana sia radicata fondamentalmente, come dicono molti acuti sociologi, proprio in questa dimensione del dono».

E se il cuore di tutto fosse dono?

Siamo partiti da Babbo Natale e siamo arrivati a dire che l’umanità è fondata sul dono. Se una riflessione di questo tipo viene proposta da un teologo è probabile che in qualche modo c’entri anche Dio nella questione. Lo chiediamo a don Repole, ricordando che uno degli ultimi capitoli del suo libro si intitola «E se il cuore di tutto fosse dono?», cioè, se all’origine di tutto, quindi anche dell’uomo, ci fosse il dono?

«C’è tutta una tradizione che ci dice che a Natale è Gesù bambino a portare i doni. Non è un caso che proprio nel giorno di Natale, nella tradizione cristiana, abbiamo instaurato la prassi rituale del dono: in qualche modo è Gesù Cristo stesso, in quanto figlio di Dio fatto uomo, a parlare del dono che Dio ha fatto di se stesso all’umanità. Gesù, dono di Dio, è il fondamento dell’esistenza stessa del mondo e dell’umanità. Noi siamo purtroppo abituati in modo catechistico a pensare che dapprima c’è l’uomo, poi il suo peccato, poi di conseguenza arriva Gesù che ci salva dal peccato. Questo è vero, ma va inserito in un orizzonte ancora più grande: Dio crea il mondo pensando già a Gesù, ed è quando decide di farsi dono, di donare se stesso nel suo figlio all’umanità, che Dio crea l’umanità e il mondo. Dunque per certi aspetti la prima parola del cristianesimo è proprio “dono”, cioè “grazia”. La grazia è talmente rivelativa della vita di Dio che in quella grazia, in quel dono, cioè in Gesù, noi conosciamo che il dono fa parte della vita stessa di Dio. Ed è per questo che noi siamo impastati di dono. Ed è per questo che, pur in un orizzonte come quello del mondo contemporaneo in cui un’ipertrofia dell’economicismo e del mercato sembrerebbe farci smarrire ogni sentirnero di speranza, noi cristiani possiamo continuare a essere fiduciosi. L’umanità continua a essere altro, e prima o poi l’inquietudine verso un mondo che ci soffoca in cui tutto è ridotto a mercato, porterà, porta già ora, a una reazione positiva che fa emergere il meglio di noi».

Vivere con speranza in un mondo che l’ha smarrita

In una società che sembra aver smarrito completamente la speranza, la realtà del dono può aiutarci a rintracciarla.

«Io penso che sia una fonte di speranza vedere che, nonostante tutto, anche in questo nostro mondo, tantissima gente dona. Basta guardare alle cose più semplici che magari non siamo più abituati a vedere: ci sono ancora persone che generano figli e donano la vita. Ci sono dei nonni che si prendono cura dei nipoti. C’è molto volontariato. La nostra società si regge ancora in piedi, nelle cose grandi come in quelle piccole, grazie al fatto che tantissime persone donano tempo, energie, denaro. Scendendo in profondità, io credo che possiamo nutrire speranza nella misura in cui sentiamo una resistenza dentro di noi rispetto al mondo che si trasforma in mercato. Il fatto che ci siano delle persone, e sono sempre di più, che sentono soffocante questo mondo è un segno di speranza, perché significa che stiamo reagendo con i nostri anticorpi, cioè con la capacità e il desiderio di dono che contraddistinguono la nostra umanità».

A Natale doniamo la vita

Alla fine della nostra chiacchierata, alla luce di tutte le considerazioni fatte, chiediamo a don Repole di darci un consiglio per vivere al meglio la realtà del dono nel Natale che si avvicina. «I regali di Natale possono avere una consistenza enorme dal punto di vista umano e spirituale nella misura in cui sappiamo accogliere il dono guardando negli occhi chi ce lo fa. Vivere il regalo ricevuto come un segno della presenza di qualcuno che ci sta dando qualcosa di sé, e il regalo donato da noi come la promessa di volerci essere e donare per l’altro. I regali di Natale possono essere segnati dalla logica del peggior consumismo se ci soffermiamo a guardare solo cosa riceviamo o cosa doniamo, concentrando la nostra attenzione sulle cose in sé e sul loro valore economico, oppure possono diventare tutt’altro: quando guardiamo negli occhi chi ci dà un dono e valorizziamo la cosa più importante, cioè non il dono in sé, ma il fatto che lui/lei si stia consegnando a noi, così come quando, qualunque cosa noi impacchettiamo per qualcun altro, facendo un dono consegniamo la nostra vita».

Luca Lorusso



Dalla montagna del vento


 

Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.

Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota
immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato
disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).

Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via
radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a
scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il
rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi
Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».

Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha
portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.

Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha
fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».

Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo
base di Demini, che serve anche Watoriki. «È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.

Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.

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Tags: Yanomami, Roraima, Indios, Amazzonia, Indigeni

Paolo Moiola




Cari Missionari

Pagare le tasse

Caro Direttore,
lo spirito critico credo sia fondamentale per non accettare supinamente le
varie sfaccettature di un pensiero che è sempre molto personale nel vissuto
esistenziale di un cristiano o laico, in una società piena di contraddizioni.

Non ho nulla che mi divida nella risposta che hai voluto
dedicare al mio più che amichevole intervento (cf. MC 4/2014, pag. 7). Io,
politico e amministratore sindaco per 10 anni, e, per altri 5, consigliere
provinciale a Como, tante volte mi espongo a giudizi e valutazioni molto
settoriali di pensiero anche se supportati da esperienze di vita. D’altronde,
se il pensiero sul come e sul perché non avesse sbocchi verso i nostri
fratelli, ci renderemmo colpevoli di un grave furto culturale e di crescita
consapevole. È per questo che cerco di leggere e documentarmi su pensieri molte
volte contradditori di Martini, Biffi, Tettamanzi, Kung, Augias e Mancuso,
riviste come Civiltà cattolica, Il Regno e tante altre, come la vostra, sempre
gradita.

Mercoledì 2 Aprile, su La Stampa di Torino, nel «Buongiorno:
Palpeggia e Patteggia» del giornalista Massimo Gramellini (che apprezzo molto),
ho avuto modo di condividere senza soluzione di dubbio quanto la società
attuale sia consapevolmente e coscientemente peggiorata facendo affogare (col
vil danaro) i principi che ogni cristiano dovrebbe difendere, anche con le
unghie, contro una società sempre più laica e insensibile alla povertà che come
la peste si espande nei paesi cosiddetti ricchi. Nella nostra Italia un
cittadino su tre ha bisogno di sostegno.

Il nostro impegno nel combattere queste emergenze sociali
si fa di giorno in giorno sempre più difficile e improbo, nella speranza che il
futuro, senza scomodare il medioevo e il rinascimento, ci porti nella
consapevolezza di credere nell’amicizia, nella carità e nell’amore verso il
creato.

Il mio sogno nei confronti della Chiesa?

Che un confessore non chieda più dei peccati di sesso, ma
che faccia una domanda secca: «Paghi le tasse oppure frodi?».

Il motivo di questa richiesta evangelica è molto semplice
per un cristiano credente. Nel primo caso (dei «peccati di sesso», ndr) è
lui stesso il soggetto implicato, con la sua coscienza, la sua morale e, se
vogliamo, una ristretta cerchia di persone.

Nel secondo caso, «frode all’erario» (vedi gli scritti
evangelici «date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio»),
è tutta una società che viene coinvolta in un processo che ci rende colpevoli
della povertà di tanti nostri fratelli, responsabilità inaudita.

La Chiesa è fratea, la Chiesa è amore, la Chiesa è
perdono, etc. La Chiesa, come principio fondamentale, dovrebbe insegnare anche
la strada della rettitudine e non del contagio come spesso viene ripetuto da
tanti cristiani «con i soldi compri anche il Paradiso». È spiacevolissimo.

Giovanni
Besana
18/04/2014

Caro Giovanni,
grazie del commento. Don Paolo Farinella ha dedicato pagine illuminanti su
questa rivista a quel «date a Cesare» (vedi la serie di otto articoli
pubblicati da marzo a novembre 2013). La Chiesa nel suo insegnamento non ha mai
condonato la frode, anche fiscale, benché senza la forza applicata ad altri
peccati. Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992, non ha un
capitolo specifico sul tema, ma usa comunque parole forti e chiare in due brevi
interventi. Nel primo, spiegando il quarto comandamento «onora il padre e la
madre», al numero 2240 è scritto: «La sottomissione all’autorità e la
corresponsabilità nel bene comune comportano l’esigenza morale del versamento
delle imposte, dell’esercizio del diritto di voto, della difesa del paese:
Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le
tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto, il rispetto (Rm
13,7 )».

Il secondo intervento
è nel contesto del settimo comandamento «non rubare», al numero 2409:  «Ogni modo di prendere e di tenere
ingiustamente i beni del prossimo, anche se non è in contrasto con le
disposizioni della legge civile, è contrario al settimo comandamento. Così,
tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti smarriti; commettere
frode nel commercio; pagare salari ingiusti; alzare i prezzi, speculando
sull’ignoranza o sul bisogno altrui. Sono pure moralmente illeciti: la
speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima
dei beni, in vista di trae un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con
la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al
diritto; l’appropriazione e l’uso privato dei beni sociali di un’impresa; i
lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di
fatture, le spese eccessive, lo sperpero. Arrecare volontariamente un danno
alle proprietà private o pubbliche è contrario alla legge morale ed esige il
risarcimento».

C’è di che riflettere
e agire, anche in questa nostra bella Italia.


Sesta volta in Etiopia

Un nuovo viaggio all’insegna del volontariato (il sesto),
l’ho realizzato nel mese di marzo 2014, presso la missione di Modjo, gestita
dal missionario della Consolata padre Paolo Angheben, da 36 anni uomo di Dio in
terra di Etiopia. Ciò che ho visto e vissuto è stato per l’ennesima volta una
catarsi umana, cristiana e psicologica. A Modjo, grazie all’Associazione «Altri
Orizzonti» di cui sono vicepresidente, è stata realizzata e inaugurata la sala
mensa e dormitorio della scuola matea che servirà per 180 bambini. Con
l’aiuto di tutta la nostra comunità di Borgo Valsugana (Tn) e del territorio,
in questi anni sono state realizzate molte opere: la scuola di Daka Bora, il
ponte «Della Stella, della Speranza, della Solidarietà» nel villaggio di Minne,
la costruzione di una biblioteca a Debre Selam, ove 5.000 ragazzi possono
studiare, scambiarsi libri e imparare l’uso del computer e di Inteet, la
chiesetta intitolata all’Emmanuele, la realizzazione del campo sportivo di
metri 90 x 40. I fondi raccolti sono serviti anche per pagare gli stipendi dei
40 maestri per 1400 bambini delle scuole dei villaggi di Weragu e Minne. La
riconoscenza delle comunità locali è grande. L’ho sperimentata negli incontri
quotidiani e nella gioia dei bambini.

Ho fatto una nuova e interessante esperienza con venti
giovani cattolici della missione, di cui nove ragazze. Alcuni lavorano come
catechisti o infermieri. Assieme a fratel Vincenzo Clerici ci siamo recati
presso la casa di accoglienza ad Addis Abeba retta da tre suore missionarie del
Movimento Contemplativo Padre De Foucauld di Cuneo, che ospita dai 15 ai 20
rifiutati dalla società. Quanto amore, dedizione, generosità, professionalità
da parte di queste suore. Queste persone si sentono amate, protette e, malgrado
la grande sofferenza, sorridono sempre. Unitamente a padre Paolo sono ritornato
a visitare il vicariato di Meki retto da un Vescovo etiope e ho rivisto con
piacere padre Giovanni Monti.  Anche in
quell’occasione hanno ricordato la figura sublime del compianto cugino
missionario padre De Marchi Giovanni. Sono ritornato per alcuni giorni assieme
al Fratel Vincenzo, (che ringrazio sentitamente per i viaggi effettuati) nel
villaggio di Weragu dove ho lasciato il mio cuore e la mia mente. Ringrazio il
padre Denys Revello, da Cuneo, per la sua ospitalità e gentilezza. Ho rivisto
con estremo piacere quei luoghi a me cari, specialmente i bambini con cui ho
sempre avuto un rapporto speciale. Il nuovo progetto dell’instancabile padre
Paolo è la costruzione di un Centro multifunzionale nel Villaggio di Alemtena
(regione Wereda). Una zona semidesertica senza strade, elettricità, mezzi di
trasporto e acqua potabile. La regione è il deserto per la sanità: vi sono solo
due piccoli centri con una sola infermiera ciascuno, per servire una
popolazione di 450.000 persone.

A nome dei missionari e della gente incontrata in
Etiopia, ancora un grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato fino a ora.
Grazie di cuore anche a tutti coloro che vorranno continuare a sostenerci in
questa avventura per aiutare donne, uomini a bambini a vivere con più dignità.
Il Signore e la Madonna vi proteggano sempre.

Giovanni De Marchi
Borgo Valsugana (Tn)

risponde il Direttore




Juliette Colbert, marchesa di Barolo

Donna straordinaria del nostro
Risorgimento, la sua vita precorre il modo di agire dei grandi Santi sociali
del Piemonte dell’Ottocento. Nata il 27 giugno 1785 in una nobile famiglia
della Vandea francese, terra di forte tradizione cristiana, pronipote di J. B.
Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV, il Re Sole, dopo la Rivoluzione
francese entra a far parte della corte di Napoleone Bonaparte, dove conosce il
marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Se ne innamora, si sposano e vanno
ad abitare a Torino. Colpita dalla situazione di povertà ed emarginazione che
investe vasti strati della popolazione del Regno Sabaudo, comincia a farvi
fronte con intraprendenza, determinazione e… fantasia.

La devo chiamare col
suo titolo nobiliare o col più familiare Juliette?

Mi
chiami Juliette, come mi chiamava mio marito e come mi chiamavano le persone
amiche.

Bene, diamoci anche
del «tu», così l’intervista diventa più facile. Parlaci della tua infanzia
negli anni in cui si scatenava la Rivoluzione francese.

Ero
bambina quando la Rivoluzione francese si abbatté sulle nostre esistenze. La
mia famiglia, come quella di tutti i nobili, venne coinvolta nelle violenze che
si abbatterono in Vandea, dove eravamo perseguitati dai «sanculotti» non solo
in quanto nobili ma anche per la nostra fede cristiana. Per salvarci fummo
costretti a espatriare, prima in Germania, poi in Olanda e quindi in Belgio.

I tuoi genitori non
persero mai la speranza, anzi, seppero trasmetterti una fede così forte che con
il tempo si caratterizzerà nella tua vita in forme di carità e di solidarietà
veramente notevoli.

Nel
1792 ci stabilimmo insieme ad altri fuoriusciti dalla Francia a Coblenza, in
Germania, dove i miei genitori vollero che ricevessi un’educazione di
prim’ordine. Grazie quindi a maestri scelti mi formai una cultura largamente
superiore a quella delle donne del mio tempo e, se devo essere sincera, anche
alle donne del mio rango.

Rimanemmo
in esilio per dieci anni, poi, nell’aprile del 1802, Napoleone concesse
l’amnistia a quasi tutti gli esiliati. Però volle che i nobili frequentassero
la sua corte a Parigi.

E fu a corte che
incontrasti quello che sarebbe diventato tuo marito?

Proprio
così. Là mi incontrai con l’ultimo discendente di una delle più ricche e
antiche famiglie piemontesi: Carlo Tancredi Falletti, marchese di Barolo. I
suoi tratti gentili e il modo di fare mi conquistarono subito, mi innamorai di
lui e nel 1807 ci sposammo.

Dopo il matrimonio vi
trasferiste a Torino?

Carlo
desiderava a ogni costo che la mia presenza rallegrasse il palazzo della
famiglia Barolo, così ci spostammo a Torino, anche se trascorrevamo parecchi
mesi dell’anno viaggiando e ritornando spesso a Parigi.

Immagino che, vista
la vostra posizione, non vi fosse difficile incontrare personaggi di spicco
della cultura e della politica.

Questo
è vero, incontrammo molti personaggi famosi, ma solo alcuni esercitarono
un’influenza positiva sulle azioni caritative messe in atto più tardi da me e
da Carlo. Ricordo con piacere l’abate Dupanloup (Félix Antornine Philibert
Dupanloup, 1802-1878) rettore del Seminario di Parigi e grande amico di
Federico Ozanam (Frédéric Antornine Ozanam, 1813–1853) fondatore della Società di
San Vincenzo, e la marchesa Adelaide Pastoret (1766-1843) promotrice e
organizzatrice dei primi asili d’infanzia, oppure l’abate Legris-Duval (René-Michel
Legris-Duval 1765-1819) particolarmente attento al problema del recupero sociale
delle così dette «fanciulle perdute».

Nella capitale
sabauda invece conosceste altra gente che vi aiutò nel realizzare le opere di
carità che avevate programmato.

Casa
nostra era frequentata da molti nobili e intellettuali piemontesi, tra cui ricordo
con piacere soprattutto Silvio Pellico, che accogliemmo sotto il nostro tetto
dopo la dura esperienza del carcere allo Spielberg. Questi, pur avendo un’idea
della società condizionata dalla classe di appartenenza, erano desiderosi sia
di risolvere il problema dell’assistenza agli emarginati che di propugnare
riforme politiche e sociali, secondo gli ideali del Risorgimento, che
portassero all’unità d’Italia, in quel tempo frazionata e divisa.

Queste aspirazioni ti
coinvolgevano da vicino?

Proprio
così. Però la cosa che mi interessava di più non era la politica, bensì la
situazione sociale, in quanto vedevo molte persone che vivevano nella massima
povertà e indigenza. Io non volevo fare qualcosa per i poveri, ma con i poveri.
Perché per noi aristocratici offrire un po’ di denaro o di risorse materiali è
fin troppo facile, mentre invece dare la responsabilità ai poveri affinché
imparino a gestire la propria vita è molto più impegnativo e richiede un amore
vero e sincero verso di loro.

Quando iniziarono le
tue attività?

Nel
1815 mi iscrissi alla Compagnia della Misericordia dedicandomi alla
distribuzione di viveri per i detenuti di Torino. Qualche anno dopo ebbi il
permesso di entrare nelle carceri dove il contatto diretto, specialmente con le
detenute, provocò in me uno shock terribile. Vedere quelle donne, per lo più
provenienti dalle fasce sociali più emarginate, dietro le sbarre in condizioni
disumane, alimentò nei loro confronti un forte desiderio di consolarle e
affrancarle da quella situazione.

Come si svolgeva il
tuo apostolato in mezzo a queste donne che agli occhi della società del tempo
erano viste come persone non recuperabili?

Mi convinsi che oltre a operare su un piano materiale,
dovevo lavorare sull’aspetto morale. Mi fermavo a conversare a lungo con ognuna
di loro, ed esse compresero che ero loro amica. Lasciavo anche intravedere che
il mio modo di vivere era caratterizzato dalla fede cristiana. In questo modo
cercavo di gettare un seme di speranza nella loro vita. Certo, continuavano a
essere delle recluse, ma si andavano creando le condizioni affinché all’interno
del carcere ci fosse un clima più tollerabile.

Questo tuo modo di
agire ebbe dei riflessi anche in altri ambienti carcerari a Torino?

La
mia azione fra le detenute suscitò interesse in alcuni membri della casa reale.
Grazie a loro ottenni di poter riunire tutte le detenute torinesi in un unico
edificio, dove potei realizzare i miei progetti.

Spiegati meglio.

Innanzi
tutto cominciai a separare le donne che erano inquisite da quelle che erano già
state condannate. Poi, con il coinvolgimento di tutte loro, si stese un
regolamento di disciplina. Stabilimmo dei compiti quotidiani in cui tutte erano
coinvolte, dalle pulizie delle camerate ai bagni, alla cucina ecc. Non ultimo,
promossi una paziente opera di alfabetizzazione che coinvolse quasi tutte. Il
risultato più grande fu di sostituire le guardie con delle suore (le «Suore di
S. Anna», fondate col marito nel 1834), che io e il mio amato sposo promuovemmo
proprio per venire incontro a queste situazioni.

Questo fece
migliorare la vita delle carcerate?

Pensa
che qualcuno arrivò a dire che nel 1838, quando le suore andarono ad abitare
nel carcere, questo assomigliava più a un convento che a un penitenziario.
Subito dopo ci rendemmo conto di un’altra piaga sociale, quella delle ragazze
madri, o come si diceva in quel tempo, delle «fanciulle traviate».

Anche con loro
iniziaste un percorso di riscatto alternativo a quelle che erano le regole
vigenti?

Ottenni
dal governo un edificio (il Rifugio) che ristrutturammo per creare una casa
aperta a tutte le ex carcerate e alle ragazze madri, offrendo loro la
possibilità di un lavoro che le aiutasse a reinserirsi nella società. Il lavoro
non solo garantiva il loro sostentamento, ma con quello che riuscivano a
risparmiare, potevano accumulare una piccola dote da ritirare al momento di
lasciare il rifugio.

Oltre il lavoro ci
furono altri aspetti positivi legati al vostro particolare modo di vivere?

Alcune
di queste donne, avendo fatto un cammino di conversione, e saldato i conti con
la giustizia, maturarono l’idea di consacrarsi attraverso una vita di lavoro e
di preghiera. Nacque l’idea di una nuova congregazione detta delle «Maddalene»
(oggi «Figlie di Gesù Buon Pastore»), approvata dell’Arcivescovo di Torino nel
1833 e dalla Santa Sede nel 1846.

Oltre al lavoro con
le detenute, il tuo campo di attività abbracciava anche altri ambiti specifici?

Mi
occupai di lanciare in Italia gli asili d’infanzia (promossi in Francia dalla
marchesa Pastoret), dove oltre a provvedere cibo e vestiario, cercavamo di
insegnare ai bambini i primi rudimenti della scuola e del catechismo. Fondammo
anche delle scuole professionali e si diede inizio alla costruzione della
chiesa di Santa Giulia nel popolare quartiere di Vanchiglia a Torino.

Juliette, pur essendo
una nobile e un’aristocratica, la tua esistenza fu dedicata interamente ai
poveri.

Io e
il mio sposo Carlo, riversammo tutte le nostre attenzioni e il nostro affetto
sulle persone povere e svantaggiate, e questo diede un senso pieno e vero alle
nostre esistenze, perché come dice il Signore: «C’è più gioia nel dare che nel
ricevere».

Juliette Colbert, marchesa di Barolo, si spense il 19 gennaio del
1864. Il marito era morto nel 1838. La loro azione in favore dei poveri fece da
apripista ai Santi sociali piemontesi del XIX secolo, con cui era in relazione,
soprattutto S. Giuseppe Cafasso e Don Bosco. Figlia del suo tempo e
appartenente alla classe aristocratica, non venne presa molto in considerazione
dalla storiografia del Risorgimento. Il tempo però sta facendo giustizia di
questo oblio ridandoci la vera identità di Giulia Colbert: una giovane bella,
ricca, dotata di mille risorse che aveva tutto per godersi la vita e invece con
il marito si mise al servizio dei poveri. Dopo la sua morte venne costituita
l’Opera Pia Barolo, alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia.
Complessivamente dedicò alle sue opere di beneficenza circa 12 milioni di lire,
una somma pari al bilancio di uno stato del tempo. Il 21 gennaio 1991 la
diocesi di Torino ha avviato la causa di beatificazione dei due coniugi.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Mario Bandera




Una primavera solo all’inizio

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 21

Le «primavere arabe»
hanno suscitato entusiasmi e retoriche che paiono oggi non completamente
giustificati. La libertà religiosa, ad esempio, sembra avee fatte le spese. L’islamologo
gesuita Samīr Khalīl Samīr ci racconta ciò che per lui è il grande passo avanti
delle rivoluzioni che dal 2011 stanno, ancora oggi, cambiando il volto
dell’area mediorientale. Nonostante le problematiche.

«Una “primavera” non consiste nei primi
frutti che si possono raccogliere, spesso acerbi e aspri, bensì nello slancio
verso la coscienza democratica che germina nella testa di milioni e milioni di
persone, in gran parte giovani». Parola di Samīr Khalīl Samīr nell’introduzione
al suo libretto Quelle tenaci primavere arabe, edito dalla Emi.

Gesuita egiziano, Samīr Khalīl Samīr è un islamologo
attento ai processi culturali e sociali dell’area mediorientale. Lo
intervistiamo per farci raccontare quanto, secondo lui, le cosiddette primavere
arabe abbiano influito sulla libertà religiosa in quella zona e, in particolar
modo, in Egitto. Secondo un recente studio del Pew Research Center,
infatti, sembra che l’effetto delle rivoluzioni sulla libertà religiosa sia
stato per lo più negativo.

Può
fare un bilancio delle cosiddette «primavere arabe» iniziate tre anni fa?

«Si
sente spesso dire che la primavera araba è diventata l’inverno arabo. Però
secondo me ciò che si è realizzato negli ultimi tre anni è un cambiamento
profondo che porterà delle conseguenze positive anche laddove niente si è
fatto, come nella penisola araba.

Che
cosa sta cambiando? Innanzitutto per la prima volta si sa che si può
protestare. E non protestare nel vuoto, ma per cambiare.

C’è
stata l’epoca delle rivoluzioni: nel ’52 in Egitto con Nasser, nel ’54 in Iraq,
nel ’58 in Siria. Tutte conseguenze di quella crisi enorme che è stata la
creazione dello stato d’Israele. Oggi la gente prende coscienza che quelle
rivoluzioni, di solito militari e autoritarie, non possono continuare, e dice:
“Grazie per ciò che si è fatto, ma adesso è troppo”.

In
Egitto fino agli anni ’50 c’era libertà a tutti i livelli, ma anche ingiustizia
sociale, perché pochi privilegiati avevano tutte le possibilità, mentre la
massa del popolo viveva con difficoltà. La rivoluzione introdotta da Nasser ha
lavorato su questo, ad esempio con le riforme agrarie. Ma politicamente ha
fatto un passo indietro. Oggi, con le primavere arabe, tutti sanno che non solo
è possibile protestare in parole, ma anche cambiare le cose».

Le
primavere arabe sono state accolte dall’Occidente con grande entusiasmo. Sembra
però che col tempo la situazione della libertà sia peggiorata, in particolare
per la libertà religiosa, che già era molto compressa.

«A
fare la rivoluzione in Egitto e Tunisia sono stati essenzialmente i giovani,
che hanno avuto un ruolo decisivo suscitando la presa di coscienza in tutta la
popolazione. Ma poi, quando si è trattato di fare un governo, non essendo
preparati alla gestione del potere, ognuno è andato su una linea diversa: in
Egitto hanno fatto più di 10 partiti.

Gli
unici organizzati per prendere il potere erano gli islamisti. I Fratelli
musulmani, creati nel ’28, hanno infatti una struttura molto disciplinata: un sistema
gerarchico nel quale ognuno obbedisce al superiore, e non sa niente di più.
Hanno un programma molto semplice, sempre uguale fin dalle origini: “L’islam è
la soluzione”. Per qualunque domanda: economica, politica, sociale, religiosa.
Non è un affare intellettuale ma emotivo. L’islam è sacro. E poi i Fratelli
musulmani si sono moltiplicati grazie al finanziamento del Qatar e, all’inizio,
dell’Arabia saudita, prendendo possesso delle moschee e spiegando alla gente
che quando l’Islam avesse preso il potere sarebbe stato il paradiso.

Ecco
perché hanno vinto le elezioni. Benché abbiano ottenuto solo il 51,7%.

E
l’Occidente ha subito detto: “Ecco! Questa è la democrazia!”. L’Occidente ha
sostenuto che Morsi rappresentava il potere del popolo. In realtà il popolo,
dopo un anno, ha visto che la situazione sociale non era cambiata. Anzi era
peggiorata, anche a causa delle regole introdotte per l’islamizzazione del
paese che hanno fatto crollare il turismo, la prima fonte di entrata per
l’Egitto, e ha reagito: “Noi vogliamo la riforma sociale, la riforma politica,
e siamo stati delusi”».

Quindi
c’è stata la nota raccolta di firme per le dimissioni di Morsi.

«I
giovani hanno ripreso il contatto con la popolazione e hanno avviato una
petizione. Dopo 11 mesi di governo, le firme raccolte per mandare via Morsi
sono state 22 milioni. Non si era mai vista in Egitto una petizione di questo
tipo. E poi, un mese dopo, la gente è scesa per strada. In Egitto, grazie a
Dio, non girano molte armi, quindi la gente non poteva fare niente se non con
l’aiuto dell’esercito. Perché dal ’52 l’esercito è il potere che va con il
popolo contro i regimi. E dunque l’esercito è venuto a sostenere il popolo, non
per fare un colpo di stato, come ho letto nella maggioranza dei giornali in
Occidente, ma per creare un governo provvisorio, retto da un magistrato che era
stato nominato da Morsi stesso come uno dei capi della magistratura. Poi ha
invitato tutti i partiti a presentarsi, e tutti hanno accettato fuorché i
Fratelli musulmani, che hanno detto: “O noi o niente”.

Io dico: “Meno male che i Fratelli musulmani hanno preso
il potere”. Perché da 90 anni si presentavano come la soluzione di tutti i
problemi, e la gente semplice ci credeva. Ma ora tutti hanno potuto finalmente
vedere che non hanno cercato di migliorare la situazione sociale, politica, ma
di islamizzare, cambiando i programmi scolastici, le strutture, la televisione,
provando a introdurre la sharia. Ecco perché secondo me c’è una presa di
coscienza: è frutto dell’esperienza! E questo è un passo avanti. Ma non abbiamo
ancora risolto i nostri problemi: ci vorrà credo almeno un decennio per
strutturare democraticamente paesi che non hanno mai praticato la democrazia».

Come
hanno reagito i Fratelli musulmani alla rimozione di Morsi?

«Il
potere islamista è simile ai regimi precedenti: cerca di imporsi. Per questo ci
sono ancora violenze. In Egitto ci sono stati attacchi contro le chiese, contro
i più deboli, quelli che non hanno potere e non cercano di prenderlo. Non c’è
nessuna giustificazione a questo se non il fanatismo che è una tendenza forte e
fondamentale negli islamisti. È un’ideologia radicale che vuole imporre
l’applicazione della religione e che non piace alla maggioranza dei musulmani.

L’ascesa
al potere dei Fratelli musulmani è stata un passo avanti dal punto di vista
della presa di coscienza che una religione può anche diventare una dittatura.
Quando sono arrivati al potere, in un mese hanno fatto da soli una nuova
Costituzione, e abbiamo dovuto votarla nel giro di una settimana. Ma come si fa
a leggere e ponderare una Costituzione in una settimana? Nessuno lo crederà, ma
l’Egitto ha il 40% di analfabeti che, per questo, seguono ciecamente il
predicatore che tocca la corda sensibile della religione».

E
in Tunisia com’è la situazione?

«In
Tunisia è andata meglio, perché lì c’è una lunga esperienza di laicità dello
stato. Nella Costituzione tunisina c’è la parità tra uomo e donna. La Tunisia è
l’unico paese islamico al mondo ad aver vietato la poligamia, che ha imposto
l’uguaglianza tra uomo e donna nell’eredità, mentre il Corano dice che la donna
deve ricevere la metà di ciò che ricevono in eredità i suoi fratelli. La
Tunisia quindi aveva già fatto ben altri passi avanti. Anche se ora si sta
riducendo la laicità, e l’islamismo si diffonde, rimane però un Islam molto più
democratico».

Tutto
ciò sembra confermare l’opinione di chi sostiene che la libertà religiosa si
sia ridotta.

«Nell’area
mediorientale e nordafricana la situazione dei cristiani oggi è più difficile
di prima. Proprio a causa di questo background islamista.

L’Islam
storicamente categorizza le persone in tre gruppi: i musulmani, che hanno tutti
i diritti e doveri. La società deve essere musulmana. All’opposto c’è l’ateo. È
inammissibile non credere. L’ateo non può vivere nella società musulmana. La
terza categoria è intermedia: sono i protetti, cioè gli ebrei e i cristiani.
Essi sono in una posizione intermedia perché credono in Dio, ma non sono
musulmani, e quindi non hanno la credenza perfetta. Per cui possono vivere
nella società musulmana, ma sottomessi.

Questo
sistema dall’Ottocento in avanti si è lasciato influenzare dall’Occidente. Oggi
la categoria dei sottomessi esiste ancora, però è meno forte.

In
Egitto una moschea si può costruire anche senza permessi, e nessuno la può
distruggere.

Per
costruire una chiesa bisogna chiedere il permesso e possono passare anche dieci
anni prima che venga data l’autorizzazione. La richiesta rischia di non
arrivare mai a conclusione, perché bloccata nell’iter burocratico da qualche
islamista. Per cui ogni tanto viene distrutta una chiesa perché costruita in
modo illegale. La discriminazione nel concreto della vita è forte. Anche
convertirsi dall’Islam al cristianesimo è impossibile. L’unico modo è emigrare».

Quindi
come vede lei la condizione dei cristiani nell’area, e come vede il loro
futuro?

«In
Nord Africa cristiani ce ne sono pochi. Ci sono alcune migliaia di nordafricani
diventati cristiani, in particolare in Algeria. In teoria non possono. Si fa di
nascosto ma con il rischio della prigione. In Arabia saudita gli apostati
vengono uccisi. Nella penisola arabica ci sono più di due milioni di cristiani:
filippini, srilankesi, indiani, etiopi, ecc. Essi non hanno il diritto di
ritrovarsi insieme neppure in privato. In Occidente nessuno dice nulla su
questa ingiustizia perché l’Arabia è ricca.

Ciò
che noi chiediamo come cristiani è di essere semplicemente dei cittadini.

Sul
passaporto egiziano, come su qualunque documento, è obbligatorio indicare la
religione. Quando ho dovuto rifare il passaporto in ambasciata a Parigi, alla
voce “religione” ho scritto “ateo”. Poi alla voce “mestiere”, “monaco”. Sono
stato subito richiamato, e l’ambasciatore mi ha chiesto: “Sa che cosa ha
scritto? Di essere monaco e ateo”. Io allora gli ho chiesto che cosa avesse a
che fare la religione con lo stato, e gli ho detto che è un affare tra me e
Dio. Poi gli ho richiamato il principio della rivoluzione egiziana nasseriana
del ’52: “La religione appartiene a Dio, la patria a tutti”. A quel punto
l’ambasciatore mi ha detto che ero troppo avanzato, che ci vuole del tempo. Io
gli ho replicato che con il suo ragionamento anche mille anni non sarebbero
sufficienti.

Tutto
questo suscita domande tra i cristiani del medio oriente. Molti mi dicono:
“Abuna, io voglio vivere e morire qui. Ma i miei figli? Devo pensare a loro. È
per questo che ho deciso di emigrare. Perché qui non si può vivere”. Io rispondo
loro che hanno ragione, ma anche che c’è un’altra possibilità: rimanere per
cambiare la società. Io sono convinto che questa è la missione dei cristiani:
come dice il Vangelo, siamo il lievito nella pasta. La storia e gli studi del
centro che ho creato a Beirut dicono che sono stati i cristiani nel corso della
storia ad aver plasmato gran parte della cultura mediorientale: sono stati il
lievito. Oggi abbiamo questa missione: diffondere lo spirito del Vangelo».

Luca Lorusso

Samir Khalil
Samir

Nato al Cairo nel ’38, Samir
Khalil Samir
è gesuita dal ’55. Ha compiuto gli studi in Francia, tra cui
un dottorato di islamistica ad Aix-en-Provence. A Roma ha fatto un dottorato in
scienze religiose al Pio (Pontificio Istituto Orientale), istituto in cui
insegna da 40 anni. Ha insegnato per 12 anni anche al Pisai (Pontificio
Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica). E insegna regolarmente altrove nel
mondo. È stato anche impegnato per sette anni in Egitto per lo sviluppo sociale
nei villaggi e nei quartieri poveri del Cairo, lanciando, tra le altre cose, un
insieme di piccole scuole per analfabeti musulmani e cristiani. Da più di
quarant’anni è impegnato a far conoscere il patrimonio culturale dei cristiani
di lingua araba, avendo essi una teologia, un pensiero essenzialmente
improntato al rapporto con i musulmani, sviluppati dall’ottavo secolo in
avanti, sconosciuto agli stessi arabi. Ha pubblicato una sessantina di libri in
questo settore, e ha creato un centro che promuove tali studi, il Cedrac, a
Beirut, città in cui vive e insegna (all’università Saint-Josef).

«Essenzialmente la grande letteratura
arabo-cristiana appartiene al Medio Evo, dall’ottavo al quattordicesimo secolo.
Sia per i musulmani che per i cristiani è il periodo aureo. È in questo periodo
che i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, che
quindi non è esclusivamente islamica. Dal 14° secolo in avanti è iniziata
l’epoca della decadenza, durata fino al 19° secolo, quando è nato un nuovo
“rinascimento”, di nuovo con il grande contributo dei cristiani. Il ruolo
culturale dei cristiani nel mondo arabo è grandissimo. Perciò abbiamo una
cultura comune, e su questa base possiamo costruire, proporre un progetto
condiviso».

L.L.
Egitto 2014

Nuovo presidente,
vecchi padroni

Il nuovo presidente dell’Egitto è
Abdel Fattah al Sissi, ex ministro e ufficiale dell’esercito, che si è
confermato il vero padrone del paese africano. Al Sissi si è imposto con oltre
il 96% dei suffragi, percentuale che rafforza ancora di più i dubbi sulla
democraticità delle elezioni egiziane. Queste erano state indette per il 26 e
27 maggio, ma la scarsissima affluenza ai seggi aveva indotto il Comitato
elettorale (Pec) a prolungare di 24 ore la possibilità di votare. Nonostante
questo, si è recato alle ue soltanto il 46,9% degli egiziani. Nel corso
dell’ultimo anno, il movimento della Fratellanza musulmana, che aveva vinto le
elezioni del giugno 2012, è stato dichiarato fuorilegge. Il suo principale
rappresentante, Mohamed Morsi, presidente deposto da un colpo di stato (luglio
2013), è attualmente sotto processo.

Tags: libertà religiosa, fondamentalismo, religione, primavere arabe, Egitto, Fratelli Musulmani

Luca lorusso




Milano e i migranti /2 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Continuando la nostra
passeggiata milanese, arriviamo in via Padova, nella zona più multietnica della
città. Di seguito, visitiamo Baranzate, comune nato nel 2004 e situato proprio
a ridosso dell’area dell’Expo 2015, che oggi conta la maggiore concentrazione
di stranieri. Don
Paolo Steffano, il parroco della chiesa di Sant’Arialdo, che si trova nel
quartiere più densamente abitato del comune, ci aiuta a capire la situazione
con i suoi  problemi e i suoi segni di
speranza.

Il XXIII rapporto di immigrazione di Caritas e Migrantes (2013)
riporta una notizia apparsa sul quotidiano la Repubblica nell’agosto
dell’anno scorso: nella classifica dei cognomi più frequenti fra i residenti di
Milano, Rossi e Hu sono quasi alla pari: 4.345 i Rossi e 4.101 gli Hu. Al terzo
posto vengono i Colombo, poi Ferrari, Bianchi e Russo. All’ottavo posto si
classificano Chen e al nono Zhou che, con oltre milleseicento ricorrenze,
superano il cognome milanese per antonomasia, Brambilla, al decimo posto.
All’undicesimo posto si trova Esposito, seguito da Sala, Romano e Cattaneo. Al
ventitreesimo c’è Mohamed e al quarantacinquesimo Ahmed.

Al di là delle statistiche, in via Padova le vetrine dei
negozi parlano di un quartiere dove almeno il commercio ha in parte già
superato i confini etnici: «Alimentari africani, asiatici e sudamericani», si
legge sulle insegne di esercizi che espongono sacchetti di derrate con scritte
in quattro, cinque lingue. Dopo una camminata, verso Nord, in una delle vie più
etnicamente variegate e animate della città, fare due passi nei pochi metri del
quieto borghetto medievale di via Domenico Berra, traversa di via Padova, ha un
che di irreale. Proprio dall’altra parte dell’incrocio si imbocca via Adriano
e, dopo una manciata di passi, si comincia a intravedere la facciata gialla
della Casa della carità, un’istituzione «pensata e voluta dal cardinal
Martini proprio in questa zona di migranti per dare un chiaro segno di
accoglienza», come spiega il responsabile dell’ufficio stampa Paolo Riva.

Attualmente alla Casa della carità, che dal 2004
ha ospitato oltre millesettecento persone, risiedono gratuitamente 135 ospiti
mentre altri 138 vivono in trentuno appartamenti estei. Una giornata di
accoglienza ha un costo medio di circa quaranta euro. Presso la struttura sono
disponibili un centro d’ascolto, che l’anno scorso ha ricevuto oltre settecento
richieste d’aiuto, un servizio docce e guardaroba per le persone che non è
possibile ospitare, un centro medico e di assistenza psicologica, un’area di
assistenza legale, i servizi di formazione e avviamento al lavoro, una
biblioteca e un centro anziani. Gli utenti ai quali, in dieci anni di attività,
la Casa si è rivolta sono membri delle comunità rom, migranti, persone
senza dimora, detenuti ed ex detenuti, anziani e pazienti affetti da problemi
di salute mentale.

Ma oltre all’accoglienza e assistenza quotidiane, la
fondazione che gestisce la Casa, promuove un lavoro di riflessione sui
temi e i problemi che emergono nella realtà metropolitana. Don Virginio
Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità dal 2004,
sceglie Hannah Arendt, Marc Augé e Zygmunt Bauman per guidare l’interlocutore
nel percorso di approfondimento che la Fondazione sta portando avanti:
parla di «diritto di difendere i diritti» e di «vite di scarto», le vite di
coloro che il processo di globalizzazione ha spinto ai margini e ridotto a
rifiuti umani. «Serve una diversa visione strategica delle periferie», dice don
Colmegna, «che vanno guardate non come i nonluoghi dove si manifesta il
bisogno, ma come spazi di complessità e conoscenza. Il fenomeno migratorio ci
sta cambiando e, insieme all’impegno quotidiano dell’accoglienza, il lavoro
culturale è fondamentale».

Don Colmegna si sofferma su un tema particolare: su
cento persone assistite dalla Casa, quaranta sono passate dai servizi di
salute mentale. «Le sofferenze patite durante il tragitto migratorio, le esperienze
– vissute specialmente dalle donne – di devastazione nel corpo, i traumi legati
all’impatto religioso e culturale sono le principali cause dei problemi mentali
delle persone che accogliamo».

A poche decine di metri dalla Casa della carità,
via Padova comincia ad animarsi per il traffico dell’ora di punta serale; la
luce rosa di uno dei primi tramonti primaverili si diffonde sui muri della
galleria T12 Lab di via dei Transiti, dove gli artisti maliani Ousmane
Garba Kounta, Aboubakar Fofana e Sidiki Traoré espongono i loro lavori
nell’ambito della piattaforma Nomad Extreme, «un’iniziativa visionaria
dedicata ai designers che si trovano ai confini del mondo».

«Il riciclo e la valorizzazione della cultura maliana
sono alla base del mio lavoro», spiega Ousmane mentre mostra ai visitatori le
sue opere, sedie e poltrone fatte con coa bovine recuperate presso i macelli.
I lavori di Ousmane, insieme alle sculture di metallo riciclato di Sidiki e ai
manufatti di tessuti e colori naturali realizzati da Aboubakar con le tecniche
dei maestri della tradizione tessile del Mali, proiettano scorci di Sahel e di
Sahara sullo sfondo di cemento, asfalto e metallo di una metropoli del Nord del
mondo. Milano e il suo cammino multiculturale passano anche da qui.

Chiara Giovetti


Due passi a Baranzate
con don Paolo Steffano

Don Paolo Steffano è il parroco di Sant’Arialdo, la
chiesa del quartiere Gorizia a Baranzate, comune della prima cintura milanese.
Da dieci anni vive e lavora qui, nel comune d’Italia a più alta concentrazione
di stranieri. Risponde alle mie domande mentre mi fa da guida nel quartiere e
si ferma a salutare le persone, ad accordarsi con qualcuno per appuntamenti e
attività in programma, ad ascoltare storie e notizie.

Don Paolo, a
Baranzate cercavo una periferia degradata, ma a guardare la bacheca con le
attività organizzate dalla parrocchia, i murales con la scritta «Il mondo nel
quartiere», le strutture sportive e le sedi delle associazioni come Quadrivium,
non sembra poi così male. E ora io che cosa scrivo?

Don Paolo ride mentre mi fa strada nel prato vicino alla
chiesa dove gli operai stanno ultimando i lavori della parte da pavimentare: «Immaginati
come sarà questo prato nelle sere d’estate, tutto pieno di candele e di gente
che chiacchiera. Questa qui è la Svizzera di Baranzate!». Poi torna serio
mentre percorriamo la strada che costeggia la piazzetta del quartiere: «Vedi?»,
e indica le serrande abbassate dei negozi, «questi hanno tutti chiuso, non ce
la facevano ad andare avanti. Le difficoltà ci sono, e anche tante, ma tutti
insieme stiamo cercando di trovare delle soluzioni».

«Tutti insieme» significa la parrocchia, le associazioni
di quartiere, il comune, che ha regalato una macchina perché le associazioni
potessero svolgere le proprie attività, e i privati, uno dei quali ha donato
una sala da cento posti. Per mostrarmi un esempio di collaborazione
interculturale mi porta a visitare il negozio di usato per bambini gestito da
due mamme, una boliviana e una italiana.

«Non è un quartiere facile, addirittura passa per essere
invivibile. La situazione è questa: nel quartiere, che ospita una settantina di
etnie, vivono 3.800 persone su 11.800 abitanti totali di Baranzate: la
sproporzione abitativa c’è e si vede. Molti palazzi non hanno il riscaldamento,
chi può se lo fa autonomo, gli altri usano le stufette, con tutti i rischi
connessi. Il centro psicosociale segue una marea di casi, il tasso di natalità è
davvero alto ma non c’è nemmeno un pediatra. Lo spaccio di droga, specialmente
hashish e cocaina, è florido. Ora, in vista dell’Expo, hanno sgomberato un
campo nomadi e distribuito venti famiglie rom nel quartiere, il che ha
provocato parecchi scompensi».

Don Paolo,
quanto tempo ci vorrà perché io non debba più venire qui a farle tutte queste
domande per scrivere un articolo su migranti, disagio e periferie?

«Senti, mettiamola così: io sono milanese di Sant’Ambroeus,
ho il pedigree», scherza. «Quando andavo a scuola, mio padre leggeva la
lista dei miei compagni di classe e, trovando un cognome del Sud, alzava la
testa e diceva: questo qua è un terùn. Lui lo notava, com’era ovvio che
fosse, da milanese che aveva visto la sua città cambiata dai flussi migratori
dal Sud Italia. Ma per me quel nome corrispondeva semplicemente a un compagno
di giochi, non mi importava che fosse di Bari o di Palermo. Ecco, io credo che
succederà la stessa cosa. Anzi, a camminare per le strade di questo quartiere,
forse anche tu hai avuto l’impressione che sia già successo».

Chiara Giovetti

Per aiutare i progetti di MCO:

Chiara Giovetti




Un uomo su sette

Le patologie
oncologiche / 2: Il tumore alla
prostata

Il tumore alla
prostata è la principale neoplasia che colpisce il genere maschile. Sempre più
diffusa, soprattutto nei paesi sviluppati, negli ultimi anni ha tuttavia visto
migliorare l’indice di sopravvivenza.

I tumore alla prostata è la neoplasia prevalente nell’uomo. Esso
rappresenta il 21% di tutti i tumori ed è la terza causa di morte per tumore,
dopo quelli del polmone e del colon-retto. La sua incidenza è andata
progressivamente aumentando a partire dalla metà del secolo scorso, in cui esso
era considerato estremamente raro. Oggi è la più diffusa neoplasia tra i
maschi. Le ragioni di questo incremento sono legate sia ad un miglioramento
delle tecniche diagnostiche e alla diffusione della tecnica di resezione
transuretrale, le quali permettono di scoprire i casi subclinici, che
diversamente non sarebbero riconosciuti, sia all’aumento della vita media
verificatosi nell’ultimo secolo. L’incidenza (vedi Glossario) di questo
tumore aumenta infatti progressivamente con l’età (1% sotto i 40 anni, 30%
nella fascia 45-60 anni, 95% oltre gli 80 anni). In pratica quasi tutti gli
uomini, che hanno superato gli 80 anni presentano un piccolo focolaio di cancro
prostatico. La prevalenza (vedi Glossario) di queste lesioni raddoppia
ogni dieci anni d’età, passando dal 10% in uomini di 50 anni al 70% negli
ottantenni. Il tumore della prostata è particolarmente diffuso nei paesi
sviluppati, cioè Europa Nord occidentale, Australia, America del nord (in
particolare la popolazione afro-americana presenta elevati tassi d’incidenza),
ma è di frequente riscontro anche in alcune popolazioni caraibiche e nel Nord
Est del Brasile, mentre le popolazioni asiatiche dell’India e della Cina
sembrano essee meno colpite. In Italia l’incidenza di questo tumore varia tra
il 16,9 (x 100.000 abitanti) nella provincia di Latina e il 59,1 in quella di
Trieste. Nel nostro paese vengono diagnosticati oltre 40.000 nuovi casi
all’anno, un malato ogni 7 uomini seguiti e ci sono circa 5.000 decessi (uno su
34 pazienti seguiti). Ma la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è migliorata
nel corso degli anni passando dal 66% (1990-94) al 91% attuale.

Per quanto riguarda l’eziologia di questo tumore, sono state individuate
diverse possibili cause
: la predisposizione genetica, l’età, l’influenza degli
ormoni maschili, gli inquinanti ambientali, l’alimentazione e l’Herpes virus.

La predisposizione genetica risulta evidente
sia dalla maggiore diffusione della patologia in alcune etnie, come quella
nera, che in altre ed inoltre dalla familiarità (è più a rischio chi ha avuto
un consanguineo malato per questo tumore)1.

Si ipotizza inoltre che un continuo stress
infiammatorio come la prostatite possa favorire la progressione tumorale in una
condizione già predisposta.

L’avanzare dell’età predispone alla
possibile insorgenza di qualche forma tumorale per via del naturale
abbassamento delle difese immunitarie.

Un’altra causa sono gli ormoni sessuali
maschili, cioè il testosterone ed il suo metabolita diidro-testosterone. La
prostata è una ghiandola dell’apparato riproduttore maschile situata sotto la
vescica urinaria, con la funzione di produrre il liquido prostatico, che
unitamente a quello prodotto dalle vescicole seminali, dalle ghiandole
bulbo-uretrali e dai testicoli, forma il liquido seminale. La prostata inoltre è
androgeno-dipendente, cioè si sviluppa ed è mantenuta normofunzionale dai
livelli plasmatici del testosterone. Verosimilmente questo ormone ed il suo
metabolita hanno un ruolo importante, anche se non esclusivo, nello sviluppo
del tumore prostatico, poiché questa neoplasia non si trova negli eunuchi, non
si sviluppa in ghiandole atrofiche e tende a regredire somministrando
antagonisti del testosterone, cioè estrogeni, farmaci Lhrh (che bloccano la
produzione dell’ormone da parte dei testicoli) e antiandrogeni (che impediscono
il legame del testosterone sulle cellule prostatiche).

Di
sicuro rilievo nell’eziologia del tumore prostatico sono gli inquinanti
ambientali e l’alimentazione
, come si evince osservando le variazioni nei tassi
d’incidenza nelle popolazioni migrate, tassi che in breve diventano
sovrapponibili a quelle del Paese ospitante. Per quanto riguarda gli inquinanti
ambientali, ricordiamo il cadmio, teratogeno e cancerogeno e lo zinco, capace
di determinare un indebolimento del sistema immunitario.

L’alimentazione può favorire l’insorgenza del tumore
prostatico, se particolarmente ricca di grassi e di cai rosse, che portano ad
un aumento del testosterone. Anche un consumo elevato di calcio può fare
aumentare il rischio. Al contrario, tra i fattori protettivi, oltre al consumo
di vegetali è importante inserire nella dieta la vitamina E, il selenio e
l’estratto di pomodoro che contiene il licopene, capace di ridurre i livelli
ematici di Igf-1, proteina che stimola la crescita delle cellule del cancro
prostatico .

Gli studi sul possibile ruolo di agenti infettivi quali
batteri e virus come causa del tumore prostatico hanno portato a risultati
contrastanti, poiché al momento non ci sono prove certe, sebbene sia stata
osservata la presenza di Herpes virus (trasmissibile con i rapporti sessuali)
in alcune cellule di tumore prostatico2.

La
prostata può essere interessata da una patologia benigna, premaligna o maligna
.
Tra le patologie benigne ci sono la prostatite, cioè l’infiammazione/infezione
(che può essere acuta con episodi anche in giovane età e cronica) e l’«ipertrofia
prostatica benigna», un ingrossamento della parte di prostata più vicina
all’uretra legato all’età del paziente. Si tratta di una patologia progressiva,
che comincia verso i 50-60 anni e si presenta con un aumento volumetrico della
prostata, che comprime e rende meno elastica l’uretra, determinando difficoltà
di svuotamento completo della vescica con rischio di complicanze legate alla
parziale ritenzione dell’urina.

Tra le lesioni premaligne della prostata ci sono la «iperplasia
adenomatosa atipica» (Iaa) e la «neoplasia intraepiteliale prostatica» (Pin)3. La prevalenza delle
lesioni preneoplastiche aumenta con l’età del paziente e precede di circa 5
anni l’insorgenza dell’adenocarcinoma.

Le patologie maligne della prostata (cioè le varie forme
di cancro) sono: l’adenocarcinoma dei dotti (che è sicuramente l’istotipo più
frequente, rappresentando il 95% dei casi), il carcinoma anaplastico a piccole
cellule, il carcinoma spinocellulare ed il carcinosarcoma. 

I
soggetti più a rischio
e che necessitano di un maggiore controllo sono gli
uomini a partire dai 50 anni d’età e coloro che presentano familiarità per il
cancro prostatico, per i quali è consigliabile effettuare i controlli a partire
dai 40 anni. È bene tenere presente che la presenza o l’assenza di sintomi non è
un criterio discriminatorio, perché questo tumore – in fase iniziale -non dà
una sintomatologia clinica. La diagnosi precoce si basa essenzialmente sulla
visita urologica, sull’ecografia transrettale e sulla valutazione di alcuni
parametri del sangue, in particolare del Psa4. Va detto che per porre la
diagnosi di carcinoma prostatico è sempre necessaria la biopsia prostatica, la
cui esecuzione viene decisa sulla base della visita urologica e sull’esame di
specifici parametri.

L’aggressività del tumore viene definita dal referto
istologico della biopsia, in base alla classificazione secondo Gleason (5
livelli), mentre la sua estensione viene valutata con la scintigrafia ossea, la
Tac o la Pet-Tac e la risonanza magnetica.

Le
opzioni di trattamento di un tumore prostatico allo stadio iniziale sono
: la
sorveglianza attiva o monitoraggio attivo, l’intervento chirurgico, la
radioterapia a fasci estei o la brachiterapia, la terapia ormonale e l’attesa
sorvegliata. Ciascuna di queste opzioni presenta pro e contro, quindi la scelta
va fatta valutando le rispettive conseguenze e l’età del paziente.

La sorveglianza attiva prevede regolari controlli del
Psa e biopsie della prostata, per stabilire se il cancro è stabile o in
crescita, in modo da trattare chirurgicamente o con radioterapia solo chi ne ha
davvero bisogno, poiché le forme di cancro non sono tutte aggressive allo
stesso modo. È una metodica applicata agli uomini giovani e con tumore allo
stadio iniziale, che permette loro di vivere normalmente, ma con l’incognita di
un possibile aggravamento e con il fastidio delle biopsie ripetute.

L’intervento chirurgico sulla prostata («prostatectomia»)
e sugli annessi è indicato quando il tumore è allo stadio iniziale e limitato
all’interno della capsula prostatica. È riservato alle persone che abbiano
un’aspettativa di vita di almeno 10 anni, quindi non viene eseguito in età
avanzata.

È radicale, quindi libera dal tumore completamente
(salvo eventuali future recidive), ma il paziente va purtroppo incontro al
rischio di incontinenza urinaria (20-40% dei casi) e di impotenza (80% dei
casi). Da alcuni anni, per limitare il rischio d’impotenza, diversi urologi
praticano la chirurgia nerve sparing, che conserva l’innervazione.
Tuttavia esistono limitazioni alla sua applicazione, poiché potrebbe esporre il
paziente ad un più elevato rischio di recidive. Sicuramente questo tipo di
chirurgia non può essere praticato, se il tumore supera la capsula prostatica,
perché delle cellule neoplastiche potrebbero rimanere vicino ai nervi, causando
successivamente una recidiva. La radioterapia a fasci estei o la
brachiterapia, praticata inserendo diverse fonti radioattive direttamente nella
prostata, sostituisce a tutti gli effetti l’intervento chirurgico, non presenta
i rischi di decesso correlati all’intervento, ma implica la comparsa di cistiti
durante e dopo il trattamento, possibili danni alla vescica ed al retto e,
anche in questo caso, rischio d’impotenza (30-50% dei casi).

La terapia ormonale con antagonisti del testosterone
praticata da sola non sconfigge tutte le cellule tumorali, ma può tenere sotto
controllo la malattia per mesi o anni, finché il tumore resta
androgeno-dipendente e può inoltre essere addizionata alla chirurgia e alla
radioterapia. A seconda della terapia usata ci sono effetti collaterali
variabili, che possono comprendere ginecomastia, vampate di calore, impotenza e
mancanza di desiderio sessuale. Quando il tumore non risponde più alla terapia
ormonale è ancora possibile passare alla chemioterapia. L’attesa sorvegliata
consiste nel monitoraggio con Psa dei pazienti più anziani o che hanno altri
problemi di salute per cui chirurgia o radioterapia sono controindicate. Va
detto che spesso il cancro della prostata cresce molto lentamente, al punto da
non creare problemi in un paziente già avanti negli anni. Nonostante la sua
diffusione, il tumore prostatico non è un big killer, come può essere ad
esempio il melanoma, che può uccidere in 6 mesi.

Spesso
le cure seguite per il tumore della prostata hanno quindi gravi ripercussioni
sulla vita sociale e di coppia del paziente, oltre che a livello psicologico.
In particolare, per quanto riguarda la vita di coppia dopo una diagnosi di
tumore o di altra grave patologia, è stato recentemente pubblicato uno studio
su Cancer (che ha preso in esame tumori cerebrali e sclerosi multipla),
riguardante 515 pazienti da cui è emerso che il 12% delle coppie va incontro a
separazione o divorzio, se ad uno dei coniugi viene diagnosticato un cancro. In
particolare tende a separarsi il 21% delle coppie se ad ammalarsi gravemente
(quindi non solo di cancro) è lei, contro il 3% se il malato è lui e si tratta
prevalentemente di coppie di giovani. Il cancro, da malattia della persona,
diventa quindi malattia della coppia e della famiglia, per il trauma che esso
comporta ed i gravi disagi fisici e psicologici sia del paziente, sia di chi
gli sta accanto. Purtroppo i pazienti lasciati dal coniuge vanno più facilmente
incontro a recidive, perché meno motivati a seguire le cure e i controlli con
costanza e forse perché più indeboliti a livello immunitario, a causa della
sofferenza psicologica. Va detto che, nel caso del tumore della prostata,
attualmente, dopo la terapia, è possibile fare ricorso a protesi impiantate chirurgicamente
o a trattamenti farmacologici per ovviare al problema dell’impotenza, che
purtroppo spesso mina l’autostima del paziente (inducendo talora al suicidio) e
il rapporto di coppia. Tuttavia, forse sarebbe meglio aiutare le persone a
comprendere un rapporto si basa su cose diverse dalla sessualità, che
sicuramente è importante, ma non essenziale. Quando esistono amore vero,
affetto reciproco e interessi comuni, la limitazione della sessualità è un
problema superabile, soprattutto grazie alla consolazione che c’è ancora del
tempo da trascorrere insieme, nonostante la malattia. È altrettanto importante
essere consapevoli che il proprio valore come persona è immutato, nonostante la
malattia, anzi è maggiore proprio per il coraggio dimostrato nell’affrontarla.

Rosanna Novara
Topino

Glossario
 

Adenocarcinoma / adenoma:
adenocarcinoma è un tumore maligno del tessuto epiteliale, che prende
origine dall’epitelio ghiandolare. Se il tessuto ghiandolare è anormale, ma il
tumore è benigno, si parla invece di adenoma.

Antigene: sostanza
di provenienza ambientale o formatasi all’interno dell’organismo, che può
essere riconosciuta dal sistema immunitario. Viene definita immunogena quando
stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi contro di essa. Il sistema immunitario
elimina o neutralizza qualsiasi antigene riconosciuto come estraneo o
potenzialmente dannoso.

Eziologia: in
medicina è lo studio delle cause di malattia.

Ginecomastia: anomalo
ingrossamento delle mammelle maschili. Può essere vera, quando vi sia una
eccessiva conversione del testosterone in estrogeni, o iperprolattinemia, o a
seguito di ormoni femminili, o per incapacità del fegato di smaltire gli
estrogeni in eccesso. È invece falsa, quando è semplicemente dovuta a un accumulo
di grasso: in questo caso si parla di lipomastia.

Incidenza: numero
di nuovi casi diagnosticati in una popolazione di riferimento (ad esempio,
100.000 persone) in un arco di tempo, solitamente un anno.

Licopene: appartiene
al gruppo dei carotenoidi ed è abbondante nel pomodoro. È una sostanza
lipofila, quindi viene assorbito dai grassi e ha elevate proprietà
antiossidanti. È una molecola scavenger, cioè spazzina di radicali liberi,
molecole implicate nell’insorgenza dei tumori.

Macrofagi: detti
anche istiociti, sono cellule della difesa immunitaria aspecifica, con proprietà
di fagocitosi, cioè capacità di inglobare nel proprio citoplasma detriti
cellulari e particelle estranee. Ricoprono il ruolo di cellule spazzine
dell’organismo.

Melanoma: è il
più aggressivo dei tumori della pelle, poiché utilizza sia la via ematica, che
quella linfatica per diffondere le metastasi. Può prendere origine da un neo
cutaneo, ma non necessariamente, e può formarsi ovunque. Negli ultimi anni la
sua frequenza è notevolmente aumentata rispetto al passato anche a causa della
tendenza a esporsi a lungo al sole e alle lampade abbronzanti.

Per-Tac: tomografia
assiale computerizzata a emissione di positroni.

Psa (valori e rischio tumore):
il Psa –
antigene prostatico specifico – è un «marcatore» del tumore prostatico. Si
misura attraverso un’analisi del sangue: •
0-2,5 ng/ml: rischio basso; • 2,6-10
ng/ml: rischio moderato; • oltre 10 ng/ml: rischi
elevato.

Prevalenza: la
prevalenza dei pazienti oncologici è il numero di persone che hanno
precedentemente avuto una diagnosi di tumore, nella popolazione generale. È
influenzata sia dalla frequenza con cui ci si ammala, sia dalla durata della
malattia (sopravvivenza). Tumori meno frequenti ma con buona prognosi tendono a
essere più rappresentati nella popolazione rispetto a tumori molto più
frequenti ma caratterizzati da bassa sopravvivenza.

Rna messaggero: acido
nucleico con la funzione di trasporto dell’informazione genetica dal Dna
contenuto nel nucleo cellulare ai ribosomi del citoplasma cellulare, dove si
effettua la sintesi proteica.

Scintigrafia: esame
di medicina nucleare effettuato dopo la somministrazione di un tracciante
radioattivo, che si accumula preferenzialmente nel tessuto che si intende
studiare. È utilizzata per evidenziare la presenza di metastasi tumorali
localizzate nelle ossa.

Testosterone: ormone
sessuale maschile del gruppo androgeno, prodotto principalmente dalle cellule
di Leydig dei testicoli e, in minima parte, dalle ovaie e dalla corteccia
surrenale. Nell’uomo è deputato allo sviluppo degli organi sessuali e di tutto
l’apparato genitale, nonché dei caratteri sessuali secondari come la barba, la
distribuzione dei peli, il timbro della voce e la muscolatura. Nella pubertà
interviene anche nello sviluppo scheletrico, limitando l’allungamento delle
ossa lunghe ed evitando una crescita sproporzionata degli arti.

R.N.T.

Note (tecniche)
esplicative

 

(1) In particolare, vi sarebbero tre geni coinvolti
nell’eziologia di questo tumore: il Rnasel (detto anche Hpc1), la cui mutazione
può predisporre a infezioni virali; l’Msr1, importante per la risposta che i
macrofagi possono dare agli antigeni estei e la cui mutazione predispone alle
infezioni, soprattutto batteriche; il Brca2, il cui prodotto normale è
coinvolto nella riparazione di tratti cromosomici danneggiati.

(2) Secondo un recente studio di
E. Platz pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention
dell’«American Association for Cancer Research», la presenza di infiammazione
cronica nel tessuto prostatico benigno è associabile a un aumentato rischio di
tumore prostatico più aggressivo, anche nel caso in cui il livello del Psa
(antigene prostatico specifico) sia basso. Lo studio che ha coinvolto 18.882
pazienti ha dimostrato che quelli con il tessuto prostatico benigno infiammato
hanno probabilità 1,78 volte maggiore di ammalarsi di tumore della prostata e
2,24 volte in più che si tratti di una forma più aggressiva.

(3) Nella Iaa è evidente una proliferazione
dell’epitelio prostatico con la formazione di gruppi di neoformazioni
ghiandolari ben delimitate, senza quadro d’infiltrazione. Nella Pin, che può
essere di basso e di alto grado, si osserva una proliferazione epiteliale senza
neoformazione ghiandolare, con formazione di più strati di cellule, che
presentano alterazioni nucleari e nucleolari sempre più marcate mano a mano che
si va verso il grado più elevato e che presentano notevoli analogie con il
quadro riscontrabile nell’adenocarcinoma prostatico, la varietà più diffusa di
cancro della prostata.

(4) I parametri principali sono:
il Psa ematico, il rapporto Psa libero/Psa totale, la Psa velocity, ovvero la
velocità con cui il Psa aumenta nel tempo, il Pca3, nuovo marcatore su base
genetica (Rna messaggero), il Psma (antigene di membrana prostatico specifico)
e il Psap (fosfatasi acida prostatica specifica). Per quanto riguarda il Psa,
il marcatore più ricercato per effettuare la diagnosi, si tratta di una
glicoproteina contenuta nelle cellule epiteliali prostatiche acinari e dei
dotti sia normali, che neoplastiche. Si ritiene che in presenza di un elevato
ricambio cellulare (come avviene nei tumori) ci sia una perdita di coesione tra
le cellule epiteliali e i lumi dei dotti ghiandolari, con conseguente
immissione del Psa nel sangue.

Tags:

patologie oncologiche, indice di sopravvivenza, prostata

Rosana Novara Topino




2015: verso i nuovi obiettivi del millennio

Gli obiettivi per lo
sviluppo sono in scadenza. In 14 anni hanno tenuto alta l’attenzione su temi
cruciali. Alcuni indicatori sono pure migliorati. Ma non basta. Occorre
mantenere viva l’attenzione collettiva e attivare le coscienze.

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Il 2015 sarà un anno cruciale perché forse, il punto di domanda è d’obbligo in una situazione mondiale tanto turbolenta e densa di incertezze, le Nazioni Unite toeranno a essere un luogo dove ragionare e decidere sui veri problemi del mondo. L’occasione sarà data dalla nuova Agenda per lo sviluppo che i governi dovranno discutere e approvare dopo la scadenza degli Obiettivi del Millennio.

Come molti ricordano, gli Obiettivi sono stati individuati nell’Assemblea generale del 2000, quando la tragedia delle torri gemelle non si era ancora compiuta e l’Onu era considerata, dopo il crollo dell’impero comunista e la fine del bipolarismo, un luogo di rappresentanza e di negoziato in grado di dare una risposta ai bisogni vecchi e nuovi dell’umanità.

L’allora Segretario generale Kofi Annan aveva chiesto ai governi di passare dalle parole ai fatti individuando, tra i molti documenti dei summit per lo sviluppo celebrati nel decennio precedente, otto obiettivi concreti, chiari, misurabili, da raggiungere entro una scadenza prestabilita: il 2015 appunto.

Nel 2002, non appena si sono smorzati gli echi della tragedia dell’11 settembre che in quel periodo aveva completamente catalizzato l’attenzione e occupato l’agenda politica, Annan ha cercato l’avallo e il sostegno dell’opinione pubblica, chiamando i cittadini alla mobilitazione. Così migliaia di organizzazioni, Ong, sindacati, gruppi giovanili, scuole, amministrazioni locali e, per il loro tramite, milioni di uomini, donne e ragazzi hanno manifestato, sottoscritto petizioni, promosso iniziative di pressione a favore degli Obiettivi.

Tutti i paesi, dai più poveri ai più ricchi, sono stati attraversati da questo fermento: possiamo considerare quella sui Millennium Goals, la più grande campagna di opinione mai realizzata. All’iniziativa intitolata «Stand Up» (alzati in piedi contro la povertà), organizzata una volta all’anno, hanno partecipato milioni di persone (si calcola che nel 2009 siano stati 44 milioni).

Oltre a essere diventati il principale quadro di riferimento per politiche e programmi di cooperazione, gli Obiettivi sono stati il primo tentativo di riassumere in un documento unitario le molteplici componenti dello sviluppo umano, coniugando istruzione e salute, tutela dell’ambiente e parità di genere, trasferimento delle tecnologie e commercio internazionale.

Ben prima della crisi economica, la campagna ha evidenziato il carattere globale dei problemi: la povertà e la fame non riguardano solo i paesi del Sud del mondo, ma richiedono uno sforzo congiunto, le pandemie come l’Aids, la tubercolosi o le altre malattie contagiose non si fermano alle frontiere, ma possono colpire gli abitanti del mondo intero; l’emergenza climatica e l’esaurimento delle fonti energetiche non minacciano solo i paesi industrializzati, ma accrescono le difficoltà economiche dei paesi produttori di materie prime.

Nonostante la drammatica battuta d’arresto negli sforzi per combattere fame e povertà causata dalla crisi economica del 2008, gli Obiettivi del Millennio hanno prodotto effetti positivi. Secondo l’ultimo rapporto Onu di verifica, mezzo miliardo di persone è uscito dalla povertà assoluta, l’88% dei bambini e delle bambine viene oggi iscritto alla scuola primaria, con tassi di incremento del 15% in Africa e dell’11% in Asia. Il tasso di frequenza scolastica delle bambine nei paesi emergenti è salito dal 60% al 79%; 4 bambini su 5 vengono vaccinati, anche se il totale dei bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno di malaria e altre malattie curabili è di 9 milioni; le morti delle partorienti sono diminuite del 47% anche se sono ancora 287mila ogni anno, e di queste 50mila hanno meno di 19 anni. Grazie alla prevenzione e ai farmaci antiretrovirali, diminuisce il numero delle persone che contraggono il virus Hiv e muoiono di Aids, mentre i morti per la malaria sono diminuiti di un quarto.

Questi passi avanti sono il risultato dell’azione combinata di crescita economica, politiche governative, impegno della società civile e sforzo globale in favore degli Obiettivi del Millennio, dimostrando che, se gli obiettivi sono condivisi e si mettono in campo le risorse necessarie, i risultati arrivano.

Nel 2015 gli Obiettivi scadono e si rischia un vuoto di iniziativa. Per questo le Nazioni Unite hanno promosso il processo Beyond2015 (oltre il 2015), individuando i 12 Nuovi Obiettivi, a cui vale la pena di riservare la nostra attenzione nei prossimi mesi.

Sabina Siniscalchi
Tagks: obiettivi 2015, millennio, sviluppo, povertà
Sabina Siniscalchi




Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energicie virili nell’apostolato


Poche settimane fa, un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta, qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e meditazione spirituale.

Ho ripensato a questo piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe da dire. Che il culto del fitness, del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle donne sono lì, a fare palestra.

Quante volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso, lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce, cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo benessere.

Tempo fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare, entra, suda e starai bene.

Giuseppe Allamano sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo, intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr. 1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il semplice benessere fisico.

E noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità, risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente disinvoltura.

Un missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è. La miglior prova di questo è che ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia, forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente, la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto. L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale ha bisogno di ore di palestra.

Una missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto. Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte, totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di passaggio a segnare una crescita graduale.

È un mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per sostenerne l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura. Quanto valga tutto ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra» ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza, insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco, il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione: uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale ieri come oggi.

È interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

Tutte le 10 parole




Il convento dei rifugiati

Bangui: una
straordinaria storia di accoglienza

Il paese nel cuore dell’Africa
vive una stagione di persecuzioni e caccia all’uomo. Dopo alcuni mesi di
governo dei ribelli Seleka, si sono formate milizie di reazione. In mezzo i
civili, siano essi cristiani o musulmani. Obbligati a nascondersi o fuggire, lasciare
la loro terra. Oppure a morire sotto i colpi di un connazionale. 

Nella
capitale, donne, bambini e uomini si rifugiano dove possono.
Ed ecco che il
convento dei Carmelitani Scalzi si trasforma in uno dei campi profughi più
grandi e meglio gestiti. E i frati diventano dei grandiosi operatori di vita e
di speranza.


di Federico Trinchero, Marco Bello e Silvia C.
Turrin
________________________________________________

Bangui, 5 Dicembre 2013

Come penso abbiate già
saputo, oggi la situazione a Bangui è improvvisamente precipitata. Anche per
noi qui è difficile capire cosa stia veramente succedendo. Ci sono stati spari,
morti e saccheggi in quasi tutti i quartieri.

Al Carmel (il convento dei
Carmelitani) stiamo ospitando più di 500 persone. È difficile contarli tutti.
Provengono da diversi quartieri. La maggior parte sono bambini piccoli con le
loro mamme. Ma ci sono anche tanti ragazzi.

Siamo riusciti a dare un po’
di cibo caldo a quasi tutti. Gli studenti e i novizi si sono dati da fare senza
tregua. Ora la gente sta dormendo nel cortile tra la chiesa e il refettorio.
Sappiamo che la situazione è analoga in altre parrocchie e comunità religiose
della capitale.

6 Dicembre

La notte è passata abbastanza
bene per i nostri 600 graditissimi ospiti. Dopo la Messa delle 6 e 45 molti
ripartono per rientrare nelle loro abitazioni. Il coprifuoco è infatti
terminato. Provo a fare colazione, ma mi chiamano al portone d’ingresso. La
gente corre verso il convento. È il panico. Nel quartiere si spara. Li
accogliamo a braccia aperte. Li sistemiamo come meglio possiamo, anche se la
poggia, a un certo momento molto forte, rende tutto più difficile. Moltissimi,
ovviamente, sono bambini. Per fortuna c’è solo un ferito. Provo a contarli
discretamente, perché non vorrei mai che qualcuno pensasse che non ci sia posto
per lui. Sono quasi 2.000.

Telefoniamo all’arcivescovo,
in nunziatura, all’ambasciata francese per informarli della nostra situazione e
chiedere se ci possano dare una mano per nutrire la gente. Ma comprendiamo che
non siamo gli unici a vivere una situazione del genere. Attraversare la città
per venire qui da noi è difficile per tutti. Pazienza, ci organizzeremo
diversamente.

Verso le 10 due caccia
rombanti attraversano il cielo nuvoloso. Sono arrivati i francesi! La gente
applaude. Io quasi piango.

Poco dopo il cielo si
rischiara un po’. Gli uomini rientrano nei quartieri. Restano con noi le donne
e i bambini.

Non ho il coraggio di
chiedere a questa gente la loro storia e il motivo per cui sono qui. Chiedo ai
bambini il loro nome. Uno si chiama Shalom, l’altro Dieu Sauve
cosa volete di più? Le donne sono tutte concentrate a cucinare e a consolare i
loro bambini. I vecchi sono pochissimi. I volti più tristi sono quelli dei
giovani e degli uomini della mia età. Sono esausti. Che futuro li attende? Deve
essere insopportabile avere una voglia matta di ribellarsi e non poterlo fare.

In questi giorni non
riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. Inoltre la nostra chiesa è
ormai occupata da 300 bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I
loro strilli e il loro pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla
nostra salmodia. Dopo le 17 arrivano altri aerei. Siamo tutti con il naso
all’insù. I bambini non stanno più nella pelle e per qualche minuto dimenticano
la fame. Cose così le hanno viste soltanto nei film, e questa è realtà.

7 Dicembre

Alle cinque siamo quasi tutti
già svegli. Faccio un giro di perlustrazione. Trovo due famiglie nella sala del
capitolo. Poi vado in chiesa. Due bambini hanno pensato bene di mettersi a
dormire proprio sotto l’altare. Questo sì che è sensus fidei dei piccoli: non c’è posto più
protetto di quello. Altri sono addormentati sugli stalli del coro e pregano al
nostro posto. Gli uomini e alcune donne, come ieri, rientrano nei quartieri per
recuperare qualcosa, costatare i danni e, purtroppo, sapere chi è morto. C’è
una bambina che da due giorni cerca il suo papà e la sua mamma. Facciamo un
affido temporaneo alla cuoca che, con suo marito, nostra sentinella, abita
nella nostra concessione. Ha già tre figli e giusto qualche giorno fa le
chiedevo se pensava di fae un quarto. Eccola esaudita! C’è anche un papà con
un bambino di pochi mesi che da due giorni non trova sua moglie. Registriamo i
loro dati e spargiamo la voce. Alla sera il papà ritrova finalmente la moglie.

Alle 9 parte la «nettezza
urbana»… perché circa 2.000 persone che vivono insieme su uno spazio grande più
meno come un campo da calcio, hanno indubbiamente le loro esigenze e qualche
inconveniente. Se dobbiamo essere un campo profughi, lo dobbiamo fare bene. Con
i bambini ripuliamo tutta la zona. Poi in fila indiana ci si lava le mani e in
premio c’è una frittella. Nel frattempo la gente cucina, lava i bambini, fa il
bucato e stende i panni. Anche la rete del campo da pallavolo diventa un comodo
stenditornio. Organizziamo l’accesso all’acqua e ai wc; disinfettiamo con la
candeggina e delimitiamo le zone con la calce.

Cedric, il nostro medico da
campo continua a ricevere gente e distribuire medicine. I casi più gravi sono
nel noviziato. Continuano ad arrivare aerei,
ormai non li contiamo più. Verso le 15 arriva dal
vicario episcopale e dall’Unicef l’ordine di registrare tutti per ricevere
degli aiuti. Ci mettiamo subito al lavoro.

8 Dicembre

Abbiamo un po’ di paura per
gli uomini. Alcuni sono un po’ agitati e covano sentimenti di rancore. Inoltre,
pur essendo i più forti, sono i più minacciati. La Seleka li cerca e li vuole
eliminare. Qui da noi si sentono protetti.

Il numero dei nostri ospiti
supera ormai i 2.100. Per la precisione: 800 bambini con meno di 12 anni
(alcuni di pochi mesi); 600 donne (di cui non poche incinte…) e 700 uomini. Nel
pomeriggio si organizzano delle partite a calcio.

Arrivano anche i primi aiuti
dal nostro insuperabile Youssouf: un sacco di riso, uno di zucchero e un bidone
di olio. Per tutta la giornata andiamo avanti e indietro con la radio accesa
per capire cosa sta succedendo in città. Due elicotteri sorvolano la nostra
zona più volte. Dopo i pasti la nostra (com)unità di crisi fa il punto della
situazione. Condividiamo i problemi e le esigenze dei nostri ospiti,
distribuiamo gli incarichi, cerchiamo nuove soluzioni, moltiplichiamo tutto per
2.000 e speriamo che funzioni.

10 Dicembre

La Croce Rossa internazionale
ci informa che ci sono nella città una ventina di siti come il nostro. Anche
campi da più di 10.000 profughi. Cosa succede esattamente in città è per noi
difficile da capire. In alcuni quartieri è cominciato in modo capillare il
disarmo dei ribelli. Purtroppo ci sono già due vittime nell’esercito francese
venuto a liberarci. Ogni tanto non resisto alla tentazione e faccio un salto in
chiesa. L’altare è circondato da un giardino di visetti neri e occhioni
bianchi. Ma trovo anche Jean, 64 anni, il nostro profugo più anziano che ha
visto tutti i colpi di stato del Centrafrica. Tutti mi chiamano mon père, ma lui si è preso giustamente il
privilegio di chiamarmi mon fils. Ha un piede fasciato e cammina col bastone. Poco prima di cena
riesco a trovargli un letto, un materasso e un cuscino, e lo sistemo nella
stanza del capitolo. Da sei giorni andiamo avanti più o meno così. Stiamo
facendo una cosa che nessuno di noi aveva mai fatto e mai vissuto in vita sua.
Una Ong avrebbe fatto forse meglio, ma sicuramente più tardi. La Chiesa,
invece, è arrivata prima. Anzi: era già qui, non se ne è andata e quasi non si è
accorta di restare. E i poveri hanno capito che venire qui era fare la strada
più corta e andare nel luogo più sicuro.

13 Dicembre

La bella notizia è la visita
inaspettata del nostro coraggiosissimo arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Per
la nostra gente è come se fosse arrivato il papa in persona. Ci ha trovati al
lavoro: chi alla distribuzione del cibo, chi impegnato nella pulizia del campo,
chi intento a sistemare i teloni di plastica contro la pioggia, chi concentrato
a seguire i malati… Il vescovo, venuto con un imam, ha visitato il nostro
campo e poi ha fatto un breve ma forte discorso invitando tutti alla pace, alla
riconciliazione e al perdono. Anche l’imam ha fatto un discorso analogo. Come
potete ben capire, l’intento di questa visita è stato quello di gettare acqua
sul fuoco di uno scontro tra cristiani e musulmani che rischia di incendiare
l’intero paese. Vogliamo, possiamo e dobbiamo vivere in pace insieme. Il nostro
piccolo Carmel vorrebbe essere nient’altro che questo: una scintilla di pace in
un grande fuoco di violenza.

24 Dicembre

Purtroppo venerdì scorso ci
sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto
vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri
profughi. Come ogni giorno, verso le 7, ci avviamo verso il luogo all’aperto
dove celebriamo la messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni
molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la
celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato.
Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro
la messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza
dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un
gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono.
L’eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo
impenetrabile. Davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma
un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa,
raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa
eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra! La celebrazione termina e, in
pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventati circa
10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo
gestire una tale massa di gente. Ma, superato questo iniziale smarrimento e
sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto
finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti.


17 Gennaio 2014

L’avvenimento più importante è
stato, il 10 gennaio, quello delle dimissioni del presidente Michel Djotodia,
salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il
Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo. Ma, dopo
qualche ora di gioia e di speranza, la guerra si è di nuovo fatta sentire con
spari, morti, saccheggi e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto
vicini al nostro convento. I nostri rifugiati, quindi, hanno preferito restare
con noi, in attesa di tempi migliori e di una pace più vera. Secondo le ultime
stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire quasi un milione
– è attualmente sfollato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai
toppo abituata ai giochi di prestigio della politica.

Restare qui è una forma di
protesta pacifica per esigere al più presto una pace vera e non una pace a metà.

Nel nostro campo rifugiati la
vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di
migliaia di persone strette attorno ad un convento. È davvero interessante
osservare come la gente si è organizzata per sopravvivere in questa emergenza.
Si è creato addirittura un piccolo mercato di verdura, carne, generi alimentari
di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di
articoli religiosi, una specie di gioco del lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati.

Abbiamo fatto addirittura un
regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare un po’ di
più la notte. Non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità, tanto
che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito.

Un intraprendente comitato –
con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, ecc. -assicura il
trait d’union tra la comunità dei frati e i rifugiati per il
cornordinamento delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il
sindacato per i diritti dei rifugiati. Insomma: attorno al convento ora c’è un
Centrafrica in miniatura con tutti i suoi vizi e le sue virtù. E questa
coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare
di più le seconde.

Nel frattempo, oltre che ai
santi, ci affidiamo ai militari francesi, i quali stanno facendo un meticoloso
lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi
giorni fa, una pattuglia è venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è
fermato a parlare con noi per aggioarci sulla situazione. Purtroppo ci sono
ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale… e attorno al
nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo
che abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se
hanno addosso degli strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi
tenerezza questo giovane sergente! Prima di essere precipitato qui, tra Seleka
e anti Balaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci racconta che una
notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al
parto di una donna: «Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando
non siamo noi stessi costretti a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di
aiutare un bimbo a nascere». E poi, un po’ emozionato, mi rivela che da pochi
giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli che non ha ancora visto.

13 Febbraio

Il nostro campo profughi ha
ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero, chi l’avrebbe immaginato,
che quelle porte, spalancate il mattino del 5 dicembre dello scorso anno,
sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si
sarebbero così affezionati al Carmel!

Evidentemente, se sono ancora
qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a
migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto
notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conti. Ma la cosa
ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese
a essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti.

Se in capitale una certa
presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e
la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la
situazione è molto più complessa. Tutta la zona Nord occidentale del paese è
stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei Seleka ora degli
anti Balaka: saccheggi, uccisioni, tante case e mercati bruciati. Il paese è
entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello
che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno
scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime
innocenti. Se i Seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente all’origine
della situazione in cui ci troviamo, gli anti Balaka hanno dimostrato una
violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.

Gli anti Balaka, che non sono
musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il
contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta
reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come
cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci
consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati
centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle
parrocchie e nei conventi sparsi nel paese salvandosi la vita. Ma l’esodo di
questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche
alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur
essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora
più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali
del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio
dei generi alimentari di base – erano infatti in mano ai musulmani. Il futuro
del Centrafrica, anche quello economico, è quindi una vera incognita.

In questo quadro desolante c’è
stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo
presidente nella persona di Cathérine Samba-Panza, ex sindaco di Bangui (vedi box). Tale nomina è stata salutata
positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba-Panza ha una cosa
alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta:
il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia
difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare
alla pace.

La nuova
presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è
tutto un programma: Nzapayeke, che significa «Dio c’è». Un ottimo tandem con il
vescovo di Bangui, il cui cognome, Nzapalainga, significa «Dio sa». Quindi: Dio
c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel
cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che
sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.

Nel
frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli
insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. È sorta nel giardino
delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione,
seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore
scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e
sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi
come padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel. In questi giorni, la
gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal
nostro campo, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro
classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così
giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere
fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece,
da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario.

Se i
bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di
diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura
raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Quanto a
bambini, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, di
circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a Nord di
Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una
granata, e la sua casa è stata incendiata. Accompagnato da militari è arrivato
fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi
dell’aeroporto – che ospita circa 100.000 sfollati – un moto taxi lo ho
lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E
noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa del
suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza
troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato a usi e costumi del convento, forse
un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice
di poter dormire in un luogo sicuro.

25 Marzo

Fino a
pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai
5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la
gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare
da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto
i 15 anni). Nella capitale i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni
dei quali con molta più gente di noi.

5 Maggio

La guerra non è finita. Ogni
giorno, infatti, sappiamo di uccisioni e rappresaglie nei quartieri della città
o in altre zone del paese. Se la presenza dei militari impedisce che tali
episodi possano degenerare, la situazione resta comunque tesa e incerta. Anzi,
proprio durante la settimana santa, la Chiesa Cattolica si è trovata nel mirino
dei ribelli. A fae le spese è stato dapprima il vescovo di Bossangoa, una
diocesi a 400 Km da Bangui. Per fortuna è stato rilasciato il giorno seguente.
Il venerdì santo, invece, un sacerdote centrafricano, della medesima diocesi, è
stato barbaramente ucciso mentre stava raggiungendo in moto il villaggio di cui
era parroco.

Secondo l’ultimo censimento
effettuato da una Ong il numero dei nostri profughi è sceso e si è ormai
stabilizzato a 7.500. Siamo uno dei 5 campi profughi più grandi della capitale.
Vi sono state settimane nelle quali siamo stati molti di più. Ora tutti i
nostri ospiti hanno trovato rifugio sotto 79 tendoni di plastica, dove possono
abitare più famiglie insieme. Vi sono poi un centinaio di altre piccole
abitazioni. Il campo è diviso in 12 quartieri. Ogni quartiere ha un
responsabile coadiuvato da due consiglieri. Un comitato presiede e organizza
ogni attività. Ci sono un’équipe di vigilanza per la notte e un’altra per il
giorno; altre due squadre sono incaricate della pulizia dei servizi igienici,
del campo e della raccolta dell’immondizia. Un’altra squadra, formata di
giovani alquanto muscolosi, si occupa di scaricare i viveri. Ogni due
settimane, infatti, la Croce Rossa Internazionale deposita, in uno dei chiostri
del convento, tonnellate di riso, fagioli, 2.800 litri di olio e 12 grandi
sacchi di sale. Infine, un consiglio di 10 saggi – uomini e donne – svolge un
influente ruolo di controllo su tutte le attività. C’è poi uno spazio giochi
per i bambini, un ambulatorio medico e una scuola. In un cortile del convento è
stato installato un serbatornio da 10.000 litri di acqua che, dopo essersi
riempito durante la notte grazie alla nostra pompa, viene svuotato il mattino
seguente, in meno di un’ora, tramite 12 rubinetti.

Federico Trinchero*

*Padre Federico Trinchero,
carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du
Mont Carmel di Bangui.


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Dal golpe di Michel Djotodia
all’arrivo degli anti Balaka
Futuro incerto in Centrafrique


Gli spari sono forti e
chiari, singoli e vicini. Stiamo parlando al telefono con un conoscente. Lui è
a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove lavora per una Ong. «Aspettate,
vado a vedere che non siano troppo vicini». Poi torna la calma e la
conversazione riprende. In Rca è da oltre un anno e mezzo che si vive in
perenne stato di guerra, o di guerriglia. Nel dicembre 2012 furono i diversi
gruppi armati a maggioranza islamica che, coalizzati nella ribellione Seleka,
mettevano a rischio il regime decennale di François Bozize. Regime che
rovesciarono il 24 marzo dell’anno successivo, quando, presa la capitale,
Michel Djotodia, numero uno della coalizione, divenne presidente grazie a un
colpo di stato (si veda MC ottobre 2013). Così in un paese dove la
popolazione è cristiana all’85%, il governo e l’esercito diventarono a
schiacciante maggioranza musulmana. Di più: tra i comandanti, molti non erano
neppure centrafricani, ma sudanesi o ciadiani. La Seleka controllava tutto il
territorio nazionale, sebbene suddivisa in tante fazioni, non molto cornordinate,
mentre le istituzioni dello stato erano di fatto scomparse. Così i gruppi
ribelli dettavano legge, perseguitavano e taglieggiavano la popolazione.

«Gli anti Balaka hanno origine come meccanismo di
autodifesa contro i soprusi della Seleka – ci racconta una nostra fonte locale
– nascono a Bassangoa (nell’Est del paese a forte presenza cristiana, ndr)
poi si moltiplicano nelle altre città». Queste milizie, sedicenti cristiane,
diventano il nuovo elemento di instabilità. Combattono dapprima contro la
Seleka, ma iniziano subito a commettere persecuzioni e rappresaglie nei
confronti dei musulmani in genere. Il conflitto prende una piega
etnico-religiosa, tant’è che le Nazioni Unite mettono in guardia contro il
rischio «genocidio». Gli islamici lasciano in massa il paese. È il 5 dicembre
che gli anti Balaka attaccano la capitale. «Sono armati di armi “artigianali”,
machete, qualche arma da fuoco. Restano milizie non cornordinate tra loro, anche
nella stessa località si possono avere tanti gruppi diversi, poco collegati.
Sicuramente ci sono dentro banditi, qualcuno che ne approfitta. C’è poca
politica» continua la nostra fonte. Eppure i dubbi di un appoggio esterno ci
sono: secondo il Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite: «François Bozize
fornisce sostegno materiale e finanziario a delle milizie […] che cercano di
riportarlo al potere, ovvero gli anti Balaka, ed ex membri dell’esercito
centrafricano». Levy Yakété, vicino a Bozize prima del colpo di stato, è
accusato di organizzare distribuzione di machete a giovani cristiani
disoccupati, allo scopo di attaccare i musulmani. I due personaggi, insieme a
Nourredine Adam, numero due della Seleka, sono stati raggiunti da sanzioni
inteazionali dell’Onu.

La Francia decide di irrobustire la
sua presenza, fino a quel momento di 600 militari, arrivando a 2.000 e battezza
l’operazione Sangaris.

Diversi
scontri delle milizie cristiane si verificano anche con le truppe della Misca,
la missione di pace dell’Unione africana, circa 5.400 uomini, di cui fanno
parte 830 militari ciadiani. Ed è proprio contro questi che si accaniscono gli
anti Balaka, accusandoli di collusione con la Seleka.

Il presidente ciadiano Idriss Déby,
cambia atteggiamento rispetto alla crisi. Il Ciad è stato coinvolto fin
dall’inizio nel ruolo di mediatore, ma allo stesso tempo ha molti interessi in
campo, e ha appoggiato la Seleka (di cui diversi ufficiali sono ciadiani). Déby,
presidente di tuo della Cesac (Comunità economica degli stati dell’Africa
centrale), il 10 gennaio convoca un incontro di vertici a Njamena durante il
quale i presidenti dell’area decidono che Djotodia deve passare la mano. Così
il presidente Seleka «forzato alle dimissioni» abbandona e si trasferisce in
Benin per un esilio dorato (durante poco più di 9 mesi di potere è riuscito a
mettere da parte una discreta fortuna, grazie al commercio di pietre preziose).

Il Consiglio nazionale di
transizione (Cnt), parlamento provvisorio della Rca, composto da 135 membri,
elegge il sindaco di Bangui, Chathèrine Samba-Panza, nuovo presidente della
Repubblica ad interim, incaricata di organizzare le elezioni generali.
Nominato un nuovo primo ministro, André Nzapayéké, il 27 gennaio viene varato
un nuovo governo, molto simile al precedente, in cui entrano gli anti Balaka.
Ma gli scontri non si placano e, mentre Bangui resta in mano ai francesi della
Sangaris e alla Misca (dalla quale il Ciad ha ritirato i suoi uomini), le
truppe della Seleka ripiegano nelle loro zone di origine (a Nord Est) per
riorganizzarsi, mentre nel resto del paese imperversano gli anti Balaka.

Il 10 aprile il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite vota l’invio di una forza di pace di 11.800
caschi blu, che però non arriverà prima del 15 settembre, mentre l’Unione
europea manderà un contingente di 500 uomini.

Benché sia ben accetta dalla
popolazione, la Samba-Panza ha poco margine di manovra. Nel paese ci sono
almeno 200.000 sfollati interni e 60.000 rifugiati oltre confine. Intanto
l’esodo dei musulmani, sia stranieri sia centrafricani, continua con ogni
mezzo. «La situazione è molto preoccupante – riprende il nostro interlocutore –
le milizie delle varie fazioni fanno tutto quello che vogliono e nessuno può
intervenire».

Marco Bello

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Incontro con il musicista Bibi Tanga


Note di pace

«Il
problema del mio paese è la classe dirigente che non sta assolutamente
dimostrando di essere impegnata, né è interessata a trovare una soluzione seria
a ciò che sta accadendo. L’attuale generazione politica non è all’altezza del
proprio compito e sta calpestando i nostri diritti».

Così denuncia l’artista centrafricano Bibi Tanga, nato
nel 1969 a Bangui, poi trasferitosi in Francia con la famiglia dopo aver girato
mezzo mondo. Cresciuto nella periferia parigina, ha sviluppato una doppia
cultura, conservando le proprie radici nella terra d’origine, la Repubblica
Centrafricana. «La maggior parte dei miei familiari – ci racconta – vive ancora
laggiù. In questa situazione così instabile e tormentata i miei rapporti con
loro sono quotidiani. Cerco di sentire telefonicamente i miei parenti ogni
giorno». Preoccupazione comprensibile, considerata l’involuzione
politico-sociale che sta attraversando questa nazione, da quando, nel marzo
2013, il presidente François Bozize è stato costretto a lasciare il paese per
l’incapacità di arginare gli scontri del gruppo ribelle chiamato Seleka. 

Compositore,
bassista, interprete eclettico ed estroso, Bibi Tanga ha vissuto in Russia,
negli Stati Uniti e in Belgio, seguendo il padre diplomatico e funzionario
della Repubblica Centrafricana. La passione per la musica si è rivelata in lui
molto presto. Non ancora adolescente, Bibi Tanga ha imparato il solfeggio,
dedicandosi poi allo studio del basso, ed è in Francia che ha iniziato la sua
formazione musicale, ascoltando in particolare Jacques Brel, Curtis Mayfield,
James Brown e Bob Marley. Il suo sguardo artistico spazia quindi dal soul al
reggae, dal funk alla chanson française, ma il richiamo dei suoni della
Madre Africa lo hanno ridestato. Si è avvicinato alla musica di Fela Kuti col
suo irresistibile e politicamente impegnato afrobeat: una scoperta artistica
che per Bibi Tanga diventa una rivelazione sorprendente. Attingendo a tutte
queste influenze, l’artista centrafricano ha pubblicato nel 2000 il suo primo
album dal titolo Le vent qui soufflé, cui seguono Yellow Gauze
(2006), Dunya (2009) e 40° Of Sunshine (2012). Dischi pieni di
contaminazioni e di fusioni, come lui stesso sottolinea: «La mia è una “musica
senza frontiere”. Una definizione, questa, che mi piace. In fondo, tutta l’arte
in generale vede l’incontro di molteplici influenze. Non ci sono solo i ritmi
africani nei miei lavori, ma molto altro». 

In
questo «altro» ritroviamo riferimenti sia alla vita di tutti i giorni, sia alla
situazione politico economica dell’Africa. Ritroviamo anche una mescolanza di
lingue – francese, inglese, sango – come pure il forte attaccamento alla terra
che gli ha dato i natali. «Il legame che nutro verso il mio paese è ancora più
intenso, considerato il dramma che sta vivendo. Ho voluto mantenere la
nazionalità centrafricana, talmente è forte l’affetto che provo per la mia città
d’origine. Bangui è stata sfigurata, distrutta dai recenti avvenimenti – spiega
con inquietudine l’artista – e la situazione continua a essere catastrofica. I
civili vengono massacrati, anche in altre zone del paese. Ma non voglio cadere
nella disperazione. È necessario pensare alla ricostruzione e a una soluzione.
Con la mia musica cerco di parlare di pace anche ai miei connazionali. Per
esempio, nel mio ultimo album intitolato Now ho inserito la canzone Ala
Za ï
che nella mia lingua matea, il sango, significa proprio pace».

E di pace ne avrebbe davvero bisogno la Repubblica
Centraficana, la cui storia, sin dall’indipendenza avvenuta nel 1960, è sempre
stata tormentata da colpi di stato e regimi dispotici. Anche se Bibi Tanga non è
stato contrario all’intervento francese in Centrafrica nel dicembre 2013,
l’artista attraverso la sua musica deplora l’uso delle armi. Nel brano «Ngombe»,
cantato sempre in sango e inserito nel nuovo album Now, denuncia chi
utilizza il fucile per avere ragione, per dimostrarsi il più forte, per avere
il diritto di parlare. «Cantare nella mia madrelingua è un modo per sentirmi
vicino ai miei familiari, ai miei connazionali e alla mia terra d’origine, per
la quale sogno un futuro senza più massacri, senza più bagni di sangue. Spero
che la mia musica possa cambiare le coscienze».

Silvia C.
Turrin

Tags: guerra, violenza
Seleka, Anti-Balaka, rifugiati, guerra civile, convento, Carmelitani,
insicurezza, accoglienza, Centrafrica, Bibi Tanga, pace, musica, Michel Djotodia, Chathèrine Samba-Panza

Federico Trinchero e altri